Di Redazione (del 04/09/2018 @ 13:43:20, in NohaBlog, linkato 2751 volte)

La piccola Noha, città dei cavalli, diventa grande, grandissima, vista a bordo di un carretto.

È una coloratissima tradizione - alla quale partecipano destrieri e cavalcature da tutto il circondario - la Fiera dei Cavalli, fulcro dei festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie, compatrona di Noha.

Una giornata di festa dove, dalle 9 alle 13 di domenica 9 settembre, l'area adiacente il campo sportivo si muta in uno scenario da cow boy, con i meravigliosi cavalli da sella, i carretti con le decorazioni dipinti a mano, i traini, le parature, i nastrini colorati, gli animali al trotto, gli antichi calessi e anche il consueto mercatino dove contrattare con veri e propri maestri sellai e palafrenieri e acquistare finimenti pregiati, ma anche campanelle portafortuna e altri oggetti caratteristici.

La festa comincia già da sabato 8, con la processione delle 19.30 accompagnata dalla banda "San Gabriele dell'Addolorata" di Noha, cui segue lo spettacolo dei fuochi d'artificio a cura della ditta Coluccia da Galatina alle 20.30 e l'esibizione dell'orchestra Simpatia.

Domenica 9, dopo la fiera, la festa si chiude alle 21 con il Cabaret dei Malfattori.

 
Di Marcello D'Acquarica (del 06/10/2018 @ 10:08:50, in NohaBlog, linkato 1701 volte)

Alla stupidità umana non c’è limite. Dopo aver visto prati e marciapiedi disseminati di bottiglie vuote, probabilmente lanciate al volo dal finestrino delle auto di qualche cranio pieno di birra ma carente di materia grigia, dopo aver visto montagne di plastica da pacciamatura (copertura per gli ortaggi, soprattutto angurie, per impedire la crescita dell’erba) ammucchiate e incendiate, dopo aver visto lastre intere di eternit disseminate ovunque, dopo aver visto sacchetti di rifiuti domestici gettati ai bordi dei campi, con all’interno ancora corrispondenza e bollette con gli indirizzi degli autori, mi mancava giusto questa nuova specialità dell’intelligenza di alcuni nostri cari concittadini che evidentemente non hanno colpa alcuna se non quella di essere nati proprio così.

Oggi percorrendo via Tito Lucrezio, in corrispondenza della masseria Colabaldi, area già martoriata da discariche abusive di inerti da lavorazioni edili (rifiuti speciali altamente pericolosi), con aria preoccupata e quasi sul disperato, il signor Angelo, il nome è inventato per una questione di riservatezza, mi corre incontro per dirmi che da qualche giorno c’è un tizio che per raccogliere le lumache, così dette “moniceddrhe”, sta demolendo la cisterna adiacente all’antica torre della Masseria Colabaldi, bene archeologico risalente al 1595.

Mi prega di seguirlo. Quello che vedo è raccapricciante. Questo posto, che ha visto nascere e morire famiglie intere di madri e figli, padri e nipoti da oltre 400 anni, adesso sta per essere distrutto non più (o non solo) dall’incuria, ma dalla criminalità più bieca e insulsa che si possa immaginare.

E non finisce qui. Sempre sullo stesso bene culturale che è quella gloriosa cisterna di oltre quattro secoli, si è accanita la deficienza concentrata nella massa organica di chissà quale altro esemplare di concittadino, il quale si arroga il diritto di avere attivato un inceneritore personale dei suoi rifiuti, ma non capisce di essere lui stesso un rifiuto.

 
Di Antonio Mellone (del 06/10/2018 @ 16:35:50, in NohaBlog, linkato 1408 volte)

Chi avrebbe mai pensato che dopo le Fette di Mellone mi sarei dovuto dare anche a quelle di Mango. Va bene, ci sarebbero pure gli Avocado; ma confesso di avere una certa repulsione nei confronti di codesto secondo diciamo frutto, soprattutto se a km zero. Non ne parliamo poi se marcio dentro. Oltre che mefitico lo trovo alquanto lassativo, e poi basta la sua visione, pure per caso e di sfuggita, per farmi venire il topico attacco di urticaria alle mani - il cui unico antidoto sembra essere la dattiloscrittura dell’ennesimo pezzo sardonico.

