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Don Gerardo Rizzo, sacerdote di Noha
Di Albino Campa (del 21/04/2007 @ 11:26:08, in NohaBlog, linkato 4052 volte)

"Eccovi di seguito un brano di Antonio Mellone tratto da "il Galatino" n. 6, anno XL, del 30 marzo 2007, nel quale l'autore ricorda con un salto indietro nel tempo la figura del compianto don Gerardo Rizzo, sacerdote di Noha".

Don Gerardo Rizzo

Il 13 febbraio scorso si è spento serenamente don Gerardo Rizzo, sacerdote di Noha. Se n’è andato nel silenzio della notte, nella sua casa ubicata nella storica Piazzetta Trisciolo, quella stessa casa che fu di suo zio, il Monsignor Paolo Tundo, indimenticato arciprete di Noha.
Aveva ottantatre primavere, don Gerardo; e si può dire che abbia trascorso buona parte della sua vita nella sofferenza e negli acciacchi derivanti da un brutto incidente automobilistico accaduto nella seconda metà degli anni ’60; disgrazia che gli procurò una frattura multipla ad un femore. I postumi di quell’infortunio furono visibili, dolorosi, e permanenti; ma quanto più tormentosi, tanto più sopportati con pazienza e santa rassegnazione.
Io lo conoscevo praticamente da sempre, non solo perché egli era un mio “familiare”, (essendo cugino di mio padre), ma soprattutto perché da piccolo imberbe chierichetto, come tanti altri, “gli servivo la messa”: e questo decine, se non centinaia di volte.
Una volta mi capitò anche di servire una sua messa al cimitero di Noha. Era appena spuntata l’aurora… Ma dico subito che fu un’esperienza che non ripetei, in quanto l’atmosfera, la desolazione del cimitero, ed il suono a morto della campana della chiesa (che era un po’ distante dalla cappella nella quale si celebrava) - campana che io stesso, in solitudine in quella sagrestia, avevo azionato tirandone la fune - in quella mattina di nebbia, mi atterrirono così tanto che da allora rinunciai a ritornare in quel santo luogo in quegli orari nei quali quasi nessuno lo frequenta. Una volta in macchina sulla strada per il ritorno dissi subito a don Gerardo che al cimitero non ci avrei più messo piede proprio per quei motivi: mi rispose con una rassicurante risata…
Era così don Gerardo, di poche parole. E sovente taciturno, come assorto in preghiera.
Preparato, diligente, puntualissimo, mai prolisso era molto amato da grandi e piccoli, e molto gettonato soprattutto nelle confessioni sia per la sua notoria indulgenza e sia perché capiva subito chi aveva di fronte, onde la clemenza e l’assoluzione arrivavano nel breve volgere di qualche minuto (se non proprio nell’intorno di una manciata di secondi).
Ha celebrato per decenni la “terza messa” domenicale, quella delle undici “in punto”, messa cantata con tanto di coro ed organo, una messa seguitissima anche perché grazie alla sinteticità di don Gerardo, alle dodici meno venti preciso tutti i cittadini di Noha erano già da un pezzo fuori dalla chiesa, diretti alla volta delle loro case, là dove, da lì ad un quarto d’ora, sarebbero stati pronti ad assidersi per il desinare (a Noha si mangiava alle dodici in punto, anche la domenica: molti hanno mantenuto codesta “regola”).
Non amava, in effetti, le prediche interminabili o prolisse (come invece sovente accade), ma, direi, quelle concettose ma nello stesso tempo stringate ed essenziali. Diceva tutto quello che s’aveva da dire e lo faceva con proprietà di linguaggio e con citazioni dotte (molte proferite in latino perfetto), che denotavano lungo commercio con le lettere e con i libri, sui quali s’era pure consumato la vista. In effetti studiava sempre ed aveva una memoria straordinaria. Alla bisogna, ti spiegava tutto per filo e per segno: e non soltanto i testi dei Padri della Chiesa, ma anche quelli della letteratura italiana di ogni tempo.
Si dilettava anche a suonare l’organo a canne della Chiesa Madre di Noha nel corso della messa serotina e cantava anche con la sua voce cristallina ed intonatissima. Ricordo che una volta un “predicatore quaresimalista” introdusse la sua omelia proferendo queste parole: “Sarò breve…”. Non l’avesse mai fatto. Prontamente dalla postazione dell’organo (che nella chiesa di Noha si trova proprio di fronte all’ambone) don Gerardo gli fece quasi eco, rispondendo ad alta voce, quasi come si risponde ad un salmo responsoriale: “Speriamo!!!”.
Il predicatore dovette rispettare il suo intendimento, così esplicitamente proferito, ed approvato.
Avevo imparato a conoscere don Gerardo così bene (così come, da ragazzo, mi capitava di fare per molti personaggi di Noha - ma anche forestieri - studiandone movimenti, intonazione della voce e gesti) che la sua imitazione mi riusciva meglio di tutte le altre…

