Di Albino Campa (del 03/12/2008 @ 15:05:55, in Eventi, linkato 3973 volte)

A MILANO, in uno spazio espositivo in corso Porta Romana 51, dal 6 al 16 Dicembre gli ULIVI DI PAOLA RIZZO . Un pezzo di salento nella grande Metropoli!


“Il carattere sacro della natura”
emerge nelle opere della pittrice Paola Rizzo, che saranno esposte all’ interno di uno spazio espositivo in corso di Porta Romana, 51, dal 6 al 16 Dicembre a Milano. I grandi oli della pittrice si presentano come ampie scenografie di paesaggi dall'aperta solarità mediterranea.
La pittrice pugliese vede negli alberi d'ulivo i protagonisti di storie secolari, chiavi di lettura per intendere un mondo che le appartiene per nascita e per formazione, ma come nel teatro greco più arcaico, collega ogni storia individuale ad un medesimo, comune, universale destino. Alla monotematicità dei soggetti pittorici non corrisponde alcuna facilità o immediatezza di lettura delle opere, perchè il linguaggio della giovane artista, già maturo, racchiude in sè anche la concettualità del simbolo. Dall'albero, quale archetipo di longevità e di stabilità cosmica, l'artista ne segue la genesi, con le abili pennellate di tipo segnico ne percorre i canali di sviluppo del suo divenire, per scoprire la "struttura sottesa, l'impresso codice genetico, il comune DNA, quale carattere universale, rivelato nella specificità d' ogni forma". Per questo, facendo leva
sulla sua fervida creatività, Paola Rizzo mimetizza abilmente, all'interno della rugosa corteccia di quei vetusti giganti vegetali, figure umane che si avvitano e si divincolano (quasi fossero prigioni michelangiolesche) entro gli stretti legami della materialità esistensiale. L'artista, facendo leva sull'inconscio collettivo per risalire all' "archè" e per percorrere la genesi d'ogni cosa, opera un processo di metamorfosi osmotica, capace di elevare la naturalità dell'uomo a dimensioni di superiori sfere, per liberarne la spiritualità e rivelarne la sua sacrale componente di "un essere dalla natura cosmica".

 
Di Albino Campa (del 29/11/2008 @ 14:54:38, in Eventi, linkato 3825 volte)
Eccovi di seguito gli atti del convegno per la presentazione del libro "Il sogno della mia vita" di don Donato Mellone che ha avuto luogo nel salone del circolo culturale "Tre Torri" di Noha il 18 ottobre scorso, nell'ambito della rassegna nazionale Ottobre piovono libri. Noi di Noha.it ovviamente eravamo presenti.



Presentazione del libro

Il sogno della mia vita”


(Circolo culturale Tre Torri – Noha, 18 ottobre 2008)


Buonasera a tutti e benvenuti a questa manifestazione in cui parleremo di libri.

Questa serata rientra in un cartellone che ormai esiste dal 2006, e nel quale proprio dall’inizio io ho avuto l’onore di far parte per esserne stato sempre invitato come relatore. La rassegna si chiama: “Ottobre piovono libri. I luoghi della lettura.” Sottotitolo: “Il Salento ed altre storie”.

Questa manifestazione, come avrete visto dal manifestino, è promossa in collaborazione con tante istituzioni che non sto qui ad elencarvi, e comprende presentazioni di libri, maratone di lettura, bookcrossing (cioè incrocio o scambio di libri), letture di brani nelle chiese, nelle scuole, nelle biblioteche, nei parchi, e anche negli ospedali o nelle carceri o negli autobus, ecc.

Questa sera siamo in un circolo culturale. Il circolo culturale “Tre Torri” che ringraziamo per l’ospitalità.


*


Permettetemi ora di aprire una parentesi e la chiudo subito. Qualcuno m’ha chiesto: a che serve la presentazione di un libro?

Vi dico intanto cosa è la presentazione di un libro. La presentazione di un libro è una specie di battesimo del libro. E la si può fare anche più volte. Solo che la seconda volta anziché chiamarsi battesimo, si chiamerà magari cresima.

La presentazione di un libro la si può fare anche se il libro è già conosciuto e, come in questo caso, sia già in circolazione da tempo.

Un libro vive di vita propria. Una volta messo in circolazione non ha più bisogno dell’autore. Però un libro, come una persona ha bisogno di momenti comunitari, magari di festa.

Sicché la presentazione di un libro che come sapete potrebbe essere fatta in televisione, in casa tra amici, in un oratorio, in piazza, o in un circolo culturale, come stasera, deve essere semplicemente un momento di festa.

 

E qui siamo ad una festa, c’è anche il video, c’è la musica (dal vivo, grazie Maestro e grazie e bravi ragazzi!), c’è l’ospite o la madrina della serata, la Giuliana Coppola, dopo ci sarà anche un rinfresco, e tutti voi alla fine avrete anche una piccola immagine in dono: la bomboniera. Ecco cos’è la presentazione di un libro. Una festa necessaria. Che serve al libro in sé, e non necessariamente all’autore o al curatore o all’editore.

Un’ultima cosa brevissima sul concetto di “evento culturale”. Si è parlato di evento culturale, lo avete anche letto sull’invito o sul manifestino. Ma volevo farvi capire che la cultura non è l’evento in sé, che è qualcosa che passa: la cultura è quello che rimane dell’evento. Se di un evento non rimane nulla, allora è meglio non farlo. Di questo evento spero vi rimanga qualcosa. A me certamente rimarrà molto. Chiusa la parentesi.

 

* * *




Io vi presenterò un libro la cui edizione è fresca anzi ancora calda di torchio (è uscito infatti nel mese di giugno di quest’anno) ma di fatto si tratta di un libro che era già stato scritto in diversi anni - una cinquantina circa - a partire dagli anni quaranta del secolo scorso.

Si tratta di un libro i cui paragrafi erano già scritti e sparpagliati in fogli di quaderni trovati per caso. Sicché il mio lavoro è stato come quello per esempio del cuoco (sul libro ho scritto “del sarto”, ma dovevo trovare un’altra metafora per non ripetermi), un cuoco che ha già gli ingredienti a portata di mano e si diletta a preparare a sperimentare un nuovo piatto con una combinazione inedita di elementi noti, mettendoci un po’ di sale ed anche un pizzico di pepe.

Il cuoco di un libro si chiama “curatore”. Il curatore è colui che cerca di legare le parti di un libro, cerca di spiegare, di mettere in relazione, di commentare, di ricordare, di narrare qualche aneddoto; in questo caso è quello che ha scelto la copertina, il carattere, le dimensioni del volume, le foto, i colori, la carta del libro, l’impaginazione, gli spazi tra un rigo e l’altro, e molte altre cose.

Chi di fatto ha scritto il libro invece è l’autore.

Dunque questo libro, diciamo, per l’80% non è stato scritto dal curatore (cioè io che avrò al massimo scritto il restante 20%), ma dall’autore che è il qui presente Donato Mellone (ho detto Donato Mellone perché quando si parla di autori non ci vanno i titoli: dottore, don, professore, onorevole, o zio…).

Ma c’è un’altra particolarità.

Nel 99% dei casi l’autore è consapevole non solo di quello che ha scritto ma anche del fatto che ciò che ha scritto è destinato ad un prodotto editoriale. Cioè è destinato a comporre le pagine di un libro.


Nel caso di questo libro, invece, l’autore sapeva certamente di aver scritto delle cose su dei quaderni: omelie, pensieri, prediche, panegirici. Ma non avrebbe mai pensato che in occasione del suo sessantesimo di sacerdozio, che ricorre proprio in questo 2008 (il 18 luglio scorso, per la precisione: giusto tre mesi fa a partire da oggi), - l’autore dicevo, non avrebbe mai pensato che le sue omelie si sarebbero trasformate in questo libro.

Per forza di cose l’autore doveva rimanere all’oscuro di tutto, altrimenti al sottoscritto curatore non sarebbe mai stato permesso non dico di mettere tutto assieme ma nemmeno di leggere i manoscritti o di riprodurre le foto.

L’autore poi in maniera intelligente ha accettato il tutto, una volta messo di fronte al fatto compiuto. Poi magari ci dirà se ha gradito o meno.


Il titolo del libro… Beh lascio a voi scoprire il perché di quel titolo. Altrimenti che ci state a fare? A cosa servirebbe un lettore se tutto gli venisse scodellato?

Sappiate solo che la storia del titolo di questo libro è bella e sarebbe proprio da leggere. Non vorrei dirvi altro: Elias Cagnetti ebbe a scrivere: “Chi mi consiglia un libro me lo strappa di mano, chi lo esalta me lo guasta per anni”.


Il lavoro del curatore – sappiate - non così facile come potrebbe sembrare a prima vista. Il curatore non si limita a “copiare” (“copiare” con tanto di virgolette). Il curatore deve anche interpretare, capire, deve andare un po’ più in là dell’apparenza.

