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La settimana santa e la festa di Pasqua della mia infanzia
Di P. Francesco D’Acquarica (del 26/03/2015 @ 21:52:28, in NohaBlog, linkato 2305 volte)

Ci eravamo lasciati con l’ultimo articolo dove vi raccontavo della Quaresima dei miei tempi e altre tradizioni quaresimali a Noha. Vi avevo detto delle “quarantore”, del predicatore dei 40 giorni, della “curemma” e delle tradizioni alimentari di un tempo, quando veramente si faceva Quaresima.

Riprendo il discorso con la domenica delle palme.

Tipica era la processione con i rami di ulivo che partiva dal Calvario per arrivare in chiesa madre. Anticamente si percorreva Via Osanna (si chiama appunto così perché era quello il tragitto della processione). In tempi abbastanza recenti, ma forse ancora oggi, si percorreva Via Calvario per arrivare in chiesa madre. I chierichetti che a Noha sono stati sempre molto numerosi, lungo la strada mescolavano gli Osanna della liturgia alla loro gioia spontanea, a volte anche troppo e fuori da ogni rubrica, buttando all’aria i ramoscelli di ulivo e saltellando come caprioli: era il loro modo di manifestare (in maniera forse un po’ esuberante) la loro gioiosa partecipazione alla processione per Gesù che entrava in Gerusalemme accompagnato dai fanciulli ebrei che gridavano: Osanna! Sono quei rami di ulivo che ancora oggi abbondano nel nostro Salento, ma che sono sotto osservazione per la malattia denominata “Xylella” che li ha colpiti. Speriamo che questo flagello si risolva presto e bene.

Nella mia esperienza canadese, dove gli alberi di ulivo non esistono, per la liturgia delle Palme si usava comprare i rami dalla California e poi rivenduti (a caro prezzo) per la domenica della celebrazione. Ma questo abuso fu presto tolto dagli stessi vescovi del Canada, vietando la benedizione dei rami e facendo solo la processione (paese che vai usanza che trovi).

La tradizione culinaria austera della Quaresima continuava con la “non festa” della thria cu li mugnuli, o della thria e ciciari, dal gusto delicato, il profumo piacevole e l’aspetto invitante. Era quello il tempo delle rustiche pignate, emblema della nostra tradizione, accompagnate dalle cicore 'ssettate, dalle rape 'nfucate e poi ancora dalle soffici e gustose frittate cu li cori de scarcioppule o cu li schiattuni de cicora o ancora con ricercati e preziosi asparagi selvatici.

La celebrazione della Settimana Santa aveva, e, tuttora, ha celebrazioni significative.

Un momento speciale era l’Ufficio detto “delle tenebre”, un rito oggi abolito, che era parte integrante della liturgia.

Si cominciava il Giovedì santo per finire il Sabato santo, perché la Pasqua di Risurrezione (forse perché quando io ero bimbo era tempo di guerra e la notte bisognava stare tappati in casa) era celebrata il Sabato Santo con la solenne caduta de lu mantu a mezzogiorno di Sabato, perché non esistevano le Messe vespertine.

Così per l’Ufficio delle Tenebre si metteva al centro del presbiterio un particolare candeliere di forma triangolare, dotato di quindici candele, (oggi scomparso da tutte le chiese). Dopo ogni salmo veniva spenta una candela. All’ultima candela, alla fine dunque della preghiera, ad un cenno del celebrante, i fedeli scuotevano le sedie o battevano la mano sui banchi causando un fragoroso rumore, con il quale si voleva descrivere lo sconvolgimento delle forze della natura seguito alla morte di Gesù.

La rubrica liturgica in latino ecclesiastico molto semplice diceva che finita oratione, fit fragor et strepitus aliquantulum, che tradotto vuol dire finita la preghiera si faccia un po’ di fragore e di strepito. Ma i ragazzi, in quell’occasione puntualissimi, tutti in chiesa, provvisti di pietre piuttosto vistose, rimanevano in attesa di quel segnale …

Tutta la liturgia e le preghiere di rito (rigorosamente in latino) probabilmente a loro non interessavano per niente. Ma al momento tanto atteso la chiesa cadeva nel buio, e con molto zelo (era l’unico momento fortemente partecipato) i ragazzi con le pietre che avevano portato picchiavano sulle panche, sulle porte e sui confessionali lignei per evidenziare il fragore del dramma dell’arresto e della passione di Gesù.