Mo’ cosa c’entrano Mango e Avocado? Come non lo sapete? Non avete ultimamente dato un’occhiata alla gazzetta ufficiosa o al corriere della cameriera o, alternativamente, a quella grandissima testa di quotidiano?

A tipografie unificate sembra non si parli d’altro, e cioè che “potrebbe essere la frutta tropicale a ridare un futuro agli agricoltori pugliesi colpiti [sic] dalla Xylella”.

 
Di Antonio Mellone (del 16/10/2018 @ 14:08:37, in NohaBlog, linkato 1251 volte)

E così una sera di fine estate decidi di rinunciare a una delle tue uscite con amici e amicie, per trascorrerla in compagnia di suor Orsolina D’Acquarica e di altri sulla bella terrazza di Marcello (il fratello della sorella), da cui si domina Noha e il suo skyline.

Lei, alla fine della cena (una frisella al pomodoro), sta mangiando una mela; te ne offre uno spicchio perché “se mangi da solo rischi di ingozzarti”.

Hai davanti a te, dunque, la “Madre Teresa” di Noha, con la differenza, rispetto a quella di Calcutta buonanima, che questa donna non è conosciuta dai Media Mainstream, non  ha vinto il Nobel, non viaggia in prima classe e in Superjet, e forse mai ne produrranno in Cina l’effigie in serie da comò. Ne ha però in comune il fisico minuto e l’altezza (stavo per dire la statura), tanto che per rientrare entrambi nelle foto a corredo di queste righe io ho dovuto piegare un po’ le ginocchia mentre lei s’è dovuta alzare sulle punte dei piedi: ciò non toglie che nella suddetta istantanea il gigante è lei, il lillipuziano il sottoscritto.

 Suor Orsolina, al secolo Maria Annunziata, ottantaquattro estati addosso, e un numero di chilometri che tende a infinito (in più sensi), con il suo eloquio fluente ti parla della sua vita, della decisione di farsi suora (“Rifarei cento volte la medesima scelta di vita.”), e delle sue missioni in terre tutt’altro che comode, come invece sarebbero quelle di più antica anagrafe cristiana.

 
Di Antonio Mellone (del 21/10/2018 @ 16:34:48, in NohaBlog, linkato 1634 volte)

Ci sono settimane in cui la congiunzione astrale (ovviamente non ci credo) ti permette di riuscire a far tutto: oltre al resto, leggere un libro, andare al cinema, frequentare un teatro e scrivere un pezzo per i tuoi quattro lettori tendenti a uno.  

La scorsa settimana, per esempio, non solo ho partecipato al sublime spettacolo teatrale su Giulio Cesare Vanini: “Il più bello e il più maligno spirito”, a cura della compagnia Alibi presso Levèra di Noha (lasciatemelo dire: uno tra i circoli culturali più attivi del Salento, che dico, di Puglia) e visto al cinema il mirabile remake “A star is born”, con Bradley Cooper e Lady GaGa, ma ho letto d’un fiato anche tre libri.

Certo, non sto parlando di tre dei sette ponderosi tomi della Recherche di Proust, per quelli ci avrei impiegato un po’ di più, ma di tre volumi meno inabbordabili ancora caldi di torchio, come “Il giro dell’oca” di Erri De Luca (di questo autore non riesco proprio ad attendere le edizioni economiche, questa volta di Feltrinelli), “So che un giorno tornerai” di Luca Bianchini (chiedo venia, ma come diceva quello semel in anno…), ma soprattutto “Il patto sporco” con Nino Di Matteo a cura di Saverio Lodato (Chiarelettere).

