
I dialoghi di Noha vanno avanti. Eccovi il testo e le immagini del commento e della recita del canto V dell'Inferno di Dante Alighieri che ha avuto luogo il 28 febbraio 2009 a cura di Antonio Mellone nello stupendo scenario dello studio d'Arte di Paola Rizzo.

I DIALOGHI DI NOHA
 DANTE ALIGHIERI: IL CANTO V DELL’INFERNO

 Vi dico subito come è strutturata questa lectura  Dantis. 
 Cercheremo brevemente d’inquadrare il canto V nel  girone dell’Inferno. Il secondo per la precisione. Spiegherò  chi sono i personaggi. E poi prima del vero e proprio canto V (che  proverò a recitare a memoria) commenteremo le singole terzine.  Come saprete, i livelli di lettura della Comedia sono molteplici. Noi  cercheremo una chiave di lettura: la più semplice possibile. 
 * * *
 Adesso farò girare delle fotocopie sulla  struttura dell’oltretomba dantesco. Ed in particolare  sull’Inferno.
 * * *
 L’Inferno è come una grande vora,  diciamo una voragine a forma di imbuto il cui termine, o il cui punto  di minimo, si trova al centro della terra. Dunque un imbuto o un cono  rovesciato enorme (come potete vedere dalle fotocopie). Un burrone  che si apre sotto Gerusalemme causato dalla caduta di Lucifero  (l’angelo, il più bello fra tutti, che si era ribellato  a Dio) quando fu scaraventato dal Paradiso sulla Terra in seguito  alla battaglia condotta e vinta dal nostro Arcangelo San Michele e  dai suoi angeli.
 La terra dunque in seguito a questa caduta si ritira,  per paura, per ripugnanza, per schifo… per ricomparire  dall’altra parte dell’emisfero terracqueo come una enorme  montagna: la montagna del Purgatorio.
 L’Inferno è diviso in nove cerchi  concentrici che si rimpiccioliscono man mano che si scende, man mano  che si va al centro della terra, per terminare nel lago di Cocito,  lago ghiacciato a causa del vento (un vento freddissimo, diremmo di  tramontana) prodotto dalle ali (enormi e senza piume, come quelle dei  pipistrelli), ali di Lucifero, a sua volta immerso nel ghiaccio.  Lucifero ha tre teste ed in ogni bocca sgranocchia anzi maciulla coi  denti un peccatore. I tre traditori rosi dal diavolo sono Bruto,  Cassio (entrambi responsabili della congiura contro Cesare) ed  ovviamente Giuda (traditore di Gesù).
 Vediamo ancora un attimo insieme la struttura  dell’Inferno per vedere dove ci troviamo con questo canto  quinto. Siamo nel II cerchio. Vedete? Subito dopo il primo cerchio  che contiene il Limbo, che è quello in cui si trovano le anime  di coloro che non furono battezzati. Ma prima ancora c’è  la famosa porta dell’Inferno sulla quale c’è  scritto (recito): Per me si va nella città dolente/ per me  si va nell’eterno dolore / per me si va tra la perduta  gente./Giustizia mosse il mio alto fattore/fecemi la divina  potestate/la somma sapienza e il primo amore./ Dinanzi a me non fuor  cose create/se non etterne ed io etterno duro/ lasciate ogni speranza  voi ch’intrate.
 Poi c’è l’Antinferno, dove ci sono  gli Ignavi, quelli che non si schierarono mai, quelli che vissero  sanza infamia e sanza lode, di cui lo stesso Virgilio dice a Dante:  non ti curar di lor ma guarda e passa. Fanno così ribrezzo che  non li vuole manco l’Inferno! Dunque c’è la  necessità di schierarci. 
 Il terzo cerchio è quello dei Golosi, il IV  quello degli Avari e Prodighi, nel V troviamo gli Iracondi e gli  Accidiosi; il sesto cerchio è quello dove sono puniti gli  Eresiarchi (o Eretici).
