Di Redazione (del 06/09/2024 @ 09:58:23, in NohaBlog, linkato 475 volte)

La Madonna delle Grazie s’incammina lungo le stradina della piccola Noha agghindata dalle parature della premiata ditta Cesario De Cagna in occasione della festa a Lei dedicata. La processione che La porta fra i fedeli si avvia alle 20 di sabato 7 settembre, dopo la messa sulle marce dell’orchestra di fiati “San Gabriele dell’Addolorata” di Noha.

Al rientro la statua è salutata dai fuochi d’artificio della ditta Coluccia di Galatina, mentre in serata, a partire dalle 21.30, si balla con Musicarella Sprint.

Domenica 8 le messe sono celebrate durante tutta la giornata, fino a quella delle 19. Poi alle 21 spazio alla serata di pizzica degli Scazzacatarante.

Legata alla festa religiosa c’è la fiera della Madonna delle Grazie, con la sfilata dei cavalli che – per questioni di cavalleria – si svolge la domenica successiva (vedi rubrica Sagre e feste).

 

 

 
Di Redazione (del 23/08/2024 @ 09:29:58, in NohaBlog, linkato 3678 volte)

Tutti nati nel 1974 e vissuti a Noha che seguendo una consuetudine iniziata 10 anni prima in occasione dei quarant’anni, decidono di festeggiare insieme i loro cinquant’anni, una delle tappe più importanti della vita.

Tutto parte da un gruppo WhatsApp e subito si torna indietro con la mente agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, a quei ricordi che profumano di tempi spensierati, sereni, in cui tutto sembrava possibile, momenti che hanno insegnato cos’è la felicità.

Mezzo secolo, alcuni senza mai perdersi di vista altri ritrovati dopo quasi quarant’anni con quell’innocenza che cristallizza i sentimenti nel tempo. Ognuno ha seguito il proprio percorso, ha intrapreso strade diverse anche lontano dalla terra dove si è nati, ma quel legame rimane sempre indissolubile.

Le risate condivise, le avventure in classe, le maestre, i professori, i primi amori, ogni ricordo anche il più piccolo ha dipinto quel periodo che per sempre resterà nel cuore.

La festa dei cinquantenni non ha dimenticato i cari amici che non ci sono più: Cristina, Tania e Martino, sempre presenti nei ricordi e celebrati insieme ai loro parenti con una messa in loro suffragio.

Il 16 agosto si sono tutti ritrovati a festeggiarsi e a festeggiare un capitolo importante della loro vita. Sono bastati pochi minuti per ritrovare l’intesa di un’amicizia che c’era un tempo. Complicità, goliardia, voglia di riscoprirsi e raccontarsi hanno reso indimenticabile una serata che è rimasta nel cuore di tutti.

 
Di Marcello D'Acquarica (del 19/08/2024 @ 13:28:40, in NohaBlog, linkato 455 volte)

Parchi eolici, fotovoltaici e altro ancora. Il loro prodotto non è l'ossigeno e gli scarti non sono legna, foglie, frutti, fiori, humus e boschi. No.
Quindi vanno chiamati col nome giusto, e cioè industrie produttrici anche di energia ma soprattutto di profitti a terzi.

È così evidente l'inganno insito nel nome, che sicuramente i fautori di questa roba sono convinti che noi altri del popolo siamo una massa di cretini.

A detta del MASE (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica - https://va.mite.gov.it/it-IT/Procedure/ViaElenco/27/14) in mezza Italia stanno per essere impiantati migliaia, ma che dico: milioni di parchi.
Secondo il GSE (Gestore dei Servizi Energetici https://atla.gse.it/atlaimpianti/project/Atlaimpianti_Internet.html),  la provincia di Lecce si è aggiudicata il secondo posto dopo Brescia come area con il maggior numero di impianti fotovoltaici, e ora a quanto pare vogliono primeggiare  altrettanto con l'eolico e i rifiuti pericolosi.

Infatti, il nostro territorio, dico soprattutto le campagne di Galatina in cui risiede una delle molteplici teste del mostro, sarà straziato dalle “linee di congiunzione” di cavi che partiranno (o arriveranno) alla centrale Terna, per un “Parco Eolico off-shore Odra” a 12 km dalla costa. Il parco eolico interessa un’area pari a circa 162 kmq (1KM PARI A 100 Ha) e sarà composto da 90 aerogeneratori. Così dopo la terra potremo dire addio anche al mare.

E così la nostra bella Gggalatina, primeggerà nel groviglio disarticolato di recinti e reticolati senza l'ombra di uno sputo verde che sia un cespuglio, una scrascia, una finta siepe di plastica, come vorrebbe il regolamento comunale, per nascondere alla vista dei malcapitati abitanti avvezzi al villeggiar nei campi, la devastazione che si trova all'interno dei sopradetti “parchi”.