Nel mio caso è stato come fare un viaggio nel tempo. Ritornare indietro nel tempo per respirare l’aria, l’aura, la cornice di quei quaderni. Del resto riordinare le carte di un archivio è sempre fare un’avventura contro tempo, quando il passato si svela con sorprese inimmaginabili e senti che alcune cose ti appartengono per chi sa quale strampalato marchingegno.


Il presente lo conosciamo attraverso la televisione (purtroppo), mentre i decenni scorsi li conosciamo attraverso i libri e attraverso la visita dei luoghi, oserei dire anche attraverso le pietre.

Allora, sono andato a rileggermi tanti libri per rituffarmi nel periodo degli anni ’40, ’50, ’60. E poi i miei anni ’70, ’80 e ’90, gli anni che mi appartengono. Così non ho potuto non rileggermi Umberto Eco e la sua “La misteriosa fiamma della regina Loana”; un sacco di libri sul mitico ’68, e poi ancora i libri di Antonio Antonaci come per esempio il “Gaetano Pollio”, il “fra’ Cornelio Sebastiano Cuccarollo”, il “Luigi Accogli”; ancora alcuni libri sulle cronache del tempo, per esempio alcuni volumi de “L’Espresso” di quegli anni (che vendevano in allegato con Repubblica) e poi ancora il bellissimo e recente libro di Michele Rielli “Salento anni ’60 (Congedo Editore, 2007), e poi il libro “Memorie di Galatina” di Giuseppe Virgilio (sempre Congedo, 1998), e ovviamente “L’immaginazione che voleva il potere”, AAVV di Manni del 2004, e tanti altri. I libri si parlano tra loro del resto.

Ed altre decine di libri, tra i quali – non stupitevi - qualche testo mio come il “Don Paolo” e il “Noha – Storia, arte, leggenda”.

Cosa credete? Anch’io devo spesso andare a rileggermi quei due o tre libri che ho scritto! Mica mi ricordo tutto.


Poi ho pescato molte cose nella mia memoria di chierichetto, tra l’altro ritratto con altri ragazzi-colleghi sulla prima di copertina. E poi ho chiesto informazioni a destra e a manca. E soprattutto, per descrivere alcuni ambienti, ho dovuto visitare i luoghi del tempo che fu: la vecchia chiesetta di Santa Maria al Bagno, mi sono intrufolato fin nella vetusta sacrestia nella quale ci sono ancora alcune sedie mezzo sgangherate, ma anche nella nuova chiesa dedicata all’Assunta, costruita dal qui presente Donato Mellone stesso. Sono stato a Santa Caterina in quell’altro tempietto. Mi sono recato a Nardò nella cattedrale per percepire nella fissità arcaica di quella maestosa chiesa l’atmosfera solenne dei riti, molti officiati dallo stesso qui presente Donato Mellone, che di quella cattedrale fu viceparroco; ho visitato alcuni ambienti del vecchio seminario, l’episcopio, e villa Tabor a Le Cenate di Nardò. Eccetera.

I luoghi della chiesa di Noha e della canonica ce li ho, anzi ce li avete presenti tutti. Anzi proprio in questo momento, in questi locali, aggrappati alle pietre e agli anni di questi muri, ci sono le storie e le immagini della canonica del tempo narrato nel libro.

Insomma elementi importanti per la sceneggiatura, diciamo.

Dunque nulla di improvvisato. Non si improvvisa nemmeno se si copia.

“Bisogna saper copiare” - ci hanno sempre detto a scuola.

Ora prego Paola Congedo a leggere due brevi brani del sottoscritto, così sentirete con le vostre orecchie se ho copiate bene o male…



(Ecco uno dei due brani letti dalla Paola Congedo)


Da pag. 34

Don Donato, nelle funzioni solenni, e specialmente nel corso del triduo pasquale, voleva che i giovani (finalmente!) fossero presenti sull’altare, accanto al celebrante, nella lettura del “Passio”, della preghiera dei fedeli, ma anche nel corso di tutta la messa, senza bisogno di indossare alcuna tunica o veste liturgica.

Erano “grandi conquiste”, cose inaudite né mai viste prima di quei tempi.

Anche a Noha erano finalmente finiti i tempi in cui le “pizzoche” assistevano attivamente alla messa semplicemente recitando il rosario (che altro potevano fare se non intendevano né potevano ritenere nella loro mente il latinorum?).

A dire il vero, alcune di queste “comandanti di plotone” le vedevi annuire alle parole del prete che recitava preghiere in latino: volevano quasi dimostrare di essere in grado di capire quelle espressioni (latine o italiane che fossero), ma in realtà molto probabilmente non sapevano neanche di cosa il prete stesse parlando.

Al tempo della messa in latino le immancabili pie donne, sovente, ripetevano per assonanza, a memoria (e oltremodo deformavano) le parole che venivano fuori dalla bocca del parroco o da qualcuno più istruito che padroneggiava quella lingua, senza conoscere il reale significato, ma con tanta apparente devozione.

Perciò capitava spesso di ritrovarsi in un coro di fedeli che miscelava frasi e parole latine con il dialetto di Noha: l’esilarante spettacolo era assicurato: “Dominu vu mbiscu”, “Requie e statti in pace”, “Amme”.


* * *

Molti fedeli non sapevano né leggere né scrivere. E quando chi scrive, vestito da chierichetto, distribuiva i foglietti della messa, non era infrequente che qualcuno gli dicesse di non poter leggere. Era facile accorgersi della loro ignoranza; che i più furbi cercavano di mascherare in qualche modo, per esempio adducendo la scusa di aver dimenticato gli occhiali a casa.

Era bello vedere la “Nzina”, la “Tetta”, la “Sina” e la “Vata” tutte prese rigorosamente sotto braccio, dirette alla volta della messa vespertina.

Erano vere e proprie comitive di amiche, colleghe di nero vestite, con abiti e scamiciati perlopiù taglia “over-size”, donne pronte ad intonare, con voci più o meno accordate, più o meno nasali, seguendo chi più chi meno il tempo, l’inossidabile e bellissimo canto “Tantum ergo” (o come a squarciagola stornellavano le allegre comari: “Santu mergo”), ma anche il nuovissimo “Noi canteremo gloria a te…”.

 

Queste donne, così desiderose di spiritualità, erano quasi legate alla sottana (si potrebbe dire così?) di don Donato, tanto che lo seguivano in ogni iniziativa proposta.

Così, una volta, nel Seminario Vescovile di Nardò si tenne un convegno su Bioetica e Religiosità, il cui relatore principale era monsignor Elio Sgreccia, teologo e presidente della Pontificia Accademia Pro-Vita.

Orbene, alcune delle donne cattoliche nohane venendo a sapere dell’importanza del relatore vollero non solo partecipare a tutti i tre giorni del simposio, ma giocando d’anticipo sulle altre colleghe-concorrenti provenienti dalle altre parrocchie della diocesi, riuscirono anche a prendere i posti in prima fila, diremmo “in poltronissima”, onde esser accorte, attente a non perdere nemmeno una parola delle relazioni.

Ma per un paio di esse il tutto fu inutile.

Non passò molto dall’inizio del meeting che, sarà per la comodità della poltrona, sarà per l’ambiente ovattato, sarà per il rilassamento post-battaglia per accaparrarsi i primi posti, sarà per i discorsi invero un po’ monotoni o soprattutto difficili per le loro menti, sarà, dicevamo, per tutte codeste concause prese all’unisono, un paio di esse caddero inesorabilmente nelle braccia di Morfeo: si addormentarono, trasportate dalla voce del monsignore. Il quale, senza dover scrutare oltremodo l’attenzione dell’uditorio, se ne accorse, e ironicamente nel suo discorso fece pure cenno al “trasporto” con il quale qualche signora, assisa proprio di fronte a lui, seguiva la sua prolusione…

Alla fine della lectio magistralis, le belle addormentate, non solo si svegliarono di botto ed applaudirono entusiaste, ma al loro ritorno a Noha non finivano di dire a tutti: “Come è stato bello il convegno, e quanto era bravo il relatore!”>>.

 

* * *


Dopo tutto questo lavoro preparatorio si è potuto procedere alla ricopiatura dei quaderni.

Ecco, in questo libro ci sono 14 quaderni scampati al macero per un caso fortuito. Non vi racconterò - neanche in questo caso – tutta la storia avventurosa di questi quaderni, altrimenti non la leggerete dalle pagine del libro e vi soffermerete e vi limiterete a guardare le foto (vizio di molti).


Si tratta di quaderni stracarichi di anni e di esperienza. Quaderni pieni di versi che sono arrivati fino al nostro tempo a volte senza compiersi per una pazienza che non so capire. Ma come invece capiremo dalla lettura di qualche brevissimo brano, finché ogni giorno ognuno di noi può stare anche su un solo rigo delle scritture sacre o su queste di questo libro che di quelle parlano, riusciremo a non mollare la sorpresa di essere vivi.


Prego Ileana, ora tocca a te.


(Brani letti dall’attrice)



Da pag. 57: La vita è un viaggio spesso doloroso. In questo viaggio sovente si scivola, si cade, si smarrisce la via, ma chi si è comunicato bene la prima volta, si rialza, se si è perduto si ritrova, perché la Comunione accende una stella sulla che attraversa il mare della vita, conduce al porto dell’eterna salute.