Vorrei soffermarmi un attimo su quest’ultimo scorrevolissimo trattato, di cui consiglio vivamente la lettura. Come qualcuno di voi sa, benché giornali e tv abbiano dato la notizia un po’ sottotono, il 20 aprile 2018 la Corte d’assise di Palermo ha pronunciato una sentenza di condanna (in primo grado) alla fine del lungo processo sulla Trattativa. Nonostante anni di delegittimazioni, silenzi, depistaggi, derisioni, intimidazioni e mistificazioni contro Nino Di Matteo e gli altri inquirenti da parte di tanti buoni a nulla ma capaci di tutto, inclusi politici, istituzioni, giornalisti e (addirittura) magistrati, si è giunti finalmente a un primo importante verdetto giudiziario, con il quale, motivate in 5.252 pagine, si infliggono pene a mafiosi ma anche a uomini dello Stato. Ora spero che una buona volta si riesca a capire il fatto che gli esponenti delle istituzioni non erano accusati per il fatto di aver “trattato” (nessuno infatti era imputato per questo), ma per il reato di “minaccia a corpo politico dello Stato”: insomma i mafiosi, di aver minacciato quei governi, eseguendo stragi (a Roma, Milano e Firenze, e prima ancora a Capaci e a Palermo) e consumando minacce accompagnate da richieste e papelli volti a influenzare le decisioni degli organi dello Stato; gli uomini delle istituzioni, per il medesimo reato ma a titolo di concorso.

 
Di Antonio Mellone (del 29/10/2018 @ 13:57:32, in NohaBlog, linkato 1060 volte)

Ieri mattina ovviamente ero presente alla manifestazione No-Tap convocata a San Foca all’ombra della torre di guardia del XVI secolo - emblema, anche questo, della resistenza dei salentini contro ogni invasore.

Non è stata una manifestazione contro i Cinque Tap, i parvenus della diciamo politica che in nome di un’immaginaria analisi costi-benefici si son rimangiati i grandi ideali sbandierati fino al giorno prima delle elezioni; e nemmeno contro il resto dei pOLITICI peggiori di loro che a decine, in tempi non sospetti (anzi sì), hanno sfilato a Melendugno, mano al petto per il giuramento, microfono in bocca per professare il Verbo, e penne in pugno per la firma sulla carta lunga morbida e ahimè non resistente contro il gasdotto, e tuttavia privi dei rispettivi album per la collezione delle loro successive e in molti casi concomitanti figure di merda.

Sì è trattato invece di una specie di Speaker’s Corner - chi è stato a Londra o chi ha studiato inglese almeno alle medie sa di cosa si tratta – dove alcune persone, tra i quali alcuni professionisti, professori universitari, attivisti, il sindaco di Melendugno e molti altri amministratori pubblici, alcuni provenienti addirittura da fuori provincia [peccato che, salvo errori o smentite, non abbia notato su quella riva battuta dallo scirocco anche qualche esponente politico del mio Comune, ndr.], i quali han preso la parola per esprimere il proprio punto di vista, il disappunto, la delusione certamente, ma soprattutto la voglia di continuare a lottare contro un’opera che il popolo stanziato su questo territorio (si chiamerebbe sovranità) considera inutile, dannosa, costosa.      

Io non ho preso la parola perché m’illudo di andare meglio agli scritti che all’orale, ma insomma se fossi intervenuto avrei parlato dell’analisi costi-benefici.

Ebbene sì, non tutti hanno chiaro cosa sia un’analisti costi-benefici, spesso confusa con l’analisi finanziaria, la quale considera solo i costi e i ritorni monetari per l’investitore.  

L’analisi costi-benefici, nella quale il giudizio politico è di fondamentale importanza, misura invece l’aumento (o la riduzione) di benessere per la collettività. Nel caso specifico, non so voi ma io davvero non riesco a vedere chissà quali benefici.

Forse lo sconto del 10% sulla bolletta del gas? Uhahaha. La creazione di posti di lavoro? Dio non voglia siano quelli dei reparti dei nosocomi o degli addetti alle pompe funebri. Il gas che sarebbe una fonte rinnovabile? Di rinnovabile il gas ha solo le concessioni statali a favore delle solite multinazionali del profitto privato. La riduzione dell’effetto serra? Eh sì, tempo fa se ne diede la colpa alle flatulenze dei dinosauri (sicché scomparvero, pare, più che per un meteorite per il meteorismo). La diversificazione delle fonti di approvvigionamento di energie? Ma se in Azerbaijan già usano il gas russo. Allora per evitare le penali (onde TAP = Ti Abbuono Penali)? Peccato non si sappia ancora oggi dove sarebbero contemplate codeste penali.