 Il settimo cerchio è quello dei Violenti. Questo  cerchio a sua volta è diviso in tre gironi: il primo dei  violenti contro il prossimo e le sue cose; il secondo dei violenti  contro se stessi e le proprie opere; il terzo dei violenti contro Dio  e le sue cose.
 Dopo una ripa scoscesa si va all’ottavo cerchio:  quello dei violenti contro chi non si fida. L’ottavo cerchio è  diviso in dieci bolge: 1) Seduttori; 2) Adulatori; 3) Simoniaci; 4)  Indovini; 5) Barattieri; 6) Ipocriti; 7) Ladri; 8) Consiglieri  Fraudolenti; 9) Seminatori di discordia; 10) Falsari.
 Dopo c’è il pozzo dei giganti. Ed infine si  arriva al nono cerchio (dove sono puniti i violenti contro chi si  fida: cioè i traditori). Il nono cerchio è diviso in  quattro zone: la prima dei traditori dei parenti (la cosiddetta  Caina. Nel canto di questa sera vedremo che Francesca farà   riferimento a questa zona del nono cerchio), la seconda dei traditori  della patria, la terza dei traditori degli amici, la quarta dei  traditori dei benefattori. In fondo c’è Lucifero, come  detto sopra.
 
 Ora ritorniamo sopra, al secondo cerchio e vediamo un  po’ di focalizzarci su alcuni personaggi che Dante incontra nel  suo viaggio.
 * * *

 La storiella dei due amanti che Dante incontra è  questa.
 Per sedare antichi rancori, due potenti famiglie di  Romagna (i Polenta da Ravenna e i Malatesta da Rimini) pensano di  pacificarsi combinando un matrimonio. Gli sposi sono Francesca da  Polenta, bellissima, e Giovanni Malatesta detto Gianciotto, brutto e  sciancato. 
 Per evitare un rifiuto secco da parte della giovane, le  famiglie decidono di celebrare il matrimonio per procura. Questo  fatto rappresenterà un altro raggiro, in quanto Francesca per  un attimo pensa che lo sposo promesso sia l’ambasciatore o  meglio il procuratore: Paolo Malatesta, uomo bellissimo, fratello di  Giovanni, lo zoppo. 
 Ma così non è.
 Francesca capirà subito chi sarà il vero  marito e, sottomessa com’è, si sottopone al vincolo  coniugale. 
 Però la scintilla era scoppiata. A sua volta a  Paolo piacque subito Francesca, così come a Francesca piacque  subito Paolo. Vedremo anche questo concetto: amor che a nullo amato  amar perdona.
 Ed una sera di maggio, in una loggia panoramica del  castello di Gradara (che è bellissimo: v’invito a  visitarlo come ho fatto io tempo fa) basterà la lettura a due  della pagina di un famoso romanzo cavalleresco, in cui si raccontano  gli inizi di una vicenda extraconiugale, perché i due cognati  si bacino finalmente non riuscendo più ad andare avanti. Qui  pare che irrompesse il marito (Gianciotto, cioè Giovanni  Malatesta, lo zoppo) sorprendendo i due in flagranza di adulterio (un  bacio!) e infilzandoli con una spada o una lancia in un’unica  stoccata.
 Tra l’altro a quanto pare questo duplice omicidio  non sembra aver sciupato la vantaggiosa alleanza per le due famiglie  che anzi viene rinsaldata con questa specie di patto di sangue.
 * * *
 Ora iniziamo a commentare il canto (prima di cercare di  recitarlo tutto intero a memoria). Il canto è quello in cui  Dante incontra i due amanti appunto in questo secondo girone  dell’Inferno.
 Dante con Virgilio discendono dal primo cerchio giù  nel secondo, che ha una circonferenza più piccola, ma che  contiene più dolore che spinge al lamento (che punge a guaio). 