Da pag. 67: Noi moderni tutti assillati nella conquista dei beni della terra, abbiamo quasi dimenticato i beni dello spirito; mai come oggi l’umanità è stata trascinata verso la terra, verso la materia, verso le paludi dell’immoralità; mai come oggi l’umanità incredula, scettica nelle verità della fede si è affannata e si affanna a chiedere alla terra, ai beni della terra, la felicità che essi non potranno mai dare.



 

Da pag. 75: Chi è mai in grado di evitare tutti i dolori, i fastidi, le avversità, le malattie, le contraddizioni, le delusioni che l’esistenza di quaggiù riserva al più innocente degli uomini? Se dunque la croce è di tutti, perché rifiutarla, perché non farne tesoro, perché non abbracciarla? Perché guardarla con diffidenza e scansarla o voler liberarsene ogni volta? Come potremo portarla trionfalmente in cielo, se oggi la temiamo e la disprezziamo?



Da pag. 77: La fede che Gesù vuole da noi non deve aver bisogno di miracoli.



Da pag. 78: Di fronte alle angosciose contraddizioni della vita ed alle prove più dure, non mettiamoci a ragionare, non pretendiamo di avere spiegazioni da Dio.



Da pag. 94: La vergogna di certi errori non deve allontanare dal perdono.



Da pag. 113: All’umiltà si oppone l’orgoglio e noi pecchiamo così spesso d’orgoglio. Che cosa è infatti il non voler riconoscere mai il proprio torto, il voler sempre occupare i primi posti, quel criticare le azioni del prossimo, il non accettare i richiami di alcuno?



Da pag. 123: Ricordiamoci che con Cristo si vince sempre. Passeranno gli anni, passeranno i secoli, non importa. Cristo non ha fretta, perché è eterno.



Da pag. 125: Per molta gente rozza non esiste che il lavoro materiale, esso solo è degno di compenso, ad esso solo si attribuisce il progresso umano. Ma c’è un lavoro alto, nobile: quello del pensiero, quello della poesia e dell’arte, e quello ancora più sublime della creazione della santità. Senza questo lavoro non può esserci popolo civile.



Da pag. 135: Ma siamo tutti fratelli! Se un mio fratello cade nel male, chi mi dà il diritto di condannarlo? Chi mi ha costituito giudice?



Da pag. 136: L’uomo ozioso non si occupa di nulla. Sa di avere un’anima da salvare, ma praticamente vive come se non ce l’avesse. Pensiamo che la nostra vita passa. […] Il tempo è nelle mani di Dio. Il tempo vola.



Da pag. 143: Saremo noi giudicati del bene e del male compiuto, saremo giudicati anche del bene che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.



Da pag. 159: La chiesa è la casa della preghiera, il luogo in cui la creatura viene ad umiliarsi davanti al suo creatore, a chiedergli perdono delle sue colpe, ad adorarlo, a glorificarlo, rendergli il supremo culto. Nella chiesa tutto è sacro, tutto è santo, sacre le immagini, le reliquie, sacre perfino le mura, i santi sacramenti, la divina parola, sante le funzioni che in essa si celebrano. La casa di Dio non solo deve essere rispettata, ma in essa devono essere santi tutti i nostri pensieri, tutte le nostre opere, tutte le nostre parole.



Da pag. 153: Quando il peccatore si curva su se stesso, riconoscendo i propri torti ed invocando perdono e misericordia, allora Dio si abbassa e quasi lo abbraccia con il suo perdono.


Da pag. 156: Sentiamolo nel cuore l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo come noi stessi. La stessa misura che noi avremo usato nel trattare col prossimo, quella stessa misura ci sarà usata dinanzi a Dio.



Da pag. 162: Noi i Santi ce li immaginiamo lontani, invece ci sono vicini, sono nostri fratelli, forse nostri fratelli di sangue.


Da pag. 164: A noi tocca essere bravi cristiani e bravi cittadini. Si è bravi cristiani se si è bravi cittadini e viceversa.


Da pag. 165: Dal buon uso della lingua scaturisce la civiltà, dal cattivo uso di essa viene fuori la barbarie.


Da pag. 182: Siamo dei nomadi in cammino verso una patria eterna.


* * *

Grazie Ileana. Ora la parola all’autore Donato Mellone (vi confesso che mi risulta difficile, quasi innaturale chiamare Donato, chi ha scelto di essere per sempre don Donato).


* * *


Intervento di P. Francesco D’Acquarica, Missionario della Consolata. Ha raccontato alcuni aneddoti del periodo in cui, al rientro dalle missioni in giro per il mondo, ha soggiornato a Noha ed ha collaborato con don Donato. Molto divertenti (accompagnati da applausi e risate) gli aneddoti risalenti agli anni ’70. In particolare quello del traino della sua vettura da parte della mitica 600 di don Donato, dalla città di Parabita a Noha: 12 km di difficoltà, colpi di scena, drammi, risate.

Molto simpatica anche la storia del clergymen di don Donato acquistato con l’ausilio di P. Francesco a Roma da De Ritis, negozio di abbigliamento religioso (ubicato nella strada romana che dal Pantheon conduce a Porta Argentina) poco prima di partire in pellegrinaggio alla volta di Lourdes…


* * *


Intervento di don Donato Mellone, molto applaudito.

- Racconto della favola della “montagna che partorisce il topolino”;

- “Ma io non voglio essere Donato Mellone; io voglio essere don Donato Mellone;

- “Non mi piace e non so parlare nei convegni. A me piace parlare in chiesa. Ma quando parlo in chiesa non sono io che parlo è un Altro che parla per me”;

- “Io non sono nessuno. Io sono il topolino di cui vi parlavo. Non sapevo nulla di questo libro. Se avessi saputo qualcosa, sarei, come dire, scomparso dalla circolazione”

- Ringraziamenti.


* * *


Intervento della giornalista e scrittrice prof.ssa Giuliana Coppola.

(Non abbiamo la registrazione. Diciamo soltanto che l’intervento di Giuliana, bellissimo, ascoltato in religioso silenzio per tutti i suoi quindici minuti, ha incantato l’uditorio).



* * *



Grazie Giuliana, ci hai commosso.


A me ora non rimane che concludere. E come ogni buona conclusione che si rispetti dovrei terminare con dei ringraziamenti. Ma stavolta non farò un elenco interminabile di persone da ringraziare. Mi limito a ringraziare soltanto una persona per tutti. Non ne dirò il nome per non nominarlo invano. Capirete di chi si tratta.

Ma dopo le bellissime parole della Giuliana, non posso più usare parole mie. Per esserne all’altezza devo prendere in prestito le parole di un grande scrittore, Erri De Luca, stese alla pag. 18 del suo libro “Nocciolo d’oliva” (ed. Messaggero, 2002), quello stesso dal quale ho tratto l’incipit del libro che stasera abbiamo festeggiato e che vi leggo di seguito.

Allora, ringrazio Chi…

“…Nacque e fu vivo grazie al solo prodigio di cui non fu lui stesso autore.

Per tutta la vita, poca, cercò di pareggiare il conto di quell’ingiustizia, fino a farsi appiccare sopra l’osceno patibolo romano che esponeva la morte in alto, in vista, a manifesto. […]

Per tutta la vita, poca, fu abitato da una folla di bambini mancati, dal dolore delle loro madri. Così poté sopportare quello della sua, ai piedi della croce.

Molti dei suoi prodigi erano […] miracoli, ma non colossali, non inceppò la macchina del cielo come Giosuè, che fermò il sole in Gabaòn e la luna sulla valle di Aialòn. Non aprì le acque come Mosè, però ci camminò sopra senza bagnarsi.

Non creò il frutto della vite, ma seppe provvedere, in una festa, a vendemmiare vino dall’acqua.

Non creò il sole, il fuoco, né luna, né stelle già create, ma diede vista ai ciechi e questo è un modo di inventare luce.

Non ebbe figli, non procurò una sua discendenza, ma litigò con sua sorella morte e le strappò di mano un corpo già in sepolcro, riportandolo indietro a rivivere, certo, ma anche a rimorire.

Fu battezzato in acqua dolce, amò la pesca, frequentò pescatori, ne riempì le reti, placò le ondate di una tempesta sul lago di Tiberiade. […]

Delle scritture sacre preferì Isaia; di Davide gustò più i salmi che le imprese. Discendeva da lui, così vuole la legge del Messia. […]

Chiese all’offeso di esporre l’altra guancia, mettendo l’offensore al rischio del ridicolo, ma pure stabilendo un termine alla prova: in numero di due, non più, sono le guance.

Non scrisse, non dettò, le sue parole facevano il viaggio delle api sopra i petali aperti delle orecchie. Salvò una donna dalla condanna di lapidazione chiedendo ai suoi accusatori che il primo di loro, se puro da peccati, si facesse avanti con la prima pietra. Sapeva che gli uomini tirano volentieri le seconde.

Diverse donne lo seguivano di luogo in luogo alla pari degli apostoli. Non pretese astinenza; il celibato venne dopo, a chiese fatte.