Chissà, magari nell’analisi costi-benefici evidentemente avranno considerato Tap come un promoter del turismo, un toccasana per le praterie di Posidonia e Cymodocea Nodosa, un “tubicino” per la “cura della Xylella” [sì, abbiamo sentito anche questa, ndr.], e magari quella portata infinita di piatti di lenticchie che non smette ancora di farci leccare i baffi.  

Non so voi, ma io credo che quando le analisi costi-benefici vengono redatte (seppur venissero redatte) con i glutei, chi ci rimette è sempre il culo di Pantalone.

Antonio Mellone

 
Di Antonio Mellone (del 20/11/2018 @ 20:19:13, in NohaBlog, linkato 1366 volte)

A me duole il cuore ogni volta che osservo lo stato in cui versano le nostre Casiceddhre in miniatura, architettate ed eseguite in pietra leccese dallo scultore Cosimo Mariano all’inizio del secolo XX e lasciate marcire nel degrado e nell’abbandono dai noi altri contemporanei del XXI.

Certo, ora ci sarà chi si permetterà di fare dell’ironia spicciola sui beni culturali nohani, chi dirà che non sono assolutamente paragonabili alle opere di Leonardo da Vinci, che ci sono “ben altre” priorità e che, magari, la cultura non si mangia [in effetti per mangiarla bisognerebbe prima masticarla, ndr.].

Per quanto ovvio, del tutto inutile sarà spiegargli il fatto che non importa il pregio, la rarità o l’antichità dei singoli oggetti di un patrimonio artistico, bensì il contesto, la relazione spirituale e culturale che li unisce alla vita locale.

Vorrei appena ricordare che questo piccolo complesso monumentale è scenografia di romanzi (come “Il Mangialibri” di Michele Stursi, ma anche “Lento all’ira” di Alessandro Romano), contesto di innumerevoli racconti (alcuni contenuti in altri volumi, tipo “Salento da Favola”, edito da quiSalento), argomento di cataloghi d’arte e libri di storia, servizi giornalistici, trasmissioni televisive, ricerche da parte di studenti di ogni ordine e grado scolastico, e finanche tema di interi capitoli di tesi di laurea in conservazione dei beni culturali. Oltretutto le Casiceddhre sono anche un “Luogo del Cuore” del FAI, ancor oggi ammirato da decine di viaggiatori, e da quei nohani che hanno occhi per guardare il bello nei tesori a loro più vicini.

Non so se abbiate mai notato il fatto che quando capita un disastro (un’alluvione, un terremoto, eccetera) le persone che hanno perso tutto spesso esprimono anche l’angoscia per la distruzione del patrimonio storico e artistico, emblema della loro identità. 

 
Di P. Francesco D’Acquarica (del 28/11/2018 @ 19:46:17, in NohaBlog, linkato 1376 volte)

Bellissimi questi ricordi, mentre P. Francesco ricorda e si emoziona nel rivedere quei posti dove è stato bambino, ci regala dettagli  storici del nostro territorio che altrimenti non avremmo potuto conoscere. Ci permette anche di notare, ahimè, la condizione di abbandono di quella campagna e di solennità perse riguardanti i viali e il caseggiato.

Un aspetto, questo dell’abbandono, riscontrabile un po’ ovunque nelle nostre campagne:

canali colmi di rifiuti, vore ingolfate da discariche d’ogni genere (come la Marsellona del sito in questione), recinzioni senza “scarichi” che di fatto sono barriere, e ruderi. Questo è spesso lo scenario che accomuna le nostre campagne.

Non basta dire che la colpa è di questo Ente o di quel Comune, forse servirebbe di più un esame di coscienza collettivo.

Marcello D’Acquarica

Emozioni e ricordi

Quanti ricordi, quante emozioni vissute nella campagna di Noha il 23 novembre scorso. Mi si è data l’occasione di rivisitare quella che era stata la proprietà dei Signori Gizzi. L’estensione dei loro terreni tanti anni fa era enorme, oggi è suddivisa in 10 proprietari diversi.