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In quei giorni santi, protagonisti importanti e necessari erano i Confratelli della Congrega della Madonna delle Grazie.

A parte l’evento del giovedì santo con Cristo nel “sepolcro” che forse meriterebbe un articolo a parte, nella chiesa piccinna (oggi non esiste più) veniva esposta la statua di Cristo morto con accanto la Madonna Addolorata. Lì si andava a far la visita al Cristo morto e da lì partiva la processione del Venerdì Santo, a sera inoltrata. L’organo e le campane restavano muti fino a mezzogiorno di Sabato Santo e i segnali liturgici venivano dati con la “threnula” o “throzzula”, una sorta di strumento di legno con un manico per tenerla saldamente in mano, con dei ferri fissati sul legno che si potevano muovere agitando decisamente quello strumento, per produrre il caratteristico suono triste e sgradevole. Per noi chierichetti era una gara percorrere con quell’arnese tutto il paese il giovedì e venerdì santo per segnalare il mezzogiorno o l’ora dell’Angelus.

 
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Ma prima c’era l’ultimo atto del quaresimale. Il predicatore (sempre un forestiero) doveva esibirsi con la “chiamata” della Madonna. Venerdì sera, prima della processione, al momento culminante della sua perorazione sulla passione di Gesù, commosso prima lui fino alle lacrime per far commuovere tutta l’assemblea, dall’alto del pulpito gridava: entra o Donna e prendi tuo Figlio!

Era il momento più commovente: la Madonna Addolorata, tutta vestita di nero, entrava in chiesa annunciata da un suono lamentoso di tromba e veniva portata sotto il pulpito, dove il predicatore nel colmo della commozione (io ne ricordo uno anche in lacrime) metteva sulle mani della Vergine il Crocifisso, invitando l’assemblea a unirsi alle sofferenze di Maria Addolorata e del Figlio morto. Seguiva poi la processione del Venerdì Santo, molto suggestiva. Apriva il corteo il gruppo di chierichetti affaccendati con la “threnula” per avvisare la gente che stava passando la processione del Cristo morto. I Confratelli con la loro divisa (abito bianco legato ai fianchi con una fascia celeste, una mozzetta celeste, un medaglione sul petto con l’immagine della Madonna e un cappuccio bianco in testa) portavano la statua del Cristo morto e della Madonna Addolorata, mentre la banda suonava la marcia funebre.

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La settimana santa finiva, come detto, a mezzogiorno del Sabato Santo. La chiesa era già preparata fin dalla sera del venerdì. Un grande drappo rosso (u mantu) che nascondeva tutto il presbiterio, era sistemato davanti all’altare.

La liturgia pasquale iniziava con il celebrante nascosto agli occhi dell’assemblea da quel drappo. Al momento del Gloria, cantato, in gregoriano e intonato dal celebrante, il manto cadeva, l’altare addobbato di fiori e di luci con la statua del Cristo Risorto appariva a tutti, dal fondo entrava la Madonna vestita di bianco e di celeste, l’organo e le campane riprendevano a suonare a festa, mentre fuori dalla chiesa una “batteria” di fuochi artificiali aumentava il clima di gioia.

Così si celebrava la Pasqua di Resurrezione ai miei tempi. Nel pomeriggio io accompagnavo don Paolo per la benedizione delle case che durava fino al giorno dopo, la domenica di Pasqua.

Per completare l’argomento culinario diciamo che tra una processione e una predica, la Pasqua arrivava ed esplodeva sulle tavole con un’abbondanza quasi impensabile. Dopo tanto patire si rivelava in tutta la sua bellezza la fresca primavera della Pasqua: l'aunu cu le padate, la fin troppo ricca sagna al forno, e poi finalmente i dolci, le fantasiose e tipiche cuddhrure, i mostaccioli e poi lei, la levigata e sublime pasta di mandorla nelle paste secche e nello statuario pecurieddhru. Sicuramente l'attesa era lunga (40 giorni), ma ne valeva la pena.

P. Francesco D’Acquarica