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Scappano gli alberi
Di Antonio Mellone (del 23/09/2017 @ 12:18:26, in NohaBlog, linkato 2339 volte)

Dicono che dava fastidio a un camion parcheggiato, o qualcosa del genere.

Cioè non so se mi spiego: un albero di pino che si trovava a Noha in via Castello, lì buono buono da almeno un centinaio d’anni, tutto a un tratto gli è dato di volta il cervello, come si dice, e s’è messo a rompere i coglioni ai camion di passaggio. Ma vedi un po’ tu se qui, oltre alle persone, iniziano a impazzire pure gli alberi.

Dicono che il conducente non si fosse accorto del tronco che lambiva il cassone del suo enorme autocarro, sicché, ripartendo dopo la sosta, l’ha pure divelto.

Mi direte voi: “Vabbè, può capitare: tanto c’è l’assicurazione che ristorerà i danni alla collettività per il ramo strappato”. Ma manco per idea: nel mondo di sottosopra in cui stiamo facendo finta di convivere tutti quanti, sarà invece la comunità a dover risarcire il camionista svampito (e, immagino, anche il suo avvocato).

 In più, per punizione, “la comune” dovrà munirsi di sega elettrica (o in subordine a mano), e rimuovere non solo il “colpevole” (come già fatto con il pino di cui sopra), ma – alla maniera dei migliori campi di concentramento nazisti – anche i suoi compagni bellimbusti, anzi arbusti, rei di non avergli impedito di nuocere al traffico stradale.

E niente. Dobbiamo farcene una ragione. Ormai son pericolosi gli alberi (che dunque, per alchimie sociologiche e forse anche psichiatriche, diventano “soggetto” e non più “complemento oggetto” di un danno), e non piuttosto l’asfalto, il cemento, i mattoni, i muri, gli autotreni o le moto che vi sfrecciano accanto e che talvolta vanno ad impigliarvisi con tutte le corna.

E pensare che gli antichi romani piantavano lungo le loro strade (come per dire la via Appia, regina viarum), per ombra e ornamento, nonché per prevenzione dai dissesti idrogeologici, i pini domestici ad ombrello ovvero gli italici a chioma alta (i Pinus Pinea – proprio quelli che vogliono segare a Noha e giacché pure a Galatina). Ma non solo fuoriporta (Orbi), anche in città (Urbi). Basti dare un’occhiata intorno al Colosseo, ai prospicienti Fori Imperiali, al piazzale della stazione Termini e a molti altri viali della città eterna dove svettano sereni molti pini della stessa specie, taglia e qualità, in un tripudio pittoresco di bellezza, natura e paesaggio senza incutere terrore ad alcuno.

Ma stavamo parlando giustappunto degli antichi romani, mica dei moderni nohani.

Quanto alle radici, esistono semplici soluzioni di ingegneria naturalistica e buone tecniche agronomiche per evitare problemi e scoppolamenti vari. Ma certe pratiche, a quanto pare, possono essere utilizzate altrove mica qui da noi dove sono considerate poco più che amenità, vaneggiamenti dei soliti “ambientalisti”, insomma fantascienza.         

Il pino domestico, per dire, era tra le specie arboree narrate anche dal grande Cosimo De Giorgi - lo scienziato polivalente che meglio di ogni altro ha descritto il Salento da molteplici punti di osservazione.

Il De Giorgi – citato dal prof. Paolo Sansò non più tardi dell’altra sera a Noha nel convegno di FareAmbiente - sul finire dell’800, girovago nei dintorni di Supersano, così si esprimeva: «E verso l'orizzonte a sinistra si profilano gli ombrelli dei pini d'Italia, che sollevan le loro chiome pittoresche sulla bruna massa della quercia di Belvedere».

Invece, si parva licet componere magnis, per descrivere il Salento odierno, il Mellone, scienziato (del) polivalente (di Noha), constatato che i pini oltre a investire i camion portano pure la processionaria [magari in processione, ndr.] per cui “vanno scappati” senza indugio; visto che gli ulivi sono da eradicare tutti of course [di corsa, ndr.], pure quelli sani perché potrebbero ospitare qualche povero batterio di Xylella; considerato che le palme sono affette dal punteruolo rosso, per cui muoiono da sole senza il bisogno di staccar loro la spina; premesso che gli aranci e i limoni soffrono di cocciniglia e fumaggine, onde con un po’ di Seccatutto risolvi ogni problema [magari alla radice, ndr.]; atteso che gli eucalipti e i pioppi sporcano, signora mia, con tutte quelle foglie caduche, per cui bisognerebbe piantarla una buona volta [“piantarla” da intendere in senso letterario e non letterale, ndr.]; osservato che per tutto il resto c’è master fuoco - sicché s’invera anche quel detto di François-René de Chateaubriand per il quale “le foreste precedono i popoli, i deserti li seguono” -, il Mellone suddetto, dicevamo, non potrà che vergare per i posteri [o forse per i pospari, ndr.] le seguenti sentite note: “E verso l’orizzonte, a destra [che la sinistra è morta da un pezzo, ndr.] si profilano gli ombrelli degli abeti artificiali [o ebeti, è uguale, ndr.] che sollevan le loro chiome cafonesche sulla bruna massa della feccia [cioè noialtri, ndr.] da distruggere”.

E’ proprio vero che l’albero è il più grande successo della Natura. Mentre l’uomo, il cesso.

Antonio Mellone