Sudò sangue, morì con tutto il corpo resistendo alla morte con nervi, fiato, febbre, piaghe e mosche intorno all’agonia. Risuscitò per intero, carne, ossa e promessa di essere solo il primo dei destinati alla risurrezione.

[…] Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto”.


Ecco a questo protagonista - non a me - vorrete indirizzare l’applauso del ringraziamento.

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 11/09/2008 @ 16:40:25, in Eventi, linkato 2900 volte)

Eccovi, pescato, da YouTube, ma messo online dal nostro compaesano ed amico Davide gestore di Sanmichelenoha.it, il video del primo motoraduno MOTO GUZZI che ha avuto luogo a Noha il 7 settembre 2008. Anche se a dire tutto il vero noi preferiamo i cavalli in carne ed ossa (la cui festa sarà celebrata domenica 14 settembre 2008) a quelli dei cilindri delle motociclette.
A breve, nella gallery, anche le foto dell'evento.


Ecco un altro video...

 
Di Albino Campa (del 16/07/2008 @ 12:03:29, in Eventi, linkato 3551 volte)
Clicca per visualizzare la copertina

Venerdi 18 luglio 2008 il nostro parroco emerito, l'arciprete don Donato Mellone, festeggerà con una Messa solenne di ringraziamento, che verrà celebrata presso la chiesa Madonna delle Grazie di Noha, il 60° anniversario della sua ordinazione sacerdotale.
Con l'occasione verrà presentato in anteprima (qui lo diciamo sommessamente ai nostri amici internauti, pregandoli di non dire niente a nessuno prima di quella data) il suo libro dal titolo "IL SOGNO DELLA MIA VITA", con sottotitolo "appunti inediti, trascritti (all'insaputa dell'autore) ed annotati a cura diAntonio Mellone". Volume del quale - davvero in anteprima assoluta - presentiamo qui la copertina.
Noha.it formula a don Donato le sue congratulazioni e gli auguri di lunga vita e lungo apostolato nella comunità nohana.
Il sito http://www.noha.it raccoglierà, stamperà ed invierà al festeggiato i messaggi che voi, cari internauti, vorreste fargli pervenire in maniera particolare.
 
Di Albino Campa (del 12/03/2008 @ 23:36:13, in Eventi, linkato 4191 volte)

Dall’alto di un traìno
un giorno nella città dei cavalli

di Valeria Nicoletti

Non parte chi parte. Parte chi resta. Sembra recare con sé questo sussurro la tramontana che accarezza le case infarinate di Noha e solletica i pini e gli aranci. In realtà, è un nohano, puro fino al midollo, a ribadire questo singolare assioma. Antonio Mellone, che tornando in terra natia solo il sabato e la domenica, si riscopre sempre più legato alle strade ariose e alle piazzette assolate della sua Noha. E, per un giorno, con l’entusiasmo di chi è partito lasciando un pezzo di cuore nel suo paese, diventa guida insostituibile per le vie nohane.
Nessun treno arriva a Noha. Tappa obbligatoria è la vicina Galatina, la città “che ci ha inglobati e, soprattutto, dalla quale ci siamo fatti inglobare”, dice Antonio con tono amaro. Bastano poche centinaia di metri, infatti, e ci si lascia alle spalle la città per giungere nella piazza di Noha, frazione dal 1811. Piazza San Michele, cuore pulsante del paese, con il bar Settebello, la chiesa, la Torre dell’Orologio che, forse per un inconsapevole rispetto ai ritmi lenti di Noha, non sfoglia le ore ma si limita a dominare la piazzetta, e poi le voci, le notizie, i cappelli abbassati su volti rugosi immobili sotto il sole, e, proprio dietro l’angolo, lo studio d’arte di Paola Rizzo, pittrice e insegnante. Qui il profumo dei pasticciotti caldi, l’aroma del caffè, la sigla de “L’osservatore nohano”, gazzettino della frazione, ma soprattutto il sapore della genuinità e la sete di cose vere, sono solo l’inizio di una mattinata tutta nohana, all’insegna del suo spirito autentico, in questa che ormai, nonostante il disinteresse dell’amministrazione locale, inizia ad essere conosciuta come la “Città dei Cavalli”.
Proprio dalla bottega d’arte di Paola, infatti, redazione e fucina di idee, nacque l’idea di aggiungere sul cartello alla scritta Noha il degno sottotitolo di Città dei Cavalli, trovata che, nonostante il pieno consenso dei nohani, è andata ad ingrossare la pila di scartoffie impolverate su chissà quale scrivania.
Ma a dispetto della burocrazia la definizione ha iniziato a circolare, di voce in voce, di articolo in articolo, varcando i confini angusti della provincia. Così Noha per due volte all’anno si trasforma nell’ombelico del mondo per chi ama i cavalli. A settembre, durante i festeggiamenti della Madonna delle Grazie, e il giorno del Lunedì dell’Angelo, i prati fioriti che incorniciano il piccolo centro diventano il campo, di gioco e di battaglia, per decine e decine di eleganti destrieri, robusti cavalli da tiro e tenerissimi pony. Tutte le cavalcature dei dintorni si danno appuntamento nella frazione per celebrare una ricorrenza che, se non ancora nella storia, è entrata ormai di diritto nella tradizione pugliese. Sotto gli occhi incuriositi dei viandanti e degli stessi abitanti di Noha, cavalli di ogni razza e colore, addobbati con bardature preziose e ridondanti al limite del barocco, trottano e si sfidano nelle prove di forza, in una manifestazione dagli echi spagnoli ma dall’anima tutta salentina, dove lo spirito di competizione non riesce mai a vincere sulla voglia di stare insieme e passare una pasquetta lontana dai nevrotici imbottigliamenti e diversa dalle solite gite fuori porta.
Ma non è solo in virtù delle due tradizionali fiere che Noha merita l’epiteto di patria del cavallo. Di fronte al bar Settebello, ogni domenica, i tanti “cavallari” di Noha si danno appuntamento per un caffè e una passeggiata per le vie e i prati nohani, e, se una domenica di fronte al bar centrale, ci capita uno straniero, ti spiegano che i cavalli loro ce l’hanno nel sangue e non esitano a trascinarti sul calesse e a mostrarti una Noha che, dall’alto di un traino, appare diversa anche a chi da qui non è mai partito.
È così che, aggrappati a una mano forte e sicura e finalmente saliti sul traìno, si parte per un singolare giro, lungo le strade larghe, dove si respira un silenzio interrotto solo dagli zoccoli dei cavalli e da un continuo salutarsi, costume usuale in un paesino di circa 3.800 anime dove tutti si conoscono. Fischi e risate cadono dai balconi dove la gente è affacciata per godere del primo sole invernale e timidi cenni fanno la loro comparsa dietro le persiane. Pochi pedoni, rare biciclette, troppe macchine per un paesino dove a piedi si raggiunge il capo opposto, ma i nohani sembrano essere pigri. Pigri sì, ma, in compenso, di un’allegria contagiosissima mentre da ogni macchina si sbracciano per salutare e c’è anche chi tira il freno in mezzo alla carreggiata per scambiare quattro chiacchiere.
Fermi, all’incrocio principale, sul calesse dondolante, guardando verso la strada che porta verso Galatina, si vede già, a pochi chilometri di distanza, il profilo dell’imponente e scomoda vicina, la dirimpettaia la cui presenza ingombrante si avverte quotidianamente, a partire dalla mancanza di un comune, di un’amministrazione tutta nohana, disposti ad ascoltare più che a finanziare. Tra il comune madre e la frazione, forse per una natura conflittuale congenita ai rapporti gerarchici, infatti, non corre buon sangue.
Con Aradeo, invece, l’altra vicina, i rapporti sembrano diversi, migliori, forse perché la placidità degli aradeini, che scorrazzano in sella alle biciclette, rispecchia la mentalità nohana, una mentalità essenzialmente rurale, che ripone nella frugalità e nella semplicità il segreto di una vita serena che basta a se stessa. “Noi il turismo non lo vogliamo”, spiega Antonio, “ci piace trovare parcheggio quando torniamo a casa, ci piace la calma, l’aria pulita, le quattro chiacchiere tra di noi”. Ma questo voler preservare un clima terso e mite, pur segnato dalle piccole baruffe di paesino, non si traduce in una chiusura rigida e totale verso l’esterno ma, anzi, in una larghezza di orizzonti talmente rara da non essere sempre compresa.
Sì, perché i nohani non fanno dei loro piccoli tesori uno specchietto per allodole, esche per turisti assetati di folclore e, dalle pagine dell’Osservatore, i solerti redattori non mancano di tuonare contro chi arriva a Noha con la pretesa di trovare una cittadina turistica. Riuniti ogni sabato pomeriggio nello studio di Paola, all’ombra degli ulivi nodosi che ammiccano dai suoi quadri, Marco, Antonella e gli altri, capitanati dal direttor Mellone, seduti sui divanetti del laboratorio danno forma a sogni di pennelli e idee di carta, alla ricerca di quella Noha ancora da esplorare, e da far riscoprire, soprattutto agli stessi nohani.
Arrivati al crocevia principale, i cavalli non sono ancora stanchi, i campanelli ritornano a tintinnare e il giro continua per la strada adiacente alla piazza dove, solo in compagnia di un nohano che ti invita ad alzare lo sguardo, si scorgono tre casette misteriose appollaiate sull’alto bordo del muro del vecchio palazzo baronale. Sull’origine delle tre lillipuziane costruzioni, ricche di particolari dettagliatissimi ma che non riproducono nulla di questo paese, ancora si discute. Come su ogni creatura dell’ignoto, anche sulle tre casette di Noha circolano favole e leggende. Come quella di “Sciacuddhri”, l’anima bella di un bambino che si dice le abbia abitate. Non è una leggenda, invece, l’indifferenza che le ha colpite, scardinando il campanile di una delle tre, che giace riverso nella parte interna della piccola costruzione. Un danno invisibile agli occhi dei più, ma evidentissimo per chi, proprio per non coprire quel campanile, ha meticolosamente potato le cime dei pini che ne impedivano la vista. Ma insieme ai rami dei pini, cresce anche l’abitudine a non alzare più lo sguardo, a non guardare più in là del proprio naso, e questo solo perché tanto “a Noha stamu”, frase tanto ordinaria quanto odiata da chi, proprio della piccola straordinarietà di Noha, vuole fare tesoro e sottrarla al menefreghismo, anche di chi, in virtù di una dissennata discendenza, si ritrova in possesso di gioielli che sempre più raramente possono brillare per tutti.
È il caso dell’altrettanto misteriosa Casa Rossa, una costruzione a ridosso della strada che porta a Galatina, alle spalle del vecchio (e dismesso) stabilimento del celebre brandy Galluccio. La strana casupola è circondata da un meraviglioso giardino selvatico, dove svettano le zagare, i boccioli di rosa insieme ai più comuni “zangoni” e, tra i cespugli di bacche e gli alberi di arance, strisciano lucertole curiose. All’interno, le pareti ondulate, quasi spugnose, di pietra rossastra, le volte concave, morbide, costellate di dune e rientranze, danno alla casa un senso di effimero e di fresco, le porte a scomparsa, i vetri colorati - o quello che ne resta - le finestre a oblò, i caminetti dai contorni imprecisi alimentano questo gioco di vuoti e pieni ma anche le voci e le leggende che vogliono questa casa infestata dalle streghe o, maliziosamente, vecchia casa di tolleranza. La Casa Rossa è proprietà privata, ma, nei giorni propizi, il suo cancello si schiude. Ciò non accade invece con la recinzione in muratura che vieta a chiunque l’ingresso nel profumato aranceto che avvolge l’antica torre medioevale. Infatti, a guardia della bellissima torre, con il ponte levatoio dove prima si facevano transitare i cavalli, con l’arco a sesto acuto e gli aranci tondi e pieni che ti strizzano l’occhio dal muro di cinta, brillano minacciosi e appuntiti i cocci di bottiglia da un lato, mentre dall’altro il filo spinato incupisce lo sguardo e il paesaggio, sgraziato avvertimento a chiunque non si accontenti di ammirare solo attraverso un provvidenziale foro nel muro di cinta, questo tesoro costantemente sotto chiave.
Vetri taglienti e filo spinato, però, non fanno parte della natura allegra e accogliente dei nohani, ben contenti di mostrare quello che pochi conoscono del loro paese e soprattutto di rivelare il proprio atavico amore verso i cavalli, dando vita ad una piccola Città dei Cavalli anzitempo. La piazza, solo per gli occhi di pochi forestieri, s’improvvisa teatro di una festa di cavalli bardati e calessi dipinti a mano, un brulicare di speroni, voci, nitriti, code intrecciate che si agitano e crini solleticati dal vento, con il beneplacito di San Michele, patrono di Noha, che dall’alto del cielo, dalle due statue conservate nella chiesa e dalle edicole affrescate ai crocicchi delle vie, sorride e si compiace della natura dei suoi protetti, così inclini alla convivialità e sempre pronti a fare festa. A spasso sul traino, con Totò, Peppino, Emanuele, Igor, Rubino, lo splendido Kibli e gli altri cavalli, tutti disciplinati che si lasciano tentare dai grandi spazi, solo arrivati presso gli sterminati prati in fiore, si schiude piano un mondo sparito, che sonnecchia sotto il sole caldo sui tetti bianchi delle case mentre dalle finestre appena socchiuse si diffonde il profumo di cose buone. È quasi mezzogiorno, infatti, l’ora di pranzo qui. I carretti, però, trottano ancora, lungo la piccola Noha sempre diversa e che, dall’alto di un calesse, sembra davvero infinita.