 Piantato nell’entrata sta Minosse, giudice  dell’inferno, che giudica e manda secondo ch’avvinghia.  Ovviamente il giudizio è sempre inappellabile e soprattutto  qui si parla di ergastolo. Qui la pena ed il carcere è vita. O  meglio a vita eterna. 
 Dunque, quando l’anima mal nata (nata alla propria  dannazione) gli capita davanti, confessa tutti i suoi peccati. E  Minosse individua il comparto dell’Inferno che fa per lei e  glielo comunica o glielo notifica secondo ch’avvinghia: cioè  avvolgendosi nella coda un numero di volte pari all’ordine del  grado o cerchio in cui l’anima deve precipitare. Per esempio  quattro giri di coda, quarto cerchio; otto giri di coda, ottavo  cerchio, e così via.
 Il flusso delle anime è incessante: a turno vanno  al giudizio, si confessano, ascoltano la sentenza, e poi sono  scaraventate di sotto a capofitto.
 Come vede Dante, Minosse s’accorge che non si  tratta di un’anima ma di un uomo in carne ed ossa (in quanto  Dante proietta un’ombra) e subito interrompendo l’atto di  cotanto uffizio, gli urla: Tu che vieni in questo ospizio di dannati,  stai attendo a dove ti stai cacciando. Non t’inganni l’ampiezza  dell’entrata.
 E Virgilio (compagno di viaggio di Dante) gli ribatte:  Perché pur gride? Non tagliargli la strada. Vuolsi così  colà dove si può (puote) ciò che si vuole e più  non chiedere (dimandare).
 Poi Dante viene al nocciolo del racconto. Or incomincian  le dolenti note (il suono del dolore) a farmisi sentire, or son  venuto là dove molto pianto mi percuote (mi investe e mi  turba).
 Io venni in loco d’ogne luce muto, cioè nel  buio, silenzioso di luce, che mugghia come fa mare in tempesta quando  è schiaffeggiato dai venti.
 La bufera infernale che mai non s’arresta, e  tormenta le anime dei dannati nella sua rapina sbattendole di qua, di  là, di su, di giù.
 Quando giungono davanti alla ruina si scatena un coro  stonato di strida, singhiozzi, lamenti e bestemmie.
 A questo punto Virgilio dice a Dante che i dannati  sottoposti a quella pena sono i peccator carnali che la ragion  sommettono al talento, cioè che subordinano l’ordine  della ragione ai disordini del desiderio. Cioè sottomettono la  ragione alla passione: sono in una parola i lussuriosi.
 Ecco la legge del contrappasso: sbattuti dal vento delle  passioni da vivi, questi peccator carnali saranno allora strapazzati  dalla bufera infernale nei secoli dei secoli, amen.
 Ecco allora due similitudini (ce ne stanno molte nella  Divina Commedia). 
 La prima. Gli spiriti di questo cerchio, la massa dei  lussuriosi, sono paragonati allo stormo largo e pieno degli storni  (un tipo di uccelli) che in massa turbinano alla rinfusa. 
 La seconda. Le ombre travolte dalla medesima tormenta  (de la detta briga) striano gemendo, come gru che disposte in lunga  riga van cantando lor lai (cioè si lamentano). Dunque sono gru  lamentose queste anime selezionate, ch’amor di nostra vita  dipartille, cioè che han perso la vita a causa dell’amore.
 Dante domanda: chi sono queste anime-gru?
 Risponde Virgilio. La prima è Semiramide, la  leggendaria imperatrice, che succeduta al marito Nino, regnò  sulla terra che il Soldan corregge, cioè la città  che oggi è retta dal sultano d’Egitto. Questa Semiramis,  Semiramide, fu donna talmente depravata che per abrogare l’ignominia  a cui s’era ridotta, decretò la liceità di ogni  sfrenatezza: libito fe’ licito in sua legge. Insomma si fece  una legge ad personam. Le leggi ad personam evidentemente non sono un’invenzione di questi nostri giorni!
