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Il San Michele Arcangelo di Noha e la lotta continua
Di Antonio Mellone (del 28/09/2021 @ 15:10:55, in NohaBlog, linkato 1218 volte)

Per via di un virus e quindi delle norme che permettono folle soltanto dove conviene al capitalismo trionfante, la festa di San Michele Arcangelo, patrono di Noha, si tiene ancora una volta in maniera, diciamo, mistica, ma al contempo con alcuni interessanti ritorni di fiamma.

Intanto torna a far capolino il mercatino (in barba ai centri commerciali), il luna park di quartiere (a dispetto del fatto che il Salento è ormai tutto un parco tematico), le bancarelle di scapece e mustaccioli, noccioline e zucchero filato, pezzetti e braciole (non si può mica compensare ogni carenza d’affetto al Mc Donald’s), e si riascoltano finalmente i preludi e le arie dell’opera, le marcette e l’inno al Santo Patrono per le note del Concerto bandistico di Noha. Per fortuna qui il senso di comunità non è stato ancora smarrito, nonostante le community sembrino brillare dagli schermi degli smart-phone più delle luminarie.

Ebbene sì, il nostro San Michele non è tipo da abbassare la cresta, ovvero il pennacchio; e imperterrito, nonostante restrizioni e green pass, continua a mostrarci lo scudo con impresso il suo motto antico: Quis ut Deus.

Oltretutto quest’anno, settecentesimo della morte di Dante Alighieri, se permettete lo fa anche con un pizzico di orgoglio in più: in sostanza - immagino lo sapevate già - senza il nostro Arcangelo non ci sarebbe stata nemmeno la Divina Commedia.

Tutti sanno che l’Inferno è come una grande voragine, a Noha diremmo vora, a forma di imbuto culminante al centro della terra. Orbene, questo burrone che si apre nei pressi di Gerusalemme fu causato dalla caduta di Lucifero (l’angelo più bello che si era ribellato a Dio, avendo osato alzar le ciglia - “contra ‘l suo fattore alzò le ciglia” - Inf. XXXIV, verso 35) allorché fu scaraventato dal Paradiso sulla terra in seguito alla battaglia condotta e vinta in cielo da Michele e dai suoi angeli. Sicché la terra in seguito a questa caduta si ritira per paura, ripugnanza e orrore formando un buco per poi ricomparire dall’altra parte dell’emisfero terracqueo al di là dello stretto di Gibilterra “dov’Ercule segnò li suoi riguardi” (Inf. XXVI, verso 26), come una enorme montagna: quella del Purgatorio, “... n’apparve una montagna, bruna / per la distanza, e parvemi alta tanto / quanto veduta non avea alcuna” (Inf. XXVI, versi 133-136).

Il Poeta dunque è grato al principe degli angeli citandolo nel canto VII dell’Inferno come colui che, come detto sopra, “fe’ vendetta del superbo strupo” (Inf. VII, verso 12). E quasi certamente il Messo celeste inviato ad aprire con una verghetta le porte della città di Dite, sbarrate dalla tracotanza dei demoni, è lo stesso San Michele (Inf. IX), onde il viaggio oltremondano di Dante e Virgilio poté finalmente riprendere.

Infine il Paradiso. Gli angeli non sono che puri spiriti, però gli uomini han bisogno di immagini per rendere sensibile l’essenza delle verità eterne e per raffigurare i misteri ineffabili. E dunque, dice Dante, come le Sacre Scritture attribuiscono sembianze umane a Dio, con mani e piedi, e aggiungiamo noi con occhi, barba, vestiti, eccetera, così anche agli angeli si conferisce apparenza umana, bellissima ma immaginaria per condescendere alla facultate dell’uomo, che è l’immaginazione la quale a sua volta richiede una rappresentazione: dunque si arriva necessariamente a rappresentare in forma sensibile una realtà ultrasensibile – “Per questo la scrittura condescende / a vostra facultate, e piedi e mano / attribuisce a Dio e altro intende; / e Santa Chiesa con aspetto umano / Gabriel e Michel vi rappresenta, / e l’altro che Tobia vi rifece sano” (Par. IV, versi 43 – 48).

E così le belle e storiche effigi del San Michele nohano (cioè la statua in cartapesta e la scultura dell’altare barocco in chiesa madre, il simulacro in pietra leccese ricoverato al museo di Galatina e l’affresco di via Calvario) sono Arte, vale a dire alate fantasie poetiche con le quali viene rappresentata in forma sensibile la “Gloria di Colui che tutto move” (Par. I, verso 1), e dunque anche la sconfitta del drago o serpente primitivo.

Chissà quanti, approfittando dell’appuntamento, riusciranno a cogliere per similitudine, analogia o metafora, l’urgenza di una novella lotta alle seduzioni degli immarcescibili Draghi.

Antonio Mellone