(fonte http://www.quisalento.it/pagine/luoghi68.html)

(clicca qui per vedere la PhotoGallery)

 
Di Albino Campa (del 23/12/2007 @ 12:45:22, in Eventi, linkato 2870 volte)

Vi informiamo che il presepe alla Casa Rossa previsto il 26 Dicembre non avra luogo. Ulteriori informazioni sul prossimo numero del "L'OSSERVATORE NOHANO".

In compenso il 25 Dicembre dopo la veglia ci sarà un bellissimo falò nei pressi di via Seneca.



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Di Albino Campa (del 14/11/2007 @ 13:49:24, in Eventi, linkato 3160 volte)
Manifestazione conclusiva del progetto " Crea il tuo percorso" finanziato dalla Regione Puglia e realizzato dal Liceo Scientifico di Galatina in rete con l'Ente Comune di Galatina ed in collaborazione con il Comando di Polizia Municipale e la Protezione Civile. Ci auguriamo che tutti possano partecipare attivamente alla manifestazione conclusiva. Circa 79 alunni del Liceo Scientifico giungeranno a Noha in pullman, mentre altri 29 alunni accompagnati da docenti e genitori che vorranno unirsi al gruppo, raggiungeranno Noha in bicicletta (15 sono le bici acquistate dalla scuola) percorrendo la pista ciclabile realizzata dagli alunni che hanno partecipato al progetto in collaborazione con l'Ufficio Tecnico del Comune di Galatina. Il percorso si snoda dalla sede centrale via Don Tonino Bello/Viale degli Studenti, Via Noha (per noi detta via nova non la via vecchia. Insomma la via curve-curve) e la succursale sita in Via Don Bosco. A Noha si visiteranno le vestigia del centro storico.
 
Di Albino Campa (del 29/10/2007 @ 13:56:47, in Eventi, linkato 5315 volte)
"Eccovi il discorso di sabato 20 ottobre 2007 tenuto da Antonio Mellone (nonostante decimi di febbre da influenza) nella sala 'Celestino Contaldo' del Palazzo della Cultura "Zeffirino Rizzelli" di Galatina, per la presentazione del libro "Scritti in Onore di Antonio Antonaci". 
Serata stupenda, resa ancor più bella (e storica) grazie alla presenza del Prof. Mons. Antonio Antonaci, che così ha voluto fare una graditissima sorpresa ai presenti, incluso il relatore, che non sperava in tanto onore".

(qui i videoclip della serata con il discorso di  monsignor Antonaci)

 

Presentazione del libro “Scritti in Onore di Antonaci”

Galatina, 20 ottobre 2007

PALAZZO DELLA CULTURA “ZEFFIRINO RIZZELLI”

Sala “Celestino Contaldo”

*   *   *

“Scritti in Onore”.  Da dove è partita tutta questa storia?

L’anno accademico 1990/1991, quello nel quale mi laureai a novembre in Economia Aziendale presso l’Università Bocconi, fu l’anno in cui insieme ad altri studenti, con il superamento di un concorso per titoli ed esami, fui nominato “Tutor”.
Il Tutor è uno studente “senior”, anziano, che indirizza, segue, consiglia le giovani matricole…
Il direttore dell’ISU Bocconi (si chiamava Salvatore Grillo, il dottor Grillo) subito dopo il concorso, chiamò tutti quanti noi tutor, eravamo in tutto una decina, per farci un dono. Regalò ad ognuno di noi un pacco di non meno di quattro chili di peso, contenente due tomi – “sono due libri di grande valore” ci disse.
Questi libri di circa 900 pagine l’uno erano intitolati, sentite un po’, “Scritti in Onore di Luigi Guatri”.
Luigi Guatri era il nostro Rettore, nonché professore di Marketing e di Valutazione delle aziende, e di non so quali altre materie.

Mi rimase impresso quel titolo. Mi sembrava strano.
Sfogliando le pagine di quei poderosi volumi vidi che solo le prime trenta/quaranta pagine (su 1800!) parlavano della persona e dell’opera del Prof. Luigi Guatri. Tutte le altre erano pagine nelle quali diversi professori dell’università o dottori di ricerca o assistenti universitari avevano scritto sugli argomenti più disparati, focalizzandosi soprattutto sul marketing, materia preferita dal Guatri, ma non solo.

Mi accorsi con il tempo che si trattava di saggi (interessantissimi per carità) che poi bene o male si ritrovavano riciclati in altri libri, o in dispense o in riviste dello stesso genere.

