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Noha. Lo Sciacuddhi e l’antico frantoio ipogeo
Di Albino Campa (del 14/04/2012 @ 08:58:49, in I Beni Culturali, linkato 3882 volte)

Oramai era da giorni che nel grande frantoio ipogeo del Casale di Noha, durante le ore notturne, ne succedevano di tutti i colori. Ceste piene di olive trovate all’alba rovesciate per terra, recipienti pieni di olio insozzati come se qualcuno ci avesse camminato dentro con scarpe piene di terra, criniere e code degli animali che venivano trovate misteriosamente intrecciate.
Non che la notte tutti i trappitari dormissero, ma la stagione della raccolta delle olive era ancora agli inizi e non erano necessari turni ininterrotti di lavoro, e per qualche ora ancora si riusciva a fermarsi per riposare. Certo da lì a poco anche la notte sarebbe diventata come il giorno e non ci sarebbe stata tregua per nessuno.

Fatto sta che in quei pochi minuti in cui un po’ tutti si riposavano ne succedevano di cose strane!

Per non parlare poi di quei rumori sinistri e quelle risate roche e brevi che ogni tanto si sentivano e che avevano iniziato a spaventare non poco i trappitari, uomini dalla scorza dura, temprati dal lavoro massacrante ma anche dotati di una buona dose di superstizione.

Il nachiro, colui a cui spettava il comando del frantoio, come il comandante di una nave, regnava da monarca assoluto sui trappitari. Uomo rozzo e duro ma sufficientemente astuto e abile da tener tutto e tutti sotto controllo e da non farsi prendere in giro dai suoi sottoposti, era alquanto adirato per quello che accadeva sotto i suoi baffi. Irascibile e intrattabile, pensava che qualcuno dei suoi fosse in combutta con qualche malfattore. Ma non riusciva a venirne a capo.

Iniziò così ad organizzare dei turni durante le ore notturne. Impiegando i suoi uomini più robusti, armati di possenti e nodosi bastoni, sperava di fracassare ben presto le ossa di quel farabutto che osava prendersi gioco di lui e che, soprattutto, rovinava il frutto del duro lavoro dei suoi operai.

Ma anche quella notte, accadde come le altre notti. Uno strano sonno sembrò colpire quegli energumeni e quando alle prime luci dell’alba che filtravano dalle aperture di scarico, le sciave, si risvegliarono, trovarono lo stesso sfacello di ogni giorno.

Riprovarono il giorno successivo e quello ancora, ma niente da fare. Come se qualcuno avesse ordito un maleficio, chi veniva posto di guardia si addormentava e per giunta si svegliava ansante e senza fiato come se qualcuno si fosse seduto lungamente sui loro petti. Una notte ci provò anche lo stesso nachiro, ma anche lui non riuscì a rimanere sveglio, per di più al suo risveglio si trovo i peli della sua lunga barba con tante treccioline e impiastricciati di olio. Oltre il danno anche la beffa.

Chiamò allora a raccolta tutti i suoi trappitari per dar loro una sonora strigliata e per decidere il da farsi, dato che anche lui ormai non sapeva più che fare e a breve si sarebbe entrati nel vivo della raccolta delle olive e quella situazione non sarebbe più stata sostenibile.

Solo che ormai nessuno dei suoi uomini più fidati voleva prestarsi per quei turni di guardia. Un po’ tutti pensavano che ci fosse qualche fantasma o qualche spirito maligno che abitava nell’oscurità notturna del trappeto.
E se quella voce si fosse sparsa al di fuori sarebbe stata la fine per l’economia del trappeto. Nessuno si sarebbe sognato di portare le proprie olive in un luogo abitato da fantasmi.

Tra urla e bestemmie  la riunione stava terminando in un clima di generale impotenza, quando tra il rumoroso vociare si sentì una vocina che diceva – “Ci provo io!”.
Il nachiro con un gesto zittì tutti cercando di capire chi avesse parlato. Allora un ragazzino gracile si fece avanti dicendo – “Ci provo io, ma ho bisogno di questo pomeriggio libero per trovare ciò che mi serve”.

Il ragazzino che aveva parlato era il figlio di un contadino del luogo che il padre aveva mandato a lavorare nel trappeto perché non aveva altro modo per pagare un suo vecchio debito con il nachiro. Ma data la sua età e il suo fisico non certo robusto, il suo contributo era alquanto limitato e solitamente veniva adibito alla pulizia del trappeto, a ramazzare per terra e a raccogliere le olive che cadevano dalle ceste, affinché nulla andasse sprecato.

“Eccu! Vole cu se scansa na sciurnata de fatia!” fu questo il commento generale che tra le risate accolse la proposta del giovinetto. Il nachiro, che era pronto a volgere in suo favore qualunque cosa, disse – “Va bene! Ma se non riesci, come non è riuscita questa accozzaglia di scansafatiche, per questa mezza giornata libera mi dovrai una settimana in più di lavoro”.

Allora il giovinetto che sino ad allora si era distinto per non proferir mai parola, guardò dritto in faccia il nachiro e disse – “Va bene! Ma se riesco dove nessuno di voi è mai riuscito, il debito di mio padre si deve considerar pagato”.