 
Di Marcello D'Acquarica (del 08/08/2024 @ 00:50:38, in NohaBlog, linkato 1277 volte)

Finita la guerra, l’Italia era in macerie e la popolazione in estrema sofferenza. Era prevedibile che i nuovi governanti dovessero chiedere ulteriori sacrifici agli italiani per avviare la cosiddetta “ricostruzione”, questo c’era da aspettarselo, ma non certo con l’inganno. Non lo meritava nessuno, tantomeno la povera gente che aveva già vissuto cinque anni di tragedie.

Il 2 Giugno 1946, gli italiani furono chiamati al voto, e per la prima volta nella storia l’Italia divenne una Repubblica.

Il 25 giugno 1946, pochi giorni dopo, fra le macerie lasciate dalla guerra, si riuniva a Montecitorio l’Assemblea costituente, composta da 556 deputati, e per la prima volta in Parlamento vennero elette 21 donne. Con la Costituzione saranno garantiti i principi che affermeranno i valori fondamentali di Libertà, Uguaglianza, Solidarietà che sono ancora oggi vitali.

La Costituzione entrò in vigore il primo gennaio del 1948, ma occorrevano ancora molti anni prima che tutti gli articoli trovassero applicazione nella vita reale degli italiani.

A pochi giorni dalla nascita dell’Assemblea costituente, il 20 giugno del 1946, il governo italiano e quello belga, siglarono un accordo cosiddetto “uomo-carbone”. Esattamente 2 mila e 500 tonnellate di carbone ogni mille minatori. Il carbone doveva servire ad avviare la macchina industriale, che avrebbe portato lavoro e benessere alla nazione. Invece si rivelò un vero raggiro.

La propaganda avviata dai due governi per attirare l’attenzione di chi cercava un lavoro fu subdola, faceva leva su promesse di grossi salari, di una sanità gratuita e di case per tutti. Invece il lavoro si rivelò in tutta la sua pericolosità, in quanto alle case i nostri emigranti, una volta in Belgio, trovarono baracche di lamiera o di legno, residui dei campi di concentramento adoperati durante la guerra. E non per ultimo, ci fu l’obbligo perentorio di non poter fare altri lavori se non dopo almeno 5 anni di miniera. “La mina” la chiamavano nel gergo popolare.

Cinque anni era il tempo previsto da uno studio sanitario eseguito dal governo belga, in cui veniva appurato che il rischio di ammalarsi di silicosi per i minatori sarebbe avvenuto quasi con assoluta certezza, appunto entro un massimo di 5 anni, il tempo necessario quindi per sfruttare la manodopera fino all’ultimo respiro. Un lavoro sporco in tutti i sensi.

Per chi si rifiutava c’era la prigione per almeno un anno, in attesa di essere rispedito indietro con il divieto incondizionato di ritornare. Tra questi “imprevisti” dissimulati dalla propaganda dal “manifesto rosa”, così era chiamato il comunicato affisso in tutti i Comuni d’Italia, il peggiore inganno è stato il mancato riconoscimento della silicosi come malattia professionale, una malattia che si sapeva essere mortale. Esistono sul tema decine di libri e articoli che hanno sviscerato quasi ogni aspetto della vicenda dei circa 300mila italiani che dal 20 giugno del 1946 presero la via del Belgio, al ritmo di duemila a settimana, per gettare i propri corpi nelle miniere di carbone. Oggi nessuno di noi si sognerebbe di mandare i propri figli a fare un lavoro così gravoso, tanto meno a mille metri sottoterra, a sputare carbone senza l’ausilio di protezioni, con pochissime norme di sicurezza e con la certezza di morire prematuramente.

All’ombra di quel trattato, quindi, si aprirà il dramma di migliaia di lavoratori, che si troveranno ad affrontare durissime condizioni di vita e di lavoro, e queste saliranno drammaticamente alla ribalta alcuni anni dopo, quando la mattina dell'8 agosto del 1956, in un incendio scoppiato nella miniera del Bois du Cazier di Marcinelle, a mille metri sottoterra, perderanno la vita 262 persone, tra cui 136 immigrati italiani, di cui ben 16 salentini. Nessuno di quei 16 era di Noha, ma alcuni dei nostri concittadini ci andarono molto vicini.