 La seconda delle anime in riga è colei che  s’uccise per amore, dopo aver rotto il patto di fedeltà  giurato sulle ceneri del marito Sicheo: si tratta della vedova  Didone, regina di Cartagine: la quale folle di Enea (quando questi  partì) si lanciò tra le fiamme. 
 Segue Cleopatra lussuriosa: Cleopatra amante di Cesare e  Antonio e di molti altri (si suicidò morsa da un aspide).
 Segue ancora Elena, per cui tanto reo tempo si volse,  (dieci anni della guerra greco-troiana)
 Vedi Parìs: vedi Paride, amante di Elena, e vedi  Tristano (quello che preleva la bella Isotta in Irlanda per tradurla  sposa a suo zio Marco, re di Cornovaglia: poi i due bevono una  pozione, un filtro d’amore. Ma poi Marco mette a morte il  nipote… Ma questa è un’altra storia).
 L’elenco dei sette morti lussuriosi, completato da  mille altri nomi di donne antiche e cavalieri, sgomenta Dante e pietà  lo coglie. 
 Quando ecco che qualcosa, sconvolgendolo ancor di più,  cattura la sua attenzione. E si rivolge a Virgilio e gli dice: poeta,  mi piacerebbe parlare con quei due che volano insieme e sembrano  essere così leggeri al vento. Ed il maestro gli risponde: non  ti preoccupare, quando saranno più vicini a noi, pregali in  nome dell’amore che li sbatte a destra e a manca e vedrai che  verranno.
 E così Dante, non appena il vento sembra  rallentare un attimo, si rivolge a loro dicendo: oh anime affannate,  venite a parlare a noi, se altri (se Dio, cioè) non lo vieta.
 
 Dalla riga di gru, come due colombi, si staccano due  anime, tratte dalla forza dell’appello affettuoso. Ma inizia a  parlare solo lei. Lui (Paolo) non parlerà mai in questo canto.  Piange in silenzio.
 Francesca si dice allora disposta a dire tutto quello  che Dante, quella creatura vivente vorrà sapere. Mentre che il  vento come fa ci tace.
 Francesca per designare la sua città, si dichiara  nata sulla marina dove sfocia il Po per aver pace con i suoi  affluenti. Ed aggiunge che se qualche udienza lei e Paolo potessero  ottenere (ma mai l’otterranno) nei cieli, pace pregherebbero  per il pellegrino commosso dalla loro pena. Pace e niente altro: pace  che altro non è che la disperata aspirazione di questa signora  che, con l’amante, tinse il mondo di sanguigno, e ora gira e  rigira furiosamente nell’aere perso del secondo cerchio  dell’Inferno.
 Amor, che in un cuore nobile attecchisce subito, prese  questo Paolo del bel corpo di cui sono stata privata, ed il modo  ancor m’offende. Può significare: la smodatezza della  passione di Paolo mi tiene ancora in sua balìa; oppure: il  modo dell’omicidio continua ad offendermi. 
 Amor gentile. Amor cortese. Dolce stil novo: quello che  sublima la donna, vista come un angelo. Non vi posso a questo punto  non recitare la bella poesia di Dante: Tanto gentile e tanto onesta  pare la donna mia…[recita].
 Tanto gentile e tanta onesta pare
 La donna mia quand’ella altrui saluta
 Ch’ogne lingua devien tremando muta,
 E gli occhi no l’ardiscono di guardare
 Ella si va, sentendosi laudare,
 benignamente d’umiltà vestuta;
 e par che sia una cosa venuta  
 da cielo in terra a miracol mostrare.
 Mostrasi sì piacente a chi la mira,
 che dà per gli occhi una dolcezza al core
 che ‘ntender no lo può chi non la pruova  
 e par che de la sua labbia si mova  
 uno spirito soave pien d’amore,
 che va dicendo a l’anima: sospira.
 
 * * *

 Amor che a nullo amato amar perdona.
 Amore che non esonera nessuna persona amata dall’amare  a sua volta, prese me della bellezza di quest’uomo, e con tanta  forza che, come vedi, ancor non m’abbandona.