Tra le risate di scherno e di compassione, il nachiro gli rispose – “Accetto la tua proposta” e gli diede una gran pacca sulla spalla che lo fece rotolare per terra un paio di volte. E con un paio di sonore bestemmie fece tornare tutti al lavoro.

Il giovane mancò per quasi tutto il pomeriggio, tornando nel trappeto portando con se un paio di abbondanti sacchi di iuta pieni di  non si sa che cosa. Si fece dare una cesta vuota e si mise in disparte, in un angolo buio dove nessuno lo poteva vedere.

Nessuno seppe che stava combinando e quando qualcuno si avvicinava per controllare lui si fermava e copriva la cesta con uno dei sue sacchi.

Arrivò così la notte e i trappitari e il nachiro al termine del turno andarono a stendersi sui loro poveri giacigli. Il giovane sistemò la cesta insieme alle altre e, come accadde le altre notti, anche lui venne improvvisamente colto da un gran sonno e si addormentò.

Solo che questa volta accadde qualcosa di diverso, di inaspettato. Ad un tratto nel buio del trappeto si sentirono urla ed imprecazioni. Queste grida svegliarono tutti e nella poca luce presente proveniente dalle lampade, in mezzo alle ceste tutti videro una strana figura dimenarsi. Il nachiro, mentre reggeva con una mano una fiaccola, prese con l’altra per la collottola il ragazzo e si avvicinò lentamente al luogo dove si sentiva il gran baccano.

E’ difficile descrivere la meraviglia che si dipinse sul volto dell’uomo quando vide all’interno della cesta che aveva preparato il ragazzo, un piccolo essere barbuto, brutto, vestito con un saio  bruno e con una berretta rossa in testa che si dimenava come un forsennato ma senza riuscire a venirne fuori.

Presto detto quello che era accaduto. Il giovanetto, ricordandosi che al visitatore notturno “piaceva” entrare nelle ceste con i piedi insozzando tutto, aveva preparato con il materiale che si era procurato una sorta di colla. Così quando l’indesiderato visitatore era entrato nella cesta convinto di poter fare come ogni sera i suoi comodi, si trovò affondato sino alle ginocchia in quello strano liquido denso che ben presto lo aveva bloccato.

Potete ben immaginare la buona dose di randellate che si beccò e tra grugniti, imprecazioni e grida di dolore a chi gli chiedeva come si chiamasse e da dove venisse, l’unica risposta che gli uscì dalla bocca fu – “Sciacuddhi”.

Nei giorni successivi, guardato a vista da quattro energumeni, venne messo a sistemare tutte le ceste che aveva rovinato, a filtrare l’olio che aveva sporcato e solo quando ebbe rimesso tutto a posto venne liberato e accompagnato alla porta con una nuova dose di bastonate affinché si ricordasse di non mettere più piede in quel posto.

Ora era giunto il tempo di mantenere la promessa fatta. Il giovane aveva fatto ciò che aveva detto. “Il debito di tuo padre è pagato” – disse il nachiro tra gli applausi dei trappitari che osannavano il giovanetto come un eroe.

Solo che il nachiro capendo e apprezzando il valore del ragazzo non aveva intenzione di perderlo, per cui gli disse – “Il debito è pagato e ora tu puoi andare. Ma se vuoi puoi restare. Sarai il mio aiutante e verrai come tale  pagato. E se un giorno te ne dimostrerai degno potrai prendere il mio posto”. Il giovane, che a dispetto di chi lo riteneva uno scansa fatiche amava il lavoro che faceva, accettò con piacere chiedendo solo di poter andare a casa ad annunciare quanto successo al suo povero padre.

Così quello che una volta era un gracile ragazzino preso in giro da tutti, con il passare degli anni crebbe nel corpo, irrobustendosi, e in maestria e quando venne il momento per il nachiro di farsi da parte per via degli anni, prese il suo posto. Grazie alla sua intelligenza e alla sua umanità, nonostante il duro lavoro, quegli furono gli anni di maggior ricchezza per il frantoio.

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Il frantoio ipogeo di Noha si sviluppa in lunghezza davanti al portone di quello che viene chiamato il Castello di Noha. Nonostante lo stato in cui si trovi, abbandonato da tempo immemore, è di straordinaria bellezza e ricco di fascino. Si accede da una casa posta in una corte sull’altro lato della strada ove è posto il portone d’ingresso del Palazzo.

Da un documento del 1754 si evince l’esistenza del frantoio inserito nel contesto di proprietà della Duchessa Maria Spinola. Una incisione sul muro riporta la data del 1771.

Consta di due grandi locali per una superficie complessiva di circa 300 mq. Nel primo si accede scendendo la scala di accesso. Per giungere al secondo occorre percorrere un cunicolo. Terra di riporto non consente di percorrere agevolmente il cunicolo e bisogna procedere rannicchiati.

Nel secondo locale vi è un caratteristico sedile scavato nella roccia e sulla volta, a causa di infiltrazioni di acqua, si sono formate tante piccole stalattiti. Nel fondo del locale, attraversando un muro crollato si giunge a quelle che una volta erano le cisterne del Palazzo.

Questo tesoro nascosto, così come gli altri tesori di Noha raccontati nella mie precedenti note (link), merita maggior rispetto e considerazione di quanto sino ad oggi ricevuti. L’auspicio è che un giorno venga recuperato e restituito in tutto il suo splendore alla comunità nohana e al Salento.

di Massimo Negro