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La domenica andando a votare
Di Albino Campa (del 08/05/2012 @ 22:23:38, in NohaBlog, linkato 2132 volte)

Si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Aveva dormito male quella notte, aveva dormito poco. Non riusciva a capire dove potesse risiedere l’origine di tale strano disturbo: qualcosa gli aveva potuto dar fastidio, pensò. Eppure tutto gli era sembrato così buono, tutto molto appetibile la sera prima a cena. Era da tempo che non si abbuffava in quel modo, lo doveva ammettere. D’altronde non si riteneva poi così vecchio da non riuscire più a sopportare eccessi di quel genere! Non doveva risiedere nel cibo quel senso di pesantezza e di malessere che aveva principio nel basso ventre e veniva su vorticoso per l’esofago sino a sfociare in un insopportabile conato di vomito. Provava a non pensarci, a far finta di niente, a stringere la testa forte nel cuscino. Ecco allora che la nausea veniva sostituita da un cerchio alla testa, un insopportabile fischio nell’orecchio destro che gli faceva strizzare le palpebre e chiudere a riccio le labbra. Un senso di serenità e spensieratezza gli procurava quel gesto innocuo del chiudere le labbra e stringerle forti sino a sentire un filo di amabile dolore venire su per il naso e accarezzargli le tempie. In genere era proprio in quel piacevole momento che finalmente riusciva a distogliere l’attenzione da ciò che più lo turbava.
Quella domenica mattina era già sveglio da un’oretta e da tempo si rivoltava tra le coperte con le labbra serrate nel tentativo disperato di chetare quel senso di disagio che come un segugio gli era stato alle calcagna tutta la notte e aveva persino accompagnato il suo frastornato risveglio. Per quanto ci provasse però non riusciva a ricordare cosa l’avesse condotto in tali riprovevoli condizioni. Dalle persiane chiuse si facevano strada a strattoni i dorati raggi di sole, disegnando sul soffitto della camera in penombra una ragnatela d’armoniosa geometria. Da ciò quindi dedusse che oramai era giorno e dunque era forse giunto il momento di levarsi dal letto. Dalle altre stanze non veniva alcuna voce, alcun rumore: il pensiero che ancora gli altri componenti della famiglia stessero dormendo lo fece trasalire. Odiava svegliarsi per primo, non sopportava l’idea di camminare nel silenzio della casa, di sedere in cucina da solo e sorseggiare una tazza di caffè fumante dinanzi al telegiornale del mattino. Lo faceva sentire vecchio e solo, anche se sapeva di non essere affatto né vecchio, dal momento che aveva appena compiuto trentacinque anni, né tantomeno solo, visto che amava circondarsi tutto il giorno di rumorosi amici e sdolcinate ragazze.
Non poteva stare un momento di più a macerare nel letto, doveva alzarsi quanto prima e mettere fine al supplizio. Così fece: si rivoltò nel letto sino a cascare giù sul pavimento, con le mani afferrò le pantofole, se le portò veloce ai piedi e poi con uno scatto azzardato si mise ritto sulle ginocchia. Si guardò intorno per cercare un punto di riferimento, ma era come se ogni cosa cercasse timida di sottrarsi al suo sguardo nascondendosi nella penombra. La sua attenzione però cadde su un misero pezzo di carta baciato da un chiaro fascio di luce. Lo raggiunse carponi e lo raccolse da terra. Estasiato osservò il cartoncino: un viso immacolato faceva capolino da una cornice colorata e lo fissava sorridendo, parole a caratteri vivaci circondavano quella figura estranea, che era sicuro di non aver mai avuto il piacere di conoscere, ma di cui stranamente rimembrava il nome e quel sorriso da ebete. Per quanto si sforzasse non riusciva a trovare un solo motivo per giustificare la presenza di quel faccione nella sua camera da letto e tantomeno quello strano sorriso sulle labbra.
Una cosa però riusciva a capirla, nonostante tutto: quell’uomo elemosinava qualcosa. Si ma cosa?, si chiedeva confuso.
Prese la figurina con sé e si diresse barcollando in cucina, dove ahimè dovette assistere a una scena che lo traumatizzò non poco e lo lascio tramortito sull’uscio: la cucina era piena di gente estranea che campeggiava tranquilla sul tavolo, sul caminetto, per terra, nel centrotavola, nel porta giornali e sul televisore. Si sentì accerchiato, messo alle corde. Era sul punto di arrendersi quando realizzò che erano ancora le otto di una assolata domenica mattina e che probabilmente a trentacinque anni era troppo vecchio, sì doveva ammetterlo, per farsi prendere dai dolori e non andare a votare, e peggio ancora per giocare con le figurine.
Chi votare quindi? Come al solito non si era fatto ancora un’idea. Un senso di nausea lo tormentava, come un folgore gli venne alla mente la massima “la democrazia è un sistema politico in cui il popolo viene preso a calci dal popolo su mandato del popolo” e in un attimo realizzò la causa dei suoi dolori mattutini: quella domenica mattina il suo corpo, a sua insaputa, si predisponeva ad essere preso nuovamente a calci.  

Michele Stursi