Girovagando in biblioteca mi trovai di fronte ad altre raccolte corpose, massicce, come per esempio: “Scritti in Onore di Ugo Caprara”; “Scritti in Onore di Carlo Masini”, “Scritti in Onore di Gualtiero Brugger”, “Scritti in Onore di Giordano dell’Amore”, “Scritti in Onore di Umberto Cerroni”, “Scritti in Onore di Isa Marchini”… E via di seguito.

Oppure “Studi in Onore”, che è la stessa cosa. Oppure “Liber amicorum”…
 
Provate a cercare nelle biblioteche, specialmente nelle biblioteche universitarie, troverete una certa quantità di questi volumi di “Scritti in Onore”, un vero e proprio genere letterario. Se cercate su internet con qualsiasi motore di ricerca troverete un’infinità di titoli di “Scritti in Onore”… Si tratta sempre, provate per credere, di libri poderosi, voluminosissimi. Dei veri e propri mattoni.

Cercai di chiedere, di approfondire di che genere di libri si trattasse. Capii che si era in presenza, nella maggior parte dei casi, di “scritti di circostanza”.
Scritti offerti al professore che aveva compiuto un tot. di anni, in genere una settantina; o in determinate occasioni, come per esempio la messa a riposo del professore, proprio quando il professore stava per diventare, come si dice nel linguaggio accademico, “emerito”.

Gli “scritti in onore” sono del genere AA.VV, cioè Autori Vari.
Capita sovente agli altri professori, o ai ricercatori, che venga richiesto il loro contributo per gli “scritti in onore”. Sappiate che questi professori o questi dottori in ricerca sovente hanno già pronto in un cassetto o nella memoria di un file di computer il loro contributo scritto. Pronto per l’uso.

Per dirla tutta vi dico qua per inciso che anche il prof. Antonaci ha partecipato ad una di queste opere collettive. Il titolo: “Studi in Onore di Antonio Corsano”. Un libro di 870 pagine, un libro alto così.
Ma, anche in questo caso, leggendo l’indice si capisce subito che del professore Antonio Corsano, l’onorato, s’è scritto solo di striscio. Di Antonio Corsano, oltre alla fotografia, poco o niente.

Arriviamo ai nostri giorni.
Alla luce di tutto questo che vi ho appena raccontato, volevo trovare un modo per stravolgere il concetto di “Scritti in Onore” come se fossero “scritti di circostanza”. Volevo innovare questo genere letterario. Anche il libro più ignobile – si sa - è pur sempre una novità.

E l’ho fatto con il libro del quale questa sera celebriamo il battesimo. Non m’interessava il numero delle pagine (l’importanza di un libro non si misura dal suo peso o dallo spazio che occupa). Ed ho cercato di fare uno “Scritti in onore”, diciamo, in senso stretto. Con questo libro ho voluto dunque stravolgere il concetto di “scritti in onore” e fare in modo che questi scritti non fossero scritti d’occasione, ma un saggio appassionato che avesse come oggetto le opere di un professore, come soggetto il professore Antonio Antonaci.ù

Ma chi è, in breve, il professore Antonio Antonaci?

Onde evitare di tediarvi troppo con la mia voce, per questi brani chiederò l’aiuto a Paola Congedo, che all’inizio di questa serata ha già letto il brano di Zeffirino Rizzelli ed i due inizi dei capolavori, il “Fra’ Cornelio Sebastiano Cuccarollo” e il “Cuccarollo”. Subito dopo, l’omaggio musicale della brava flautista gallipolina Gabriela Greco. Io per qualche minuto farò il mio turno di riposo.

Prego Paola.

CHI E’ IN BREVE IL PROF. MONS. ANTONIO ANTONACI

Antonio Antonaci, galatinese purosangue, è nato il 9 giugno del 1920 da una famiglia di agricoltori. E’ stato ordinato sacerdote dal santo vescovo idruntino Fra’ Cornelio Sebastiano Cuccarollo, il 29 giugno del 1943.
Laureato in Teologia, Filosofia, Lettere Classiche, specializzato in scienze storico-morali, ha operato nell’ambito del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), prima presso l’Istituto di Scienze Politiche dell’Università di Torino e poi presso l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano.
E’ stato titolare della cattedra di Storia della Filosofia (nel corso di laurea in Pedagogia) nella Facoltà di Magistero dell’Università di Bari, dove ha pure tenuto per alcuni anni la cattedra di Storia della Filosofia Medievale. Ha diretto l’Istituto di Scienze Religiose “Giovanni Paolo II” di Otranto, dove ha anche insegnato Storia della Chiesa.
A partire dal 1953 e per molti anni è stato Prefetto degli Studi del Seminario Arcivescovile Idruntino; dal 1970 è Prelato d’Onore di Sua Santità e dal 1987 è Arcidiacono del Capitolo dell’antica e gloriosa Cattedrale della Chiesa metropolitana di Otranto, con il titolo dell’Annunziata.
Con decreto del Presidente della Repubblica del 2 giugno 1973 gli è stata conferita la Medaglia d’Oro di Benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte.
Per molti anni è stato Ispettore Onorario ai Monumenti del Salento.
E’ Cittadino Onorario di Otranto e di Muro Leccese.
Nel 1968 vinse il Premio Nazionale “Salento” per la saggistica per il lavoro su Francesco Storella filosofo salentino del Cinquecento (Bari, 1966).
Nel 1998 gli è stato attribuito il premio “Città di Galatina – Beniamino De Maria” ricevuto dalle mani dell’allora Presidente della Repubblica, On. Oscar Luigi Scalfaro, giunto a Galatina per l’occasione.

Incommensurabile è la produzione letteraria di Antonio Antonaci, composta oltre che da numerosi volumi anche da una sterminata numerosità di lezioni, interventi, articoli ed editoriali su riviste e periodici locali e nazionali.
   
Citiamo a proposito, tra le riviste, “L’Eco Idruntina”, il bollettino diocesano che di fatto nel corso di oltre un quarto di secolo vide impegnato Mons. Antonaci nella redazione degli editoriali e di numerosi altri interventi di formazione pastorale, catechistica, liturgica, oltre che d’informazione della vita diocesana e della Chiesa Universale; e “il Galatino”, il quindicinale di informazione salentino del quale Antonaci fu socio fondatore nel 1968 (come pure del numero annuale “il Titano”, nato anni prima, edito per la Fiera Campionaria di Galatina in occasione della festa patronale galatinese).
De “il Galatino” Antonaci fu direttore editoriale per lunghi decenni. E ancor oggi, il Professore non manca d’inviare al “suo” giornale (dattiloscritti con la sua inseparabile “Olivetti”) interventi, recensioni di libri, articoli e lettere al direttore, che si contraddistinguono per l’ariosità dello stile, la lucidità e la sagacia di sempre. 

*    *    *

Ma torniamo a noi. Continuiamo.
Che cosa ho voluto riportare? Di che cosa parla questo libro che questa sera è piovuto in questa bellissima sala? Del resto la rassegna di questo mese d’ottobre patrocinata dal Ministero per i beni e le attività culturali e nel cui cartellone rientra questa serata è proprio intitolata “Ottobre piovono libri: i luoghi della lettura”…
E’ un libello che non vi pioverà in testa come un mattone. State tranquilli. Potrei dirvi soltanto: compratevelo, non ve ne pentirete. Ma qualcosa ve la voglio anticipare.

In questo libro, intanto dico subito che non c’è tutto Mons. Antonio Antonaci. Ci mancherebbe altro! In questo libro c’è un aspetto di Mons. Antonaci. Anzi a guardar meglio, più d’uno. Ma sicuramente non tutti.
C’è un po’ il succo delle conversazioni tra il sottoscritto e Monsignore, ma soprattutto i libri di Monsignore. Quelli che avete visto scorrere nel video preparato da Daniele Pignatelli, che ringrazio ancora una volta per la disponibilità. Anzi, per essere ancor più precisi, alcuni libri di Monsignor Antonaci.
E questo libro parla di libri. Perché come ben sapete i libri si parlano tra di loro. Dall’interno di un libro è possibile entrare in un altro.

Dicevo che il mio libro parla di alcuni dei libri di Monsignore.
Infatti, proprio in questi giorni ne ho scoperto un altro (i libri di Antonaci sembrano spuntare come i funghi cardoncelli in questo periodo); un libro di cui non conoscevo l’esistenza. E non è che si trattasse di un libercolo di quattro pagine, o di secondaria importanza, ma un libro di ben 300 pagine, edito dalla Editrice Salentina, ed intitolato semplicemente “Editoriali” (è una raccolta di 52 articoli pubblicati sull’Eco Idruntina - la rivista diocesana - dal 1961 al 1967). Questo per dirvi che davvero non si finisce mai di scoprire, davvero “fino alla bara sempre s’impara”. E si scopre.

*    *    *

Scritti in Onore.

Onore e memoria.