Le testimonianze di tante sofferenze e dei sacrifici che hanno dovuto fare anche le famiglie dei nostri compaesani, sono tantissime. Ne abbiamo raccolte alcune di Noha. Il valore che può scaturire dalla lettura di quei vissuti, seppur velato dal tempo, è talmente prezioso per il nostro quotidiano e per il futuro delle nuove generazioni che vale la pena considerare con impegno. Un insegnamento quello del sacrificio e del dono della propria vita pari ad un martirio. E con mia grande sorpresa scopro che dall’altra parte, dalla parte di chi è custode di quei preziosissimi segreti, c’è un forte desiderio di condivisione, quasi una liberazione.

Angelo Chezzi

E’ grazie al mio amico Roberto, che incontro Angelo in uno dei miei tanti andirivieni a Noha. Lo incontriamo nella sua casa di campagna, verso Sirgole. Dove, dopo 27 anni di miniera, va a godersi il suo giardino. E’ in questa occasione che ritrovo Aldo, figlio di Angelo e mio vecchio compagno di scuola.

Non vedevo Aldo Chezzi dai primi anni delle elementari, quasi una sessantina di anni fa, eppure è viva l’immagine di quei due bambini che uscendo da scuola si lanciavano in una corsa folle giù per la discesa di via Fabio Filzi con attorno al collo il grembiule a mo’ di mantello da super eroi, sognavano di librarsi in volo nel cielo. E Siamo volati

davvero, lui in un cielo un po’ diverso dal mio, e me lo racconta.

Suo papà Angelo si “arruola” per il Belgio nel 1946. Dopo appena un paio di anni, ritorna a Noha per sposare Lucia Congedo.

Beringen è a nord est, verso il confine con l’Olanda. La destinazione della miniera in cui andare a  lavorare la sceglieva il Governo belga al momento della selezione. Questa di fatto era una visita molto approfondita, così raccontava Angelo: “ci visitavano anche nella bocca, come se fossimo dei cavalli”. Sotto la stazione di Milano avevano organizzato un grande centro per le selezioni, dove due medici italiani e due belga, si occupavano delle visite che erano talmente meticolose da durare anche tre giorni.  Per essere considerati idonei occorreva essere in perfetta

salute, alcuni li rispedivano indietro solo perché avevano lievi difetti fisici, bastava anche solo una venuzza più evidente, e venivano respinti. Angelo nella miniera di Beringen fa il carpentiere, in pratica è addetto alle armature delle gallerie che i suoi compagni di lavoro scavano man mano. Dopo solo 5 anni compra casa a Noha. La sua vita procede in minera con una breve pausa per malattia che trascorre al paese, fino al 1974 anno in cui va finalmente in pensione.

Aldo invece, fa parte della generazione che ha vissuto la miniera con molti meno rischi degli anni ’50 e ’60, si scavava ancora, certo, ma con l’ausilio di mezzi meccanici e asserviti dalla tecnologia più moderna. Ha studiato nelle scuole belga ed è diventato un tecnico di impianti elettrici. Dopo 26 anni di lavoro e di vita in Belgio, non dimentica Noha, ma deve restare in Belgio dove crescono i suoi figli, e appena può vola giù a Noha anche per pochi giorni, a continuare il sogno di Angelo, rifugiandosi nel suo meraviglioso giardino di Sirgole, fra la vigna e gli alberi da frutta e gli ortaggi ed ogni ben di Dio che la nostra Terra se trattata bene sa dare.

Raffaele Rizzo, nasce a Noha il 22 gennaio 1919 in Vico Congedo, la sua è l’ultima casa del vico, dopo ci sono solo prati e fichi d’India. Raffaele è uno dei tanti braccianti senza terra. Insieme ad altri si raccolgono la mattina presto in piazza dove il possidente di turno seleziona la forza lavoro, a giornata.

Noha in quel tempo contava poco più di mille abitanti e offriva pochissime possibilità di lavoro, i braccianti erano numerosi e venivano sfruttati senza un adeguato salario.

Raffaele ha un sogno, quello di costruire un forno per continuare l’attività di sua mamma Maria, che al paese era conosciuta come “a Maria Furnara”.

Nel 1948 si sposa con Maria Annunziata Congedo, una bella ragazza di Aradeo. Intanto di nascosto da Maria, con la complicità di suo fratello Narduccio che lavorava già a Marcinelle insieme al cognato Mario Mangia di Galatina, organizza il suo trasferimento in Belgio. Vuole andarci solo per lavorare qualche anno e realizzare il suo sogno. Maria quando viene a saperlo non è contenta, ma sapendo che sarebbe stato in compagnia del fratello e della sorella Donata, stringe i denti e dopo appena due anni, nel 1950 acquistano la casa davanti  all’edificio  scolastico,  oggi piazza Ciro Menotti. Ma il sogno di Raffaele è sempre quello di comprare la zona attigua alla nuova casa per costruire il forno.