Quando ero piccolo, vi sto parlando di un po’ di anni fa, (dal 1935 al 1945), durante l’estate mia madre mi portava a trovare il nonno (suo papà) che coltivava la campagna nella contrada “Monta-nara”, rretu lu muredhra, a lli Chiriatti, che confinava con li Gizzi. Lì conobbi Don Nicola, che poi divenne mio padrino di Cresima. Giusto perché chi legge si possa rendere conto di quale periodo sto parlando: io ho ricevuto il sacramento della Cresima il 27 giugno 1945.

I Gizzi erano una delle tante famiglie immigrate a Galatina, (come i Liguori, gli Astarita, i Pennino, e via dicendo). Abitavano a Galatina in Via Siciliani al numero 73, ma l’estate venivano qui, nella campagna di Noha, per godersi la frescura.

Il padre, Vincenzo (il M° Gizzi), nato a Castel di Sangro, in provincia dell’Aquila, il 10 febbraio 1854, fece di Galatina la sua città, dove morì all’età di 86 anni. Era direttore di banda (da qui il soprannome di “capibanda” dato a tutti i componenti della sua famiglia), e aveva una forte influenza sui figli: una ragazza, casalinga, Marianna Grazia, detta donna  Nina  e tre maschi: don Eugenio, professore di musica, don Raffaele tipografo e don Nicola, coltivatore diretto.

Don Eugenio fu professore di matematica nella scuola ‘media’ privata galatinese, ubicata presso l’Orfanotrofio femminile, che evidentemente funzionava anche da pensione, visto che teneva lezione soltanto per le studentesse esterne, pendolari o fisse. E tuttavia egli considerò l’insegnamento della matematica il modo più onesto e leale di guadagnare per vivere, mentre i suoi interessi intellettuali più profondi lo portarono a coltivare la musica, e meglio ancora la nobile arte della composizione, alla quale dedicò tutta la sua vita personale e privata.

Don Raffaele, impiantò una tipografia, dislocandola in via Siciliani, esattamente a fianco dell’abitazione della famiglia.

L’altro, don Nicola, divenne meccanico, tra i primi attivi a Galatina, fra l’altro proprietario di una moto (una “Guzzi”), di quelle che raramente circolavano nel territorio provinciale. Era a suo modo uno spirito creativo, studioso delle meccaniche motoristiche, tanto da venire poi chiamato ad insegnarle nella locale Scuola d’Arti e Mestieri. Aveva aperto un’attrezzatissima officina in via Turati, e anche lì riceveva i propri allievi, impartendo loro “lezioni pratiche” che completavano il ciclo di quelle teoriche tenute nelle aule scolastiche. I galatinesi lo rispettavano e per loro era “don Nicola”, il professore che di pomeriggio era in tuta, con le mani nere di olii e di grassi, e non di rado, la sera, teneva corsi complementari sui motori a scoppio per due e per quattro ruote.

Nessuno dei fratelli Gizzi si sposò: perciò questo cognome non è più presente a Galatina e la loro proprietà fu lasciata in eredità alla Chiesa Madre.

Nello scrigno dei miei ricordi ricordo bene donna  Nina e i tre maschi: don Eugenio, don Raffaele e don  Nicola. Il padre don Vincenzo, non l’ho mai conosciuto. Mi avevano insegnato a chiamarli con il  ‘don’ perché gente ricca e benestante. Quando si spostavano da Galatina alla campagna, dovevano passare per forza da Noha, davanti a casa mia in Via Aradeo e ricordo ‘lu durote’ con il cavallo guidato da don Raffaele. Ho potuto assistere alla morte di don Eugenio, perché da ragazzino ogni tanto andavo a trovarli e mi trovai nei momenti estremi della sua vita. Poi entrai in seminario e non ne seppi più nulla.

Nel periodo in cui i Gizzi erano in campagna, don Nicola,  che era molto pio, ogni giorno in bicicletta veniva a Noha prima delle ore 13 per fare la Santa Comunione. In quel tempo non c’era ancora la Messa della sera e per aver diritto alla Santa Comunione bisognava essere digiuni dalla mezzanotte, astenendosi anche dal bere l’acqua. Lui osservava il digiuno eucaristico fino alle ore 13, l’ultima ora possibile per ricevere l’Eucaristia: nel pomeriggio ciò era vietato, e lui ci veniva ogni giorno. Essendo mio padrino di Cresima, a volte si fermava dai miei, chiedendo di vedere la mia pagella scolastica per informarsi sul mio andamento di piccolo allievo alle elementari. Alla mia prima Messa celebrata a Noha (3 aprile 1961) mi regalò il calice per la celebrazione. Conservo anche una registrazione della sua voce che feci con il registratore “Geloso” quando ero già sacerdote.