E’ fin troppo facile onorare la memoria: chi non lo fa?
E’ lungimiranza, è accortezza invece onorare chi è presente, chi ti sta di fronte ancora; è un valore provare gratitudine per la stanchezza di chi non si è risparmiato, curvo una vita intera sui libri e sulle sudate carte per insegnare e cambiare il mondo, (in meglio s’intende). E dare anche dignità alla nostra terra.
Guardare con riconoscenza a chi ha ancora tanto da insegnare, è gratitudine.
 
Onore e memoria.
L’onore è per chi è presente, per chi ti può ascoltare e leggere, è per chi ti sta di fronte. “Onore”, può essere anche un bell’appellativo: lo si può usare perfino tra fidanzati, se non si vuole utilizzare diminutivi banali o vezzeggiativi melensi comuni, inflazionati, e non troppo lirici.
Memoria è invece una anamnesi, un rincorrere chi non c’è più, un fargli sapere che forse valeva la pena di parlare con lui, leggere i suoi libri, i suoi articoli, condividere il pensiero, un obiettivo, o un tratto di strada.
 
Ma perché non dirlo prima?
Perché mangiarsi le mani perché si è arrivati in ritardo: cioè si è arrivati al tempo della “memoria” e non al tempo dell’“onore”?
La memoria è importante, ma vale molto di più l’onore. Una città può ricordare con un monumento, l’intestazione di una strada, dopo dieci anni dalla morte. Ma perché non ringraziare finché si è in tempo? Perché non premiare e dire grazie a chi è ancora nostro prossimo?

Prossimo non è chi è lontano, lontano nel tempo e nello spazio; il prossimo è chi ci sta accanto; chi ci tocca; chi ci parla e ci ascolta. Il prossimo sovente finisce per allontanarsi da noi, perché non sappiamo apprezzare la sua presenza; non sappiamo essere grati per nostra incapacità, quella che poi si manifesta quando una persona la perdiamo o si allontana da noi.

*   *   *

Mi riferisco in questo momento ora alla memoria del prof. Zeffirino Rizzelli, al quale va la nostra riconoscenza, non solo per il bel saggio che ha voluto scrivere per il mio libro (questa volta è stato lui ad onorarmi, impreziosendo la mia opera: e basterebbe il solo saggio di Rizzelli per giustificare l’acquisto del mio libro) ma, dicevo, perché proprio lui meritava, in vita, forse qualcosa in più. Ha fatto bene ancora una volta l’Amministrazione Comunale di Galatina ad intestare questo stupendo “Palazzo della Cultura” alla memoria di Zeffirino Rizzelli. In questo ambiente tutto sembra parlare di Lui: il distretto scolastico, l’università popolare, la biblioteca, il museo.
Questi muri che adesso ci stanno ascoltando, hanno per più anni ascoltato le lezioni (di vita) di Zeffirino Rizzelli, si sono impregnati della sua sapienza, del suo modo di essere giusto, democratico, saggio.  Rizzelli non è mai andato alla ricerca di medaglie al valore, di  lusinghe, di successi. Eppure al di là di questo Rizzelli meriterebbe di più. Per esempio - è una proposta che faccio questa sera alla presenza dei rappresentanti delle istituzioni - tra gli altri anche il “Premio -  Città di Galatina – Beniamino De Maria”. Proprio il 2008 scadrà il biennio per l’assegnazione di questo premio. Per cosa? Per la sua attività di intellettuale, studioso, scrittore (di libri, articoli e studi su riviste specializzate di matematica, logica ed epistemologia) ed infine di politico e sindaco di Galatina. Il nome di Zeffirino Rizzelli entra di diritto nel novero dei “grandi” che hanno reso “grande” Galatina.  
Ma al di là dei premi e delle intitolazioni deve essere chiaro a noi che per Rizzelli ogni attestato di benemerenza ed ogni medaglia al valore sarebbero una ricompensa da tre soldi. Sono certo che per Rizzelli la più bella ricompensa sarebbe la rilettura delle centinaia di suoi scritti. Belli, attuali sempre, formativi. Sono custoditi, raccolti nella biblioteca di Galatina, un paio di porte più in là di questa.

*   *   *

Ora la nostra lettrice leggerà l’ultima paginetta del mio libro, mentre io faccio un’altra pausa. In questo momento credo calzi molto bene il significato di quanto in essa contenuto. Alla parola Antonaci si potrebbe tranquillamente sostituire la parola Rizzelli.

“L’Antonaci con i suoi libri ha scritto in fondo di sé, anche se a prima vista questo potrebbe non apparire: egli sembra aver tramutato la sua vita in scrittura ed è così che ha raggiunto, conquistato, potremmo dire, un pezzo di eternità. Per uno scrittore, scrivere è l’aldilà a portata di mano, l’altra vita a cui sacrificare questa!
A questo aggiungiamo, tuttavia, che per Antonaci, la gloria di questo mondo altro non sarà che “silenzio e tenebre”: la transeunte vita terrestre altro non sarà che pulviscolo informe, naufrago nell’eterno.
“Quando saremo davanti a nostro Signore, altro non potremo che dirGli: fanne cce bboi: aggiu fattu tantu, ma nunn’aggiu fattu propriu nienti!” (cioè: “ho fatto tanto, ma di fatto sono stato “un servo inutile”: questo sono io con i miei difetti e, forse, con qualche raro pregio…”) ci diceva in uno dei nostri più recenti colloqui, allorché si toccava, nell’argomentare, il concetto della consolazione dalle umane fatiche, in vista della morte. Il richiamo al Vangelo in questi pensieri è evidente.
E, a proposito della “gloria” derivante dalla scrittura dei libri, Antonaci (che ha impostato la sua vita in cerca di ben altra gloria: quella celeste!) sembra far proprio il concetto molto ben espresso da Marcello Veneziani nel suo “La sposa invisibile” (Fazi Editore, Roma, 2006): che riportiamo a mo’ di explicit di questo nostro percorso: “Lo scrittore è un portatore di secchi dall’oceano al deserto. Crede di viaggiare dal nulla all’essere, creando; invece compie il tragitto inverso.
Proviene dall’essere e porta al nulla il suo catino d’acqua.
Quando lo versa è per metà evaporato nel percorso e per metà scompare nella sabbia dopo aver accennato ad un’ombra di umidità.
In quell’alone provvisorio sta tutta la gloria dello scrittore”.
E – con questo chiudiamo - se è vero il detto oraziano: “Non omnis moriar”, è però anche vero che, purtroppo (o per fortuna!), gloria caduca ed effimera, sarà, in ogni modo, quella dello scrittore. Di tutti gli scrittori.
Vanitas vanitatum et omnia vanitas. (Ecclesiaste, 1, 2).

*   *   *

Torniamo un attimo ad Antonaci ed ai suoi libri.
I libri di Antonaci si conficcano come ami nella carne. Del resto se i libri non hanno questa presa di trascinamento, se è il lettore a doverseli trascinare dietro, allora sono carta pesante.
Siamo noi a portare i libri o sono i libri a portare noi? E’ questo un dilemma che decide l’intesa o il rigetto tra un lettore ed un libro.
 
Se è lui che porta me, compresi il mio tempo, la mia voglia o anche la mia stanchezza, allora è libro. Se invece oltre al mio carico giornaliero, o alla mia stanchezza, devo aggiungere anche il peso del libro e devo portarlo io, allora non è libro, è peso, è zavorra. E ad Ottobre non pioverebbero libri ma, peggio, sassi o mattoni.

Se vinco io allora è libro, se vince lui è soma, pondo, peso. E’ carta e lettere d’inchiostro insieme. Alcuni libri, devo dire in verità, hanno vinto su di me; io, dal mio canto, ho vinto tanti libri e tuttavia non ne ho mai (o ancora) vinti abbastanza.

Sarebbe impossibile, anche a voler leggere soltanto i più importanti. Non basterebbe una vita di duecentocinquanta anni impiegata a tempo pieno a leggere soltanto i classici più importanti, cioè i libri imprescindibili, quelli di cui non si possa proprio fare a meno. Non è possibile fare un bilancio del letto e del non letto: la partita doppia non può essere applicata alla lettura.
I libri letti sono sempre numerabili; i libri non letti sempre incommensurabili.
  

Con i libri bisogna avere una certa confidenza fisica. I libri si toccano, si annusano, si scartabellano a piacere. In casa mia anche a Putignano, città dove abito e lavoro cinque giorni su sette, non trovereste troppi arredamenti, ma libri. Sono l’arredo, la tappezzeria di casa.

Sono belle le case stivate di volumi dal pavimento al soffitto. Nella casa di monsignor Antonaci per esempio i libri si trovano anche sulle scale; anche sulle scale che portano al terrazzo! Si assorbe quasi il loro isolamento sonoro; d’inverno si gode del loro tepore; d’estate si respira quel loro sudar polvere di carta. Queste sensazioni provavo e provo quando vado a trovare il professore monsignore. E vorrei provarle anche a casa mia. Mi sto attrezzando per questo.