La vita in miniera è dura, soprattutto quella di Bois du Cazier di Marcinelle, è una delle miniere più vecchie, risale alla fine del 1800. Vi sono già accaduti molti incidenti gravi. Una volta morirono 40 persone a causa di una esplosione di gas. La proprietà non intende investire denaro per la ristrutturazione di quella miniera già così sfruttata e bisognosa di alti costi di ammodernamento. I pozzi sono profondi oltre mille metri e le sue gallerie sono lunghe anche decine di chilometri. Lì sotto scarseggia l’aria, e la bocca si impasta di carbone, ma la cosa peggiore è la polvere di silicio, quella è talmente sottile che penetra nei polmoni fino a farli indurire e ahimè, scoppiare.

Poi vi era anche il pericolo del grisù, il gas inodore e incolore che a volte si sprigionava sotto i colpi dei picconi, e faceva addormentare gli sfortunati che, se non se ne accorgevano in tempo per fuggire via, ci lasciavano la pelle.

Intanto sta per nascere Antonio, il terzo figlio di Raffaele, è il mese di maggio del 1953. Raffaele purtroppo non riuscirà a vedere il suo piccolo. Manca solo un mese al rientro a casa ma durante gli scavi in galleria, viene travolto da un crollo ed un masso lo colpisce in testa ferendolo mortalmente. Stranamente in quel momento è solo e nessuno gli presta soccorso. Raffaele muore così, solitario, in una galleria profonda e buia in un incidente mortale a Marcinelle nel 1953. I suoi resti saranno trasferiti nel cimitero di Noha, all’incirca un anno dopo, accompagnati dal fratello Narduccio, che dopo la tragedia in famiglia, non ne vuole più sapere di miniere in Belgio, tant’è che dopo qualche anno va a lavorare in Germania. Ma siamo già negli anni ’60, e le cose non sono più come nel 1946.

Torquato Carallo

Ho avuto l’onore di incontrare una persona davvero esemplare, d’altri tempi: Carmelina Patera, moglie di Torquato Carallo morto nel '96. Carmelina ha un carattere meraviglioso,  nonostante  le sue sofferenze, mi accoglie con un sorriso dolcissimo, mi aspettava e tra una frase e l’altra non finisce mai di dire: “…bei figli, belle persone, molto educate”. Si ricorda dei D’Acquarica  che  abitavano  in via Aradeo all’angolo con via Messina. Lei stava con la sua famiglia nella casa in via Benevento, a due passi dalla casa di Raffaele Rizzo e di Cesare Lisi, in fondo Noha è tutta lì. Sembrava che li unisse il destino.

Si ricorda di tutti i suoi vicini, e me li elenca uno per uno, di ogni casa e di ogni famiglia, nome per nome perfino in ordine di età. Carmelina ha una memoria di ferro.

Canta, mentre racconta canta canzoni dei suoi tempi. E piange, si, ogni tanto piange per i dolori che ha ai piedi. È sofferente Carmelina, dobbiamo fare presto perché la sua resistenza richiede sostentamento e riposo.

Carmelina nasce nella casa di via Benevento nel 1928, a 20 anni lei dice di essere “donna da marito” e mi racconta che sapeva cucire perché era andata alla scuola di taglio da Toma a Galatina. Grazie ad un suo cugino incontrò Torquato che veniva da Aradeo, se ne innamorò subito. Torquato aveva già un lavoro in Belgio, anche lui è stato uno dei primi a rispondere alla seconda chiamata della Patria. Torquato e Carmelina si sposarono nel 1954 senza tanti preamboli, una “fuitina”. Racconta Carmelina che a portarla via da casa fu suo cugino, con la macchina andarono in una campagna, e subito dopo il matrimonio in chiesa, a Noha ovviamente.

Don Paolo che conosceva bene i suoi parrocchiani e sapeva a cosa sarebbero andati incontro quelli che partivano per il Belgio, come forma di incoraggiamento, diede loro la benedizione dicendo testuali parole: “ …e così finalmente vedremo i soldi del Belgio”.  Il viaggio, racconta Carmelina, cominciò in corriera fino a Lecce, si partiva presto, alle 4 del mattino. Il treno era brutto, duro, di legno. Ma nella valigia oltre alla farina, c’era una bottiglia di vino, e il pane e pomodoro e le sarde, e pure una bottiglia di olio. Il viaggio durava quasi tre giorni. Tre lunghissimi giorni. Era il mese di maggio e per fortuna non faceva freddo.

