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Di Michele Stursi (del 29/07/2012 @ 23:42:01, in Letture estive, linkato 3433 volte)

Oggi posso affermare che è quasi matematico: tra le pagine di un premio Nobel c’è sempre il rischio di perdere o di trovare qualcosa, di essere inseguiti oppure di inseguire, di illudersi e alla fine realizzare. Qualcosa insomma deve pur accadere, deve mettersi in moto un ingranaggio dentro o fuori di noi per poter affermare che ciò che stiamo leggendo è opera di un Nobel per la letteratura. Prima o poi nella vita arriva per tutti, lo si voglia o meno, il momento in cui si sfila dalla pila dei libri da leggere, il più delle volte da quella delle letture casuali, il romanzo, il saggio o la raccolta di poesie del nostro Nobel. Ed ecco che finalmente anche noi siamo in grado di rispondere senza riflettere più di tanto alla fantomatica e bastarda domanda “qual è il tuo libro preferito?”. “La zia Julia e lo scribacchino”, risponderò allora io immediatamente, senza dar l’impressione di non leggere un libro da decenni. E continuerò così sino a quando non mi capiterà tra le mani un altro Nobel o mancato-Nobel e allora sarò costretto a mettere Llosa nel cassetto degli autori preferiti e ad ostentare in processione lo stendardo dell’ultimo arrivato.

Per ora posso godere, ancora per un po’, dello strano retrogusto che solo una scrittura fuori dagli standard e da ogni usuale schema letterario è in grado di regalarti. “La zia Julia e lo scribacchino” non è da classifica dei “libri più venduti”, né un romanzo da leggere per passare qualche ora in compagnia: non è niente che non abbia a che fare con il semplice piacere della lettura, denudata per carità da accessori e addobbi che il marketing partorisce per far cassa. Qui il vil denaro va messo da parte, dimenticato se possibile: è questo il caso in cui si dovrebbe leggere per vivere.

Il libro non si presta quindi ad essere recensito dal sottoscritto, in quanto la mia sbilenca penna non ha la forza e tanto più la capacità di comunicare la straordinaria unicità di quest’opera. Vi basti sapere a riguardo, al di là del calibro della scrittura (da Nobel, appunto), che tra le pagine di questo libro Llosa intreccia con la maestria di un burattinaio due vite: quella di Mario e quella di Pedro Camacho.

Il primo, Mario, è un aspirante scrittore che tra una lezione e l’altra all’università si guadagna da vivere scrivendo bollettini per il servizio d’informazione di Radio Panamericana, disperatamente innamorato della zia Julia, sorella trentaduenne della zia dello stesso Mario, in cerca di marito dopo il fallimento del primo matrimonio; il secondo, Pedro Camacho, detto il Balzac creolo, lavora nella stessa radio di Mario ed è invece un popolare autore di romanzi radiofonici, un personaggio che cerca di soffocare nella sua sfrenata fantasia e nella popolarità di cui gode una vita fatta di stenti. Le due storie vengono raccontate in contemporanea, capitolo pari dopo capitolo pari: si intrecciano e si fondono in alcuni punti, si allontanano apparentemente nei capitoli dispari in cