\\ Home Page : Storico : Fetta di Mellone (inverti l'ordine)

Il primo settembre del 1920, otto pionieri fondatori - cui si aggiunsero immediatamente i primi trenta soci ordinari - diedero i natali al Circolo Cittadino di Noha. Dopo aver approvato lo statuto all’unanimità, ne inaugurarono la sede in due ampi locali con volta a botte al piano terra del “fortissimo Castello di Noha, posto in forte loco”. Tutti si strinsero le destre e bevvero un bicchiere di vino locale alla salute del novello sodalizio, ripetendo nei loro prosit la frase attribuita a Giulio Cesare dal suo biografo Svetonio: “Alea iacta est” (il dato è stato lanciato): questo motto, insieme allo stemma civico delle tre torri, e ad altre immagini allegoriche, fu effigiato in un bel quadro da Michele D’Acquarica (1886 – 1971), che da quel dì ha campeggiato solenne nella diciamo aula magna dell’associazione, oltre che sul suo vessillo. 

Fu denominato Juventus, questo cenacolo, vale a dire la Gioventù, senza alcun riferimento né alla squadra di calcio (la quale, benché fondata nel 1897, era allora sconosciuta perfino agli Agnelli), né alla prosopopea fascista (ché i suoi apologeti, più o meno consapevoli, sembrano più numerosi oggi di quelli di cent’anni fa): ma sin da subito fu da tutti conosciuto come il Circolo. Quando si dice l’antonomasia. 

 

Mica crederete che Harrods si trovi solo a Londra. Sì, va bene, non avrà i suoi 146 ascensori, gli 8 piani (di cui due interrati), e le famose 300 linee telefoniche, ma anche a Noha abbiamo un “grande magazzino” come il londinese, e di lusso pure: stiamo parlando del bazar (non saprei come meglio definirlo) di Claudio e Daniela, compagni di lavoro e di vita.

Rispetto a quello della capitale del Regno Unito che apre alle 10, il negozio nohano invece è operativo sin dalle 8 del mattino e da un pezzo; per il resto riceve più o meno le stesse 12.000 chiamate al giorno, e gli slogan sono sostanzialmente identici: “Dallo spillo all’elefante” o “Omnia omnibus ubique” (trad.: everything for everybody everywhere), quelli di Harrods; “Cerca & Dumanda” (vale a dire: seek and ask, o meglio: seek and find), quello degli empori di Noha York.

 
Di Redazione (del 13/08/2020 @ 13:26:26, in Fetta di Mellone, linkato 978 volte)

Con gli argomenti che mulinano nella mia testa potrei scrivere una fetta di Mellone al giorno. Ma c’è un ma: sono (sarei) in ferie. Dunque ho poco tempo a disposizione. Sta di fatto che, accavallandosi or ora tre temi che mi stanno pascalianamente a cuore, provo a concentrarli tutti in questa quinta Fetta una e trina.

1) Festival Organistico del Salento. Gli organi si danno delle arie.

Ci sono tanti modi per distruggere gli organi a canne. Uno è quello di incendiarli. Ne abbiamo avuto degli esempi fino all’altro ieri, con ecpirosi sviluppatesi non più tardi dello scorso mese di luglio a Favara, in Sicilia, e poi in Francia, nella cattedrale di Nantes. Gli altri metodi sono ancora più semplici. Tipo lasciarli marcire, riempire di polvere, zittirli. Per buona sorte nostra e dei nostri organi vitali abbiamo in loco dei leoni da  tastiera (nell’altro senso però), testardi e resistenti, i quali, anno dopo anno, e siamo al sesto nonostante tutto, hanno dato vita al Festival Organistico del Salento. Il quale anche nel corso di questo 2020, da agosto a ottobre, leggiadro e armonioso, insufflerà un bel po’ d’aria nei polmoni (cioè i mantici) degli strumenti a canne di mezza provincia, facendoli continuare a respirare. Tranquilli, nelle chiese dei concerti d’organo salentini non c’è mai stata la calca (alla “l” si può tranquillamente sostituire la “c”) della “Beach & Bitch Movida”, onde il distanziamento sociale, ma viepiù culturale, è assicurato. Come si evince dal cartellone, la maggior parte dei colpi sono sparati a Salve - ma, come diceva quello, il sito val bene una messa. Gli irriducibili organisti sono coordinati dal maestro Francesco Scarcella, direttore artistico della rassegna. Chiedo venia agli altri professori del Festival se non li cito uno per uno: non vorrei che, ecco, strumentalizzando la cosa, mi mettessero delle note sui registri. Anzi sì.

 

Non sarà la più bella del mondo, ma ogni volta che ci metton mano fanno di tutto per deturparla oltremodo. Mi riferisco alla nostra Costituzione, oggetto di morbose attenzioni da parte dei nipoti costituenti (ché i padri li hanno fatti seppellire da un pezzo).  

Chiamano dunque riforme quelle cose quasi sempre pensate per deformare un sistema (sanitario, lavorativo, fiscale, scolastico…) a vantaggio dei gerarchi e a detrimento della massa che però li idolatra.      

L’ultima volta che si tentò, per fortuna invano, di sconvolgere la Costituzione formale (quella sostanziale è un altro paio di maniche) fu non più tardi del 2016. Dovetti sacrificare non so più quante fette di Mellone – e quindi tempo allo studio - per provare a fare un liscio e busso a chi inneggiava a quell’accozzaglia di norme scritte con l’unghia incarnita dei piedi. Non che un mio articolo sposti di un solo voto il suffragio universale, ma, come già detto, scrivo per riuscire a farmi la barba la mattina senza sentirmi in dovere di dirigere la lametta verso la  giugulare.

Questa volta – con la solita storia che le dimensioni non contano -  quasi tutti i partiti hanno votato in parlamento l’auto-evirazione (parliamo del taglio dei suoi membri, no?): ne avremo il 36,5% in meno, dunque uno sconto di 230 deputati (da 630 a 400) e 115 senatori (da 315 a 200).

Tutto bene? Oddio, se diamo retta alle chiacchiere del bar dello sport, sì: tipo che così si ridurranno “i costi della politica”, e si darebbe una sforbiciata a questa benedetta casta - per la gioia del volgo in visibilio e sempre plaudente, convinto che il valore di una legge si possa misurare con l’applausometro.

 
Di Antonio Mellone (del 25/07/2020 @ 18:31:53, in Fetta di Mellone, linkato 1105 volte)

Spesso son così titubante che al confronto il principe Amleto era un decisionista. Questa volta, scatola cranica in mano (in mancanza sopperisce il frutto di stagione delle cucurbitacee), the question is: votare o vomitare.

Ebbene, nel prossimo mese di settembre anche la Puglia “rinnoverà” il suo consiglio d’amministrazione. A dirla tutta nel fritto misto hanno stemperato anche il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Ma di quest’ultimo tentativo di evirazione democratica, e del doveroso NO all’ennesima presa per i fondelli, parlerò in altra sede.

Ora soffermiamoci sulla campagna elettorale diciamo politica, la quale, a meno delle fiumane di terroni in visibilio per il leghista, di fatto non si tiene nelle pubbliche piazze (la pandemia è un ottimo alibi), men che meno nelle sezioni dei partiti (divenute ormai, forse per vocazione, case chiuse), ma come al solito sottobanco, con accordi trasversali, tramite contatti con i cosiddetti grandi elettori, a cena dal notabile locale, telefonando al grosso imprenditore che sa come far “decidere” i propri collaboratori, bussando coi piedi alla porta delle associazioni di categoria (quelle con il prefisso Conf), o alla redazione del solito giornale pronto a dare dritte e storte ai suoi superstiti lettori, e infine ma non ultimo ai conciliaboli fra clan. Poi uno si chiede come mai il pensiero dominante finisca con il coincidere quasi sempre con il pensiero della classe dominante: e dunque gli oppressi simpatizzino per gli oppressori, gli assediati per gli assedianti, il gregge per il lupo.

Sta di fatto che il fil rouge, o meglio rosè, che lega destra e centro-destra (ché la sinistra pare scomparsa dalla circolazione), sembra fatto da investimenti per lo sviluppo (il solito volàno per), aiuti all’agricoltura (per trasformarla da settore primario in secondario), un mega programma di sostenibilità ambientale (onde la nostra regione sarà una novella Arcadia cantata dal Metastasio: la famosa Puglia metastatica), e quindi infrastrutture a gogo (ma tutte rigorosamente eco, bio, green, nature), tanta semplificazione (ma sì, via la soprintendenza, via il principio di precauzione, via ogni tutela del lavoro, via le regole, e via quella rompiscatole della Via, cioè la valutazione di impatto ambientale), turismo tutto l’anno of course (e ci mancherebbe pure che smettessimo di battere marciapiedi e centri storici con quel che rendono), valorizzazione della sanità (qualunque cosa voglia dire), e cultura, signora mia, che non ti dico. Cogliere le differenze tra i programmi chiamiamoli alternativi sarà come vedere il coronavirus a occhio nudo.       

Ebbene, oltre alla corona dei sei viceré candidati aspettiamoci anche un ben nutrito sottobosco di caporali e riempilista, composto molto spesso da personaggi sinceri quanto la loro dichiarazione dei redditi, rivoltatori di frittate, tromboni e già trombati, asintomatici in fatto di grammatica, Cetti e Cette Laqualunque, fotografi di caricature definite selfie, urlatori di anacoluti, promotori dell’ennesima legge di Murphy, dispensatori di olio extravergine di ricino spacciato per amuchina, populisti che danno del populista agli altri, moVimentisti a 5 mandati, e, the last and the least, forza-italioti redivivi.

E il bello è - tanto per sgombrare il campo dai dubbi amletici - che i socialisti (Eia! Eia! Alalà!) sostengono il candidato destronzo; i fascisti il sinistrato (chissà se PD saranno l’iniziale e la finale di Pound, nel senso di Casa); il candidato renzizzato di ‘Italia chi t’ha Viva’ lavora per il trionfo dell’enfant prodige, già governatore di questa, sicuramente anche per questo, martoriata Puglia; la candidata a cinque stampelle ha coniato un nuovo slogan per vincere facile: Onestap, Onestap. Si blatera circa l’esistenza di altri tre concorrenti al massimo scranno regionale: uno addirittura del MSI, Fiamma Tricolore (per la gioia della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione: candidatura comunque pletorica vista la pasta degli altri), un altro che vorrebbe inverare sulla sua pelle il principio “uno vale effettivamente uno”, e un terzo che francamente sfugge al radar della mia postazione di osservatore nohano.

Il responso all’indecisione di partenza è epigrafico: assunzione di un antiemetico e poi voto rigorosamente utile. Occhio che il mio concetto di utilità in fatto di voto è affatto diverso da quello che la classe dominante vorrebbe in qualche modo, ehm, inculcarvi.

Antonio Mellone

 
Di Antonio Mellone (del 08/07/2020 @ 21:38:26, in Fetta di Mellone, linkato 999 volte)

Ma cosa cavolo avranno mai combinato le Mamme No-Tap per essere state rinviate a giudizio in un maxiprocesso da celebrarsi magari in un’aula bunker? Vuoi vedere che tomo tomo cacchio cacchio saranno loro la cagione della devastazione del patrimonio naturale, culturale ed economico del Salento? Non mi dire che avranno espiantato ulivi senza il permesso, abbattuto muretti a secco, eluso normative, e pure perforato, penetrato, cementificato, inquinato acque, disatteso prescrizioni, utilizzato la forza pubblica per interessi privati, e già che c’erano pure corrotto.

Di più? E quale altro reato potrebbero di grazia aver commesso ‘ste benedette donne? Oltraggio a pubblico manicomiale, dite? Tipo testate ai manganelli, labbra tirate sui pugni (che fanno così male alle nocche), addomi scagliati contro le ginocchiate, volti supplicanti lo schiaffo del soldato (o del poliziotto), addirittura spaccio di fumo (nel senso di lacrimogeni) negli occhi? E che hanno scambiato un cantiere per la Diaz?   

Manco questo. Caspita, allora vuoi vedere che qui c’è da scomodare il codice Rocco laddove si parla addirittura di lesa maestà, di insurrezione, di sputtanamento del re che era meglio si mettesse qualcosa addosso e, dio non voglia, di critica, satira e perfino istigazione a distinguere? Ma se è così la cosa è grave assai. Da Corte d’assise proprio.

Signora mia, dovresti sapere che in una società resiliente e assertiva come la nostra - con tanto di sensi di colpa pungolati con metodo, e cloroformio servito all’happy hour - la disobbedienza civile si sopprime sul nascere, i ribelli si emarginano, gli oppositori si ostracizzano. Suvvia, parlar male di Tap (e degli altri compagni di merende altrimenti detti “volani per lo sviluppo”) non è mica politically correct: è iconoclastia applicata, blasfemia da anatema pontificio, eresia da rogo.

Qui il catechismo ideologico è tale che se pretendi una V.I.A. rigorosa ti arriva immediatamente un Foglio di Via (quando non una novella SS. 275 a quattro corsie); sono ammesse soltanto le manifestazioni osannate dai “giornali” e dai loro mandanti; il critico può fare il critico purché non parli mai male di nessuno; la battuta vien tollerata soltanto se anestetica, da Bagaglino, mai pungente o dissacrante - ché qui ogni arguzia dev’essere sottoposta a primo e secondo tampone.

 

Cari concittadini, inauguro il decennale della mia rubrica Fette di Mellone con questa ennesima lettera aperta, ben sapendo, dalle precedenti, quanto le sue parole siano scritte sul bagnasciuga.

Non so se sapete che mentre voi altri eravate tappati in casa per via del virus,  - e per ammazzare il tempo qualcuno scriveva “Ce la faremo” (con la variante poetica “C’è la faremo”), o imbrattava lenzuola con l’arcobaleno “Andrà tutto bene”, quando non si metteva a cantare l’Inno balconato -, ecco proprio in quel periodo là c’è chi ce l’ha fatta davvero (sotto il naso), gli è andato tutto bene veramente, e oggi può zufolare l’Inno nazionale alla faccia nostra.

Mi riferisco a una bella società milanese nuova di zecca, tale Byopro Dev 2 srl (che evoca tanto il Bio, peccato per quella y), costituta ad aprile 2019 e pronta a impiantare a nord di Galatina, a un fischio da Collemeto, un altro bel porco (ché “parco” nella lingua mia ha un’altra accezione) di 22 ettari di pannelli fotovoltaici su di un terreno che per la verità sarebbe per costituzione destinato all’agricoltura. No, tranquilli, non è in contrada Cascioni, è un po’ più in là, zona Masseria del Duca: e chi ve la tocca la Pantacomica del centro commerciale su altri 26 ettari di campagna, visto che la pietra tombale su quel diciamo progetto tarda ad arrivare, atteso che a Galatina e dintorni su certi argomenti il concetto di decadenza dei termini si misura con l’elastico.

 
Di Antonio Mellone (del 13/10/2019 @ 17:13:05, in Fetta di Mellone, linkato 1489 volte)

Incredibile quanto i libri si parlino tra loro. Lo diceva perfino Umberto Eco.

Quest’estate oltre a tagliare copiose fette di Mellone, ho impilato una serie libri per salirci sopra. La lettura ti permette infatti di montare sulla pila dei libri che leggi, e dunque di riuscire a guardare un po’ più in là che dalla solita altezza marciapiede.

Stavolta ho per le mani due volumi: il primo, “Palermo Connection” di Petra Reski (Fazi Editore, Roma, 2018), letto a giugno scorso in concomitanza della prima fetta di Mellone, proprio quando (combinazione?) mi recavo a Palermo per diletto; il secondo è “Pizzica Amara” di Gabriella Genisi (Rizzoli, Milano, 2019), terminato qualche giorno fa in occasione di quest’ultima fetta 2019. In mezzo, come dicevo, molti altri volumi (ma sempre troppo pochi, eh) sicuramente legati in qualche modo da un fil rigorosamente rouge.

Ebbene, questi due libri sembrano in rapporto tra loro come lo sarebbero in matematica le funzioni iniettive, se non proprio biettive. E già con questo mi sono giocato un bel po’ “mi piace”, ma non tanto per il riferimento alla proprietà delle f(x), quanto per il fatto che sto discettando di libri. Vero è che d’altro canto il vero piacere (like) non è mai un fenomeno di massa.

 
Di Antonio Mellone (del 03/10/2019 @ 21:51:53, in Fetta di Mellone, linkato 1574 volte)

Sapete cosa sono gli Open Days, promossi da questa o quell’azienda e strombazzati ai quattro venti da giornali, teleorba, siti internet, profili fb e altri house organ?

Si tratta di una specie di incontro fabbrica-famiglia (sulla falsariga dell’incontro scuola-famiglia) nel corso del quale alcune aziende - fossero queste perfino l’Ilva di Taranto, la centrale di Cerano o, dico a caso, la Colacem di Galatina - si tirano a lucido per far vedere a tutti quanto siano belle, pulite, ecosostenibili, ecocompatibili, ecologiche, e giacché pure economiche. Lo fanno per uno slancio di empatia, ma soprattutto per amore di verità, mica sono cose studiate a tavolino negli uffici marketing della ditta o nelle famose società di consulenza; nossignore: è tutto spontaneità, altruismo, fi-lan-tro-pi-a signora mia, e non, come dicono i soliti iconoclasti, strategia di greenwashing.  

 

Ora. Per non saper leggere e soprattutto scrivere, suppongo (e le mie supposte raramente sbagliano il bersaglio) che i maggiordomi aziendali, conducendovi in giro per la veneranda fabbrica con un bell’elmetto giallo da cantiere che fa tanto sicurezza, vi diranno che le loro non sono ciminiere, ma guglie, torri, obelischi artistici così alti e raffinati che al confronto il campanile di Giotto è un pugno nell’occhio allo skyline di Firenze; che da quello stabilimento fuoriesce tutto arrosto e niente fumo; che dai loro camini - quando non Chanel n° 5 - viene nebulizzato vapore acqueo alla menta piperita tanto raccomandato dagli otorinolaringoiatri; che addirittura, a seconda del vento che tira, ne risultano vaporizzati nell’aere circostante broncodilatatori, mucolitici ed espettoranti ad ampio respiro e senza l’onere del ticket sanitario; che il carbonile ammassato tutto intorno è quasi quasi più commestibile che combustibile; che non è giusto parlare di polveri sottili, ma di Borotalco Roberts gratis per l’igiene personale di donne e bambini; che i loro prati inglesi sono più verdi di quello del vicino e questo la dice lunga sulla vocazione green della società; che il cemento prodotto a km 0 è così Bio che potrebbe essere spolverizzato sulle orecchiette come i salutisti fanno con la curcuma; che se qualche ponte in cemento armato cade dopo meno di cinquant’anni dalla sua inaugurazione (mentre, per dire, gli antichi ponti romani, o il Colosseo stesso, sopravvivono dopo millenni) non è perché il prodotto sia il peggior materiale mai utilizzato nella storia dell’edilizia, ma perché sbagliano i muratori a non leggere le modalità d’uso riportate sui sacchetti di carta (rigorosamente riciclabile); che le cave (le tajate) estese per ettari di campagna ex-agricola e profonde decine di metri sono di fatto vere e proprie oasi naturali del WWF (soprattutto per i tordi); e che, infine, l’azienda adora Greta Thumberg, essendo da sempre contro il global warning o come cavolo si chiama.

 

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