Giunti a destinazione, a Beringen, nel cantone Fiammingo, lo stesso posto dove stavano i Chezzi, il treno si fermò in una stazione di scarico merci, la stessa dove insisteva il campo di lavoro, lontano dal paese. Ai nuovi arrivati non era concesso scendere in stazione, per evitare di farli incontrare con gli altri operai belga. Gli immigrati non erano ben visti dai cittadini belga, perché a causa loro, il costo del lavoro diminuiva. La solita lotta fra poveri, insomma. Una volta arrivati al campo, “la femme”, così la chiama Carmelina, la signora addetta all’accoglienza, li accompagnò ognuno nella sua baracca. Case di legno e di lamiera, le stesse adoperate per i campi di concentramento durante la guerra. In pratica si ritrovarono in un campo di concentramento. Case normali, quelle fatte con i mattoni, in Belgio non c’erano ancora per i minatori stranieri.

Fra i suoi ricordi, Carmelina lamenta le frequenti visite dietro la porta della baracca di ragazzi marocchini e turchi che la corteggiavano, operai della loro stessa miniera, ma senza famiglia. Aveva paura Carmelina, perché lei era bella e allora lo diceva alla Femme che aveva paura. Poi finalmente, i datori di lavoro gli diedero una casa di mattoni. Da quel momento in poi nella vita di Carmelina e di Torquato c’è un solo desiderio: tornare a casa. A Noha, dove l’accoglienza ha un solo calore, quello del nostro sole e della nostra aria mite.

Sembrava tutto calcolato, il 24 maggio di quest’anno, dopo poche settimane dal nostro incontro, Carmelina decide di non soffrire più e sicuramente torna dal suo Torquato a riprendere quell’altro viaggio che li renderà entrambi felici per sempre.

E’ stato un grande onore per me incontrarti e salutarti. Grazie Carmelina.

Antonio Martella, classe 1923.

Nasce a Monteroni il 2 marzo.

A Monteroni lavora insieme al padre in una cava di pietre di proprietà della famiglia. Ma si guadagna poco e come la maggior parte dei salentini si muove per cercare fortuna altrove. Anche lui, terminata la guerra, a poco più di vent’anni aderisce alla chiamata per le miniere del Belgio. Il primo libretto di lavoro lo ottiene a Chatelineau, un villaggio belga situato nella provincia dell'Hainaut. Lavora in miniera dal 17 luglio 1946 fino al 6 giugno 1950, allorquando si trasferisce a JUMET. Città del Belgio nella provincia del Hainaut, circondario di Charleroi. Forma, con altri centri, quasi un solo abitato con Charleroi, sita 5 km. più a sud in piena zona carbonifera, è un centro estrattivo, e possiede

varie industrie metallurgiche, soprattutto fabbriche di caldaie.

Antonio, dopo aver soddisfatto i 5 anni obbligatori di miniera può finalmente  lavorare in una fabbrica di bottiglie. È il 5 settembre del 1950. Da qui esce per l’ultima volta il

16 dicembre del 1955. Entra nella S.A. des charbonnages du Nord de Gilly. E’ una vecchia miniera e quindi pericolosa quanto quella di Marcinelle. Dopo l’incidente di Marcinelle, spaventati per l’accaduto, non riuscendo a vivere con quell’incubo terribile che incombeva su di loro, insieme alla moglie Brigida Bolognese di Noha, e la figlia Ada che era nata in Belgio nel loro primo anno di matrimonio, fanno finalmente ritorno a Noha.

Cesare Lisi, classe 1930,  vive  con  la sua famiglia nella vecchia casa paterna di via Benevento, angolo con vico Scotti.

Nel 1953 si sposa con Maria Concetta Bray di Neviano. Nel 1964, consigliato da alcuni suoi parenti che sono già in Belgio, nelle miniere di Corso, sempre dalle parti di Beringen, per guadagnare qualche soldo in più, anche Cesare parte per andare a fare il minatore e per stare insieme alla famiglia porta tutti con sé.

Ma sentono fortemente il distacco della terra natia, la casa è piccola e mancano i servizi necessari. Così decide di far tornare al paese la moglie e le due bambine. Si sacrifica restando solo in Belgio a lavorare nelle miniere. Il viaggio è lungo e costoso; quindi, torna a casa una volta l’anno a passare qualche giorno con la sua famigliola.

Anche Cesare, dopo qualche anno di sacrifici, riesce a comprare una casa più grande a Noha, la nuova casa ha tre camere ed un garage. Qui fa crescere tutta la sua famiglia che con il passare degli anni diventa numerosa. Cesare è una persona determinata, va avanti così fino al 1980, quando finalmente in pensione, ritorna a Noha definitivamente. Purtroppo, i sacrifici fatti durante tutta la vita incidono gravemente sulla sua salute. Muore fra le braccia del figlio Gianni a soli 53 anni di vita.