 Amore ci coinvolse in un’unica morte. La Caina,  cioè quel cerchio dei traditori dei parenti (che abbiamo visto  anche sulle fotocopie) che è la zona del lago di ghiaccio che  chiude il cratere infernale, la Caina – dicevo – attende  chi a vita ci spense: cioè mio marito che ci uccise.
 * * *
 Ora apro una breve parentesi su quel verso 103 ormai  famosissimo: Amor, ch’a nullo amato amar perdona.
 Secondo questa specie di teorema si può affermare  che sempre, fulmineamente, senza appello, chiunque s’innamori  di una persona automaticamente non può che esserne  corrisposto. Dunque c’è reciprocità d’amore.  Istantanea e perfetta. 
 C’è chi dice invece che questo funziona  solo con l’amore di Dio per cui amare Dio ed essere amati è  un’unica cosa. Ma senza approfondire questi concetti ché  si sconfinerebbe in altri campi (teologici, morali, psicologici,  filosofici…) diciamo che nel tempo altri poeti pensarono  invece che non esiste questa corrispondenza d’amorosi sensi. 
 Per esempio nel seicento ci fu una suora di lingua  spagnola, Suor Juana Ines de la Crux, di Città del Messico che  scrisse questa poesia molto bella che ora vi recito: “L’ingrato  che mi lascia cerco amante”… [recita]. 
 Chiusa la parentesi.
 L’ingrato che mi lascia, cerco amante
 L’amante che mi segue, lascio ingrata;
 costante adoro chi il mio amor maltratta
 maltratto chi il mio amor cerca costante.
 Chi tratto con amor, per me è diamante,
 e son diamante a chi in amor mi tratta;
 voglio veder trionfante chi mi ammazza,
 e ammazzo chi mi vuol veder trionfante.
 Soffre il mio desiderio, se ad uno cedo;
 se l’altro imploro, il mio puntiglio oltraggio:
 in ambi i modi infelice io mi vedo.
 Ma per mio buon profitto ognor m’ingaggio  
 A esser, di chi non amo, schivo arredo  
 E mai, di chi non mi ama, vile ostaggio.
 Ecco: in questa poesia si evidenzia molto bene non la  simmetria ma la asimmetria degli amorosi sensi… 
 * * *
 Ma torniamo al nostro canto V.
 Dopo aver ascoltato quelle anime offense, Dante  abbassa gli occhi e tanto li tiene bassi, finché Virgilio gli  chiede: che pensi? Cosa ti passa per la testa?
 E Dante risponde dopo un po’: Ahimè, quanti  dolci pensier, quanto desìo menò costoro al doloroso  passo.
 Poi si rivolge a Francesca dicendole: Francesca, le tue  pene, il tuo dolore mi impietosiscono fino alle lacrime. E poi le  chiede, quasi morbosamente curioso: ma dimmi, per quali indizi ed in  quali circostanze vi ha consentito Amore di conoscere i vostri  titubanti e mutui desideri?
 E Francesca: Nessun maggior dolor …premesso che  nulla fa più male che ricordarsi del tempo felice nella  miseria, dirò come colui che piange e dice: dirò come  direbbe chi piangendo dicesse.
 E continua: un giorno, per svago, senza essere  insospettiti da alcun presentimento, lei e Paolo leggevano insieme un  romanzo francese, dove era raccontata la storia d’amore di  Lancillotto e Ginevra, moglie di re Artù (qualcuno ricorda il  film con Richard Gere e Sean Connery, su questa storia. ecc.). 
 Più di una volta la lettura costrinse i loro  sguardi ad incrociarsi, ed i loro visi a sbiancare. Ma a sopraffarli  fu una pagina: proprio quella. Quando lessero il desiderato sorriso  di donna Ginevra essere baciato da cosiffatto amante, questi che mai  da me non fia, non sia, diviso la bocca mi baciò tutto  tremante.
 Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, quel giorno più  non vi leggemmo avanti.
 Il Galeotto di cui si parla è il siniscalco  Galehaut, che nel romanzo francese istiga il leale Lancillotto a  dichiarare il suo amore a Ginevra; e sotto i suoi occhi, Ginevra  prende Lancillotto e lo bacia. 
 Dunque: Galeotto fu il libro: il libro o meglio il suo  autore, ci ha fatto da mezzano.
 Quel giorno più non vi leggemmo avante…
 Questa frase di Francesca ha dato luogo a diverse  interpretazioni. Può significare che la lettura, interrotta  dal bacio, sarebbe stata immediatamente e definitivamente troncata  dall’irruzione del marito zoppo e quindi dal doppio omicidio.
 L’altra interpretazione forse più  plausibile, benché più piccante, è quella per  cui da quel giorno, i due abbiano accantonano le perlustrazioni  letterarie sul tema dell’amor cortese, per abbandonarsi alla  passione. 
 Il canto finisce con Dante che sviene cadendo come corpo  morto cade.

 Eccovi dunque la recita integrale del canto V  dell’Inferno.
Così discesi del cerchio primaio
   giù nel secondo, che men loco cinghia
   e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
   essamina le colpe ne l'intrata;
   giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata
   li vien dinanzi, tutta si confessa;
   e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno è da essa;
   cignesi con la coda tante volte
   quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
   vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
   dicono e odono e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
   disse Minòs a me quando mi vide,
   lasciando l'atto di cotanto offizio,
«guarda com' entri e di cui tu ti fide;
   non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
   E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
   vuolsi così colà dove si puote
   ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
   a farmisi sentire; or son venuto
   là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d'ogne luce muto,
   che mugghia come fa mar per tempesta,
   se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
   mena li spirti con la sua rapina;
   voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
   quivi le strida, il compianto, il lamento;
   bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch'a così fatto tormento
   enno dannati i peccator carnali,
   che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
   nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
   così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
   nulla speranza li conforta mai,
   non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
   faccendo in aere di sé lunga riga,
   così vid' io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
   per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
   genti che l'aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
   tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
 «fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
   che libito fé licito in sua legge,
   per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell' è Semiramìs, di cui si legge
   che succedette a Nino e fu sua sposa:
   tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra è colei che s'ancise amorosa,
   e ruppe fede al cener di Sicheo;
   poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
   tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
   che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
   ombre mostrommi e nominommi a dito,
   ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
   nomar le donne antiche e ' cavalieri,
   pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I' cominciai: «Poeta, volontieri
   parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
   e paion sì al vento esser leggieri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
   più presso a noi; e tu allor li priega
   per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
   mossi la voce: «O anime affannate,
   venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
   con l'ali alzate e ferme al dolce nido
   vegnon per l'aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov' è Dido,
   a noi venendo per l'aere maligno,
   sì forte fu l'affettüoso grido.
«O animal grazïoso e benigno
   che visitando vai per l'aere perso
   noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l'universo,
   noi pregheremmo lui de la tua pace,
   poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
   noi udiremo e parleremo a voi,
   mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
   su la marina dove 'l Po discende
   per aver pace co' seguaci sui.
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
   prese costui de la bella persona
   che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
   mi prese del costui piacer sì forte,
   che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
   Caina attende chi a vita ci spense».
   Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime offense,
   china' il viso, e tanto il tenni basso,
   fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
   quanti dolci pensier, quanto disio
   menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
   e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
   a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
   a che e come concedette amore
   che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
   che ricordarsi del tempo felice
   ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice
   del nostro amor tu hai cotanto affetto,
   dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
   di Lancialotto come amor lo strinse;
   soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
   quella lettura, e scolorocci il viso;
   ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
   esser basciato da cotanto amante,
   questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
   Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
   quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l'uno spirto questo disse,
   l'altro piangëa; sì che di pietade
   io venni men così com' io morisse.
E caddi come corpo morto cade.