*

Alla fine del mese di maggio era tradizione che iniziasse a Noha nella cappella di S. Antonio di Padova la cerimonia della “tredicina” in onore del Santo. Gli incaricati per la celebrazione delle funzioni e della messa, da parte della signora Tetta, organizzatrice e sagrestana di quel grazioso tempietto, (un tempo in piena campagna, ora, ormai circondato da una meno romantica “villettopoli”) erano proprio don Gerardo Rizzo, mentre i chierichetti deputati al servizio sacro erano il mio amico e compagno di classe, Adriano, ed il sottoscritto. Siamo sul finire degli anni settanta e verso i primi degli anni ottanta.
Per don Gerardo potevamo servire la messa senza la tonaca rossa e la cotta: un’eccezione, uno strappo alla regola molto gradito da noi altri, anche perché nei pomeriggi di giugno la temperatura pur non essendo ancora torrida da noi è comunque calda.
Ci divertivamo un mondo e con don Gerardo si scherzava e si rideva sovente, prima o dopo la messa. Una volta però accadde “nel durante”.
Si era nel bel mezzo della celebrazione. Ad uno dei due ragazzi capitò uno svarione (che di fatto era un’inezia, che nemmeno ricordo). Ai due chierichetti, che si guardarono un attimo negli occhi, venne immediatamente un attacco di risate, che, sulle prime, si tentò di bloccare, soffocare, reprimere, o almeno frenare; poi fu trattenuto a stenti, e poi ancora sempre meno…
Insomma - e per farla breve - con il nostro continuo drammatico crescendo d’ilarità non dominata, ben presto contagiammo lo stesso don Gerardo il quale, per qualche interminabile decina di secondi dovette a sua volta interrompersi. Questo fece sì che i fedeli raccolti in preghiera in quella piccola chiesa s’accorgessero di tutto quanto avveniva sull’altare a pochissima distanza dai loro occhi ed orecchi, e, a loro volta, come accade per queste cose, pur non sapendo il motivo di tanto ridere, scoppiarono anch’essi in una fragorosa generale risata. Alla fine della messa, in macchina, diretti alla volta di piazza San Michele il centro di Noha, non fummo redarguiti, come pensavamo o temevamo: anzi continuammo ancora a ridere, e pare che, con questo, don Gerardo volesse dirci che la fede è gioia, letizia e che “[…] il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso …” [cfr. pag. 451, U. Eco, Il nome della rosa, La Biblioteca di Repubblica, Barcellona, 2002].
Le tredici splendide giornate di primavera inoltrata si concludevano, dunque, il tredici giugno con la festa del Santo Taumaturgo di Padova, con la benedizione e la distribuzione a tutti del pane benedetto…
Alla fine della tredicina, don Gerardo per ringraziarci della nostra assistenza ci portava a Galatina per offrirci un gelato (un tempo i gelati erano un lusso che si gustavano solo nelle domeniche pomeriggio d’estate, ed a volte nemmeno in quelle). Il bar di Galatina – bellissimo - era quello di Rafelino, ubicato in via Gallipoli, quello che produceva i gelati più buoni del Salento e quello (almeno così ci sembrava) che aveva inventato la panna montata, una delizia celestiale, una squisitezza morbida e vellutata che in quel gruppo di anni di oltre un quarto di secolo fa non tutti conoscevano. Prendevamo un cono a testa con tre gusti e con sopra tanta panna montata ed in macchina sorbivamo con lentezza quella leccornia sublime…
Ecco: a me piace ricordare proprio così il caro don Gerardo, mentre con la sua Fiat Cinquecento ci portava da Noha a Galatina per offrirci il gelato di Rafelino, sormontato da soffice candida panna montata.

ANTONIO MELLONE