Per concludere possiamo dire che è vero che per la salvezza del Paese, nel 1945 a fine guerra, ci son voluti grandi uomini, ma chi ha realizzato i fatti invece, chi ci ha rimesso del suo, anche la vita, è stata la gente comune, e sono loro i veri grandi uomini.

Oggi noi dobbiamo molto a questi partigiani del lavoro che, pur avendolo fatto perché costretti dalla necessità, è anche vero che con il loro sacrificio si sono prestati al gioco di quel drammatico momento storico e hanno concesso all’Italia il tempo di consegnare ai posteri la Costituzione, quella carta gloriosa che è nostro dovere difendere a denti stretti, oggi più che mai, dalle malversazioni di politici senza scrupoli. Un motivo in più per continuare a difendere i nostri diritti, gli stessi per cui i nostri concittadini hanno sacrificato la loro giovinezza in un paese straniero, affrontando enormi sacrifici, a volte rischiando la vita, e altre rimettendocela. Per lasciare a noi una condizione sociale più dignitosa.

Ringrazio gli amici, figli dei protagonisti di questa importante storia, per avermi aiutato a ricordare:

Aldo e Manola, Gina, Salvatore, Luigina, Gianni e Vito.

Marcello D’Acquarica

 
Di Antonio Mellone (del 16/06/2024 @ 16:19:20, in NohaBlog, linkato 1163 volte)

Non ricordo più in che occasione, parafrasando il celebre motto arguto barese, abbia detto o scritto che se Parigi avesse le Casiceddhre sarebbe una piccola Noha. Poteva apparire come una delle mie proverbiali iperboli, invece m’accorgo di come (molto più di quanto non si pensi - satira caustica inclusa) io sia moderato nei termini.

Eh sì, a reggere le sorti dell’economia del mio paesello – oltre a recuperarne l’immagine messa a repentaglio da maldestri epigoni della politica locale, per fortuna definitivamente cancellati con un tratto di matita, anzi di penna blu e rossa - sono tuttora gli artigiani, i micro-commercianti e i piccoli esercenti, sicché accanto ai coiffeur e alle estetiste, al restaurant, al forno/boulangerie e alle patisserie, ai magazzini agricoli e al fioraio, alla pescheria gourmet e all’hôtel de luxe, al mulin (che stavolta non è rouge, e per fortuna nemmeno bianco) e alle gastronomie (si scrive uguale in francese), e a numerosi altri operatori che non posso qui elencare per questioni di spazio, ma prima o poi arriverà pure il loro turno, s’annovera finalmente anche l’atelier Euphoria (con l’h di Noha), una bella profumeria che non ha nulla da invidiare alle migliori boutique della Ville Lumière.

L’“euforica idea” venne un paio di lustri fa alla Jennifer Misciali, una giovane mamma acqua e sapone, grazia e sorriso naturali, scuola d’arte e di vita, e fu così lungimirante che la bottega che ne scaturì non solo si è irrobustita nel corso del suo decennio di attività festeggiato di recente ma, presentandosene l’occasione, ha anche raddoppiato o forse triplicato i suoi spazi traslocando dalla vecchia sede di via Aradeo 31 alla nuova di via Donatello 19, decisamente più ampia, confortevole, luminosa, dotata di camerini di prova, due grandi vetrine, e un comodo parcheggio.

 
Di Redazione (del 11/06/2024 @ 08:13:52, in NohaBlog, linkato 347 volte)
Liste Sezione 17  Sezione 18 Sezione 26 Sezione 28 Totali Lista %
PARTITO DEMOCRATICO 77 100 105 78 360 35,79
FRATELLI D'ITALIA 36 66 66 67 225 23,36
LEGA SALVINI PREMIER 48 32 51 34 165 16,40
MOVIMENTO 5 STELLE 36 25 20 24 105 10,44
FORZA ITALIA - NOI MODERATI - PPE 13 18 11 13 55 5,47
ALLEANZA VERDI E SINISTRA 5 10 8 8 31 3,08
PACE TERRA DIGNITA' 2 8 3 8 21 2,09
STATI UNITI D'EUROPA 3 2 8 3 16 1,59
AZIONE - SIAMO EUROPEI 1 5 1 3 10 0,99
PARTITO ANIMALISTA - ITALEXIT PER L'ITALIA 1 0 1 1 3 0,30
LIBERTA' 0 3 0 0 3 0,30
ALTERNATIVA POPOLARE 0 1 0 1 2 0,20
TOTALE VOTANTI SEZIONI 222 270 274 240 1006  

Risultati completi sul sito del Comune di Galatina

 
Di Antonio Mellone (del 02/06/2024 @ 17:13:03, in NohaBlog, linkato 924 volte)

Gli umarèll di Noha sono in agitazione. Per chi non conoscesse il significato di codesto neologismo molto diffuso in quel di Milano, diciamo che - come riportato dalla Treccani - il lemma sta in genere a indicare il pensionato che s’aggira presso i cantieri intento a controllarne i lavori in corso, elargire consigli non richiesti, e criticare lo stato dell’arte.