Quando si sfoglia un libro è come sentire il rumore delle onde del mare. Sfogliare i libri di Antonaci è come sentire il rumore dello Ionio e dell’Adriatico, i nostri mari di smeraldi, quando sono un po’ mossi dallo scirocco o dalla tramontana. Ché questo è il Salento: un biscotto intinto nei due mari di colori. Così ce lo ha presentato Antonaci oltre cinquanta anni fa. Prima di tutti gli spot di oggi!
 
Allora è il libro che ti porta, non porti tu il libro di Antonaci: ti porta un “Galatina, storia ed arte”, un “Otranto”,  un “Muro Leccese”, o un “Pollio”, un “Cuccarollo”, un “Accogli”, ecc. Libri, questi, voluminosissimi eppure leggeri come una piuma: non li potrai leggere magari a letto, o al mare, sono troppo grossi; ma sotto un pergolato, con la colonna sonora delle cicale. Sono grandi libri eppure non pesano, ti trasportano, e ti fanno volare.

*   *   *

I libri di Antonaci sono soggetti che compiono l’azione e non complementi oggetto; sono causa efficiente, o meglio complemento d’agente. Sono libri che parlano, libri che si possono vedere mentre si leggono, libri che profumano di terra e di altri libri.
 
Ognuno reagisce ad un libro in maniera diversa. Un libro è semplicemente la metà dell’opera. Chi scrive un libro fa la metà del lavoro. L’altra metà la fa chi prende in mano quel libro e lo legge, lo consuma, lo sottolinea, gli fa le orecchie, ci litiga pure, ci si addormenta con il libro e qualche volta lo butta anche.  

Il lettore dunque conclude l’opera iniziata dallo scrittore, finisce quel semilavorato acquistato in libreria. L’incontro o lo scontro con il lettore fa di un libro un’opera finalmente compiuta. Dunque il libro, comunque vada a finire, è un incontro. Se non è un incontro, è solo parallelepipedo di carta, una confezione, una tecnologia.    
Mi piacerebbe che il mio libro non rimanesse un semilavorato.

*   *   *

A me è capitato di entrare nei libri di Antonaci e di uscirne migliore, più ricco. Oserei anche dire che ho iniziato a scrivere quei due o tre libri di cui sono autore grazie proprio alla lettura dei libri di don Antonio.
I libri di Antonaci per me sono stati palestra: leggendoli e rileggendoli si impara ad utilizzare una certa espressione, si riesce a descrivere qualcuno o qualcosa, utilizzando magari quelle stesse parole. Viene quasi automatico. Non è plagio, non sono inconfessate citazioni quando utilizzo certe espressioni: ma assimilazione, apprendimento.
Come quando si va in palestra, ci si esercita con certi pesi e poi ci si accorge nel sollevare un peso che non si fa (più) lo sforzo che si faceva prima, o quello che si sarebbe fatto senza allenamento.

Dicevo: nei libri antonaciani trovi cose scritte così bene che ti par di divorare e non di leggere. Certo, l’anoressico della lettura non viene smosso da questo o quello scrittore; ma chi solo ha un po’ d’appetito, avrà veri e propri attacchi di bulimia.
 
Di fronte alla perspicuità di certi argomenti e alla bellezza della loro formulazione non puoi non sottolineare le frasi, non appuntartele sulla tua agenda e riscodellarle agli altri quando a tua volta scrivi. Sicchè son diventato una sorta di “manierista” della scrittura, di fronte a quel Michelangelo dello stile che è Antonaci (che in un libro si definisce “scalpellino”, mentre di fatto egli è architetto e scultore incomparabile).

*   *   *

Ed ecco che con questo “Scritti in Onore” ho voluto pagare il mio debito: a rate. Essendo un bancario non potevo non fare questa metafora! E le rate sono le pagine di questo mio libello, pagine-rate come quelle di un prestito. Ma a tasso zero.
Non c’è interesse, non c’è guadagno in questo libro, ci mancherebbe altro: soltanto riconoscenza per quanto ho ricevuto. Ed è bello che la Galatina migliore, ma anche Noha, ma anche tanti altri salentini, siano qui presenti per onorare Antonaci. Non il mio libercolo: ma quello che il mio libro ha voluto cantare.

 
Mi avvio alla conclusione.
Zeffirino Rizzelli e Antonio Antonaci sono due astri che hanno irradiato, irradiano luce su Galatina. Ci hanno insegnato tanto. Si insegna a volte anche con il silenzio e l’umiltà, una volta che si è scritto migliaia di pagine e si è parlato altrettante volte. E sono tante le cattedre da cui si può impartire una lezione: e la scuola può essere anche quella della sofferenza; a volte anche quella dell’irriconoscenza; o quella dell’indifferenza; o quella della critica spicciola e negativa ricevuta senza approfondimento e senza motivo.
     
Se si legge con trasporto ci si arricchisce; con la lettura troviamo altri padri ed altre madri, oltre a quelli nostri naturali. Si creano dei legami, degli affetti, delle parentele:
si finisce per essere costola di libri e delle pagine scritte e non solo dei nostri padri naturali. Antonaci e di Rizzelli sono così diventati anche nostri padri.

 

Il nostro non è un paese che compra libri. Ma un paese migliore, una città migliore passano attraverso i libri: non da altro. Non c’è alternativa. E permettetemi questo piccolo atto d’orgoglio: forse passa anche attraverso il mio libro.

 

Il mio libello allora vuole essere una specie di risarcimento, o meglio di trattenimento di quello che si sta, per un motivo o per un altro, dimenticando, disperdendo nel passaggio delle generazioni. Ci sono generazioni che cominciano a dimenticare, allora ho sentito la necessità di trattenere, di ricordare, di mettere per iscritto.
 
*   *   *

Prima di terminare questa conversazione, permettetemi di ringraziare quanti hanno lavorato per questo libro. Prima di tutto Michele Tarantino di Infolito Group che ancora una volta ha creduto nel mio lavoro di ricerca. Per la stampa in digitale, Fabio Tarantino e la nuovissima Infoprinting (che è sempre di Michele Tarantino), azienda che non ha compiuto ancora un anno, ubicata in un capannone sulla via di Lecce, subito dopo il SuperMac per intenderci. Tra l’altro Infoprinting è specializzata nella stampa e nella spedizione di lettere di ogni genere. E’ una specie di stampante virtuale da attivare tramite Internet tramite il sito www.postapronte.eu.  

Ringrazio Lorenzo Tundo dello Studio Ermes di Galatina e Silvia Stanca, che non si è “stancata” della mia pignoleria nella redazione delle pagine di questo libro. Ringrazio il dott. Antonio Linciano, direttore della gloriosa biblioteca “P. Siciliani” di Galatina e Paola Congedo, direttrice della altrettanto gloriosa biblioteca “Giona” di Noha, per l’organizzazione di questa serata. Ringrazio la bravissima musicista Gabriela Greco che ci ha fatto capire quanto vadano a braccetto libri e musica.

Ringrazio il Professore Antonio Antonaci per la sorpresa che ci ha voluto fare questa sera. Il più bel regalo, professore, è la sua presenza! Ormai m’ero rassegnato all’idea che Ella non sarebbe stata presente. Ancora una volta (per fortuna!) mi son dovuto ricredere. Ringrazio la gentilezza di Dino Valente ed il suo sito www.galatina.it e quella di Albino Campa ed il suo sito www.noha.it. Ringrazio anche Radio Sole e… anche tutti quelli che ho dimenticato.

*   *   *

Il mio libro vuole essere allora un manifesto, uno spot, un’insegna, un abbraccio di parole per Antonio Antonaci. Vuole essere un segnale stradale che indichi dove andare, un messaggio nella bottiglia, perché in qualche modo quello in cui io ho creduto, o che m’è parso bello, possa essere creduto ed appaia bello a coloro che leggeranno, o a coloro che verranno. Un libro, anche il più brutto, sopravvive sempre al suo scrittore. Anche se questo scrittore (o meglio scriba o scrivente) è minuscolo e si chiama Antonio Mellone. Il quale vi ringrazia per la benevolenza e soprattutto la pazienza con la quale avete voluto ascoltarlo.

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 04/09/2007 @ 18:36:36, in Eventi, linkato 3173 volte)

"Sulla rivista "quiSalento" (n.12, anno VII, settembre 2007) troviamo, a firma di Antonio Mellone, il trafiletto che segue. Argomento: Noha, i Cavalli e la semplicità".

Cavalli e semplicità. Questo e non altro si troverà a Noha “Città dei cavalli” il prossimo 9 settembre in un grande prato a due passi dalla Chiesa della Madonna delle Grazie (di cui proprio in quel giorno si celebra la festa). Un’area ampia di terreno, bella, ricca di erbe selvatiche e profumo di natura, ancora affrancata dai soliti metri cubi di cemento, asfalto e mattoni, si riempirà dalle prime ore del mattino e fino all’ora di pranzo di cavalli e cavalieri. E ci staranno bene. I cavalli a centinaia sfileranno, gareggeranno, faranno bella mostra di se, e si divertiranno. Vinceranno un trofeo i cavalieri ed un sacco di biada i cavalli che così, in semplicità, festeggeranno come sempre la kermesse nohana.

Antonio Mellone

 

Canto notturno di un pastore ...

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