A distanza di tanti anni ho rivisto quella campagna che avevo frequentato nella mia infanzia. Forse il mese di novembre non è il tempo migliore, perché la pioggia abbondante di quei giorni non mi ha permesso di entrare nei campi allagati. Ma ho avuto l’impressione di una campagna abbandonata. Mi ha impressionato la ‘vora’ ingolfata con il canale di scolo che non è più canale ma palude a ridosso dei terreni allagati. Il grande viale d’entrata con i due filari di rose che dalla strada conduceva all’abitazione non c’è più, ma è rimasto un  triste passaggio senza la solennità di 70 anni fa; le maestose colonne con il cancello sono state rimosse e sistemate vicino alla villetta che era abitata dai Gizzi: per fortuna la casa è ancora quella. Gli alberi da frutta non ci sono più. La villetta ora è abitata per poco tempo durante i mesi estivi e gli uccelli ne diventano gli abituali abitanti abusivi.

Ho rivisitato quello che era il soggiorno dell’abitazione dove la famiglia Gizzi consumava il pranzo. Ho rivisto con l’immaginazione la famiglia Gizzi riunita per il pranzo, dove a volte io capitavo e mi offrivano la frutta che per me era come una rarità. Ho rivisto l’angolo dove c’era una specie di  poltrona: lì don Nicola si sedeva e, a suo modo, quando andavo a trovarlo, mi coccolava. Anche la volta della sala è ancora affrescata come allora: mi è sembrato come se il tempo si fosse fermato.

Ringrazio Angelo Di Benedetto, detto Lillino Papatore, l’attuale proprietario dell’ex villino Gizzi, che mi ha dato la possibilità di rivivere uno squarcio della mia infanzia. Gli ho regalato il volume “Noha, storia, arte e leggenda” pubblicato nel 2006 insieme ad Antonio Mellone. Insomma, grazie a lui ho rivissuto un altro tassello della storia di Noha mescolato alla storia della mia vita.

 

  P. Francesco D’Acquarica

 
Di Antonio Mellone (del 05/12/2018 @ 23:04:12, in NohaBlog, linkato 2441 volte)

A Noha c’è un bel gruppetto di ragazzi che sta facendo la rivoluzione.

Si tratta del collettivo di Levèra, il centro culturale ubicato in via Bellini, che da un annetto a questa parte sta provando, riuscendovi finalmente, a infrangere l’ancestrale pax locale - intesa purtroppo come penuria di impulsi intellettuali diretti a un elettroencefalogramma per troppo tempo parallelo a (se non proprio coincidente con) l’asse delle X.

Giuro, non pensavo arrivasse a fare di un luogo sufficientemente decentrato, come quello nohano, un epicentro di onde ideali così lunghe da reindirizzare i segnali che pervengono ai nostri sensi (tra cui immagini e suoni) dall’amigdala (sede delle emozioni - soprattutto della paura) al cervello neocorticale (luogo della ragione, del discernimento, e quindi della critica).

Sì, servono più strumenti (inclusa la frequenza di un circolo culturale come questo) per liberarsi dal giogo opprimente del caporalato politico, emanciparsi dal tifo nei confronti dei burattinai di turno, sciogliere il cappio della sempreverde servitù neo-conformista, e superare una buona volta l’analfabetismo funzionale sopra e sotto i palchi dei comizi.     

Senza nulla togliere alle altre benemerite associazioni del territorio, di circoli Arci come il Levèra di Noha non ve n’è (scusate il pleonasmo) di uguali in tutta la Puglia quanto a numerosità e soprattutto qualità delle iniziative culturali. Levèra - che con licenza poetica potrebbe anche essere letta come parola tronca (dunque come voce del verbo) - non è nata per provocare un terremoto, ma per provare a innescare un bradisismo positivo, un spinta costante verso l’alto, sì da permettere alla nostra Terra di godere possibilmente di più ampie vedute, e magari di più chiari orizzonti.    

 

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