Insomma il povero umarèll de nohantri s’era illuso di poter svolgere il suo “mestiere” in santa pace al primo rapidissimo esame di un cartello in rame affisso con quattro centroni direttamente sul prospetto della torre del locale Big Ben: avviso attestante solennemente, in ordine sparso, messa in sicurezza, risanamento, ripristino e dunque ritorno all’antico splendore di struttura, facciata, cupola, sculture in petra aurea, campane e martelli, illuminazione, marchingegno, lancette e quadrante dell’orologio, serramenti, e infine sale e balconi posti al primo piano dell’ottocentesco monumento.

Pazienza se nel suddetto manifesto, come invece molto probabilmente indicato dalla legge, non v’è riportata alcuna indicazione dell’importo dei lavori (tanto si tratta di soldi della collettività, e chi se ne frega), ma per fortuna, per la prima volta nella storia degli appalti pubblici, troviamo l’indicazione di una loro durata a piacere, un arco temporale elastico, un decorso malleabile, senza una data d’inizio o una terminale: in sostanza un lasso temporale “flessibile e inclusivo” (tanto per essere alla moda anche dal punto di vista semantico): dico 150 giorni in tutto, che, volendo, potremmo pure conteggiare a salti. Tanto l’orologio della torre è fermo, figurarsi il calendario e l’elettroencefalogramma di pollowers in estasi e di certa “stampa” quotidiana (un tempo senza virgolette e con la vocazione del cane da guardia).

 

Intanto l’umarèll di turno, gironzolando con le mani dietro alla schiena nella pubblica agorà come manco il sovrintendente alle belle arti, all’inizio credeva di aver trovato finalmente un po’ di pane per la sua dentiera, se non altro per sbarcare l’incipiente stagione primavera-estate, anzi tutto il lunario; invece, spaesato nel suo stesso paese, ha dovuto constatare sconsolato che sopra, sotto, dietro e intorno alla grande impalcatura presa a noleggio dalla ditta Giorgio Manco (quel Manco sarà forse voce del verbo?), per interi giorni, settimane e ormai anche mesi non s’è vista anima viva, e dunque non riusciva a comprendere come esattamente tutti quegli impegni potessero essere assolti nel breve volgere del promesso pentamestre.

È che gli umarèll di queste contrade sono anacronistici, antidiluviani proprio, non hanno ancora capito che quello non è assolutamente un cantiere fantasma, ma il frutto della più moderna tecnologia. Infatti oggi abbiamo intelligenza artificiale e algoritmi a gogò in grado di fare miracoli, onde gli ingegneri lavorano in Dad, gli operai sono tutti in smart working con martello e scalpello virtuali, il kit delle altre attrezzature è solo on-line (in pratica kit è mort), certe operazioni delicate si realizzano in telechirurgia, i pagamenti avvengono tramite l’home-banking, quando non direttamente in cripto-valute, ergo lo stato avanzamento dell’opera si compirà con la sola forza del pensiero, e questo a prescindere dagli assessori ai lavori pubici che, mutatis mutandis, pare si cambino appunto come le mutande.

Ma tranquilli tutti quanti, umarell e resto del mondo: il virgineo sindaco - quello dei superlativi assoluti [nei suoi discorsi non trovi aggettivi di grado positivo, ma soltanto epiteti con desinenza in –issimo, ndr.]), maestro di slogan galvanizzanti folle fiduciose e plaudenti, non vede l’ora di tagliare il nastro inaugurale della restaurazione, pardon del restauro, con tanto di fascia tricolore a tracolla; e questo avverrà quando meno ve lo aspettate e alla faccia vostra, quattro oppositori disobbedienti, dubbiosi, critici, e pure un tantino beffardi che non siete altro.

Non solo. Reduce dal recente successo registrato con la performance sul puteale della Trozza (gridolini di piacere dei supposters nel vederlo colà spaparanzato in tutto il suo splendore), con un salto da fare invidia a Spiderman s’inerpicherà fin sulla cima del vecchio campanile civico nohano, dimostrando a tutti, vivaddio, quanto egli sia aitante, atletico, pronto a scalare vette fisiche e metafisiche mai immaginate prima d’ora lungo tutto l’orbe terracqueo.

Non per nulla qui abbiamo campioni assoluti di alpinismo. Sugli specchi.

Antonio Mellone

 
Di Antonio Mellone (del 19/05/2024 @ 15:57:07, in NohaBlog, linkato 456 volte)

Non ricordo più chi m’avesse segnalato quanto la poltrona di Sindaco del comune di Galatina fosse scomoda. Ma nella mia ingenuità avevo inteso il concetto in senso più letterario che letterale, insomma un’iperbole per indicare le difficoltà nell’amministrare la cosa pubblica.

Come al solito mi sbagliavo di grosso: governare la città è evidentemente un gioco da ragazzi (pare sia sufficiente una certa dimestichezza con la chiacchiera altrimenti detta marketing); però è assolutamente vero che il sedile di palazzo Orsini è talmente poco o punto confortevole, anzi molesto proprio, che al confronto il letto di Procuste sarebbe un divano della Chateux d’Ax.

Dunque il nostro city manager nelle vesti di primo cittadino non s’è mica esibito nel salto con giravolta per assidersi sul puteale della Trozza di Noha come un bullo qualsiasi senza alcun motivo, né per fare lo splendido nei confronti delle gggiovani generazioni, e nemmeno per arruffianarsi gli insegnanti colà convenuti nel meritorio tour “Conosco il mio paese” organizzato dalle scuole cittadine e dall’associazione Furia Nohana, bensì per far ritrovare un poco di raggettu alle così tanto bistrattate terga sindacali, realizzando così su due piedi, anzi su due chiappe, la transizione archeologica: vale a dire la promozione sul campo di uno dei nostri monumenti più significativi allo status di chaise longue.

Inutilmente la brava alunna incaricata di far da Cicerone agli astanti provava a spiegare a tutti - poveretto assiso in trono incluso - la particolarità di quel bene culturale, e quanto quell’improvvisata poltrona municipale, al di là dei miraggi contingenti, non potesse essere assimilata a una panchina dei giardini pubblici, e men che meno retrocessa a semplice ghiera di un qualsiasi pozzo in pietra leccese, ma fosse invece un simbolo, un segno, un pezzo di storia patria, un emblema dell’identità locale: e non sono affatto importanti pregio, rarità o originalità di questo o quel reperto per decretarne tutela e rispetto, quanto la memoria collettiva, e soprattutto la relazione spirituale e culturale che lo lega alla vita del paese.

 
Di Marcello D'Acquarica (del 15/05/2024 @ 17:06:34, in NohaBlog, linkato 456 volte)

Il 23 aprile scorso, presso Levera a Noha, si è svolto il convegno riguardante la richiesta di messa in sicurezza delle Vore di Noha.

Come da programma, il confronto sullo stato di salute delle nostre “Danaidi”, tre delle cinquanta mitologiche portatrici di acqua, fuggite dall’Egitto e narrate da Eschilo, un poeta greco del 450 a.C., ha messo in evidenza la gravità della situazione.

In presenza dell’Assessore Carmine Perrone e del dr. Oronzo De Simone, funzionario di Arpa Puglia, ciò che ha detto il dr. Giovanni De Filippis (Presidente regionale della Società italiana di Sanità e Digitale) in merito alla nostra Vora di Costantinopoli, pesa come un macigno: “…quella vora è una bomba ecologica, bisogna bonificarla subito. Il percolato che rilascia negli anni è come un distillato che prolunga l’inquinamento della falda”.

In quanto a responsabilità, è seguita la raccomandazione del rappresentante di Arpa nei confronti del nostro Assessore, a eseguire con urgenza la bonifica, semplicemente avviando un progetto di riqualificazione con fondi delle Regione Puglia. Noi volontari delle associazioni, insieme agli speleologi, abbiamo provato a rimuovere i rifiuti accatastati in quegli anfratti da decenni, ma per quei materiali pressati e pesanti sono necessari bracci meccanici di potenti escavatori. Il dubbio maggiore però è sapere cosa è stato tombato in quella vora e la sua pericolosità per la salute.

Abbiamo chiesto più volte all'Amministrazione Comunale di voler programmare la bonifica di quella voragine, ma finora nulla, se non la solita compassionevole promessa di interessamento (come se il problema fosse di un’associazione o di un comitato).

Amministrazioni che vanno e Amministrazioni vengono, ma la vora è sempre ricolma di rifiuti. Se la bellezza a cui mirano gli amministratori è lo scenario che vediamo in superficie, fra cementificazione selvaggia e tagli indiscriminati di alberi, il tutto contro natura, immaginarsi quanto possano interessare le matrici che non si vedono: sottosuolo e acqua di falda.

Per non parlare poi dell'aria.

 

Canto notturno di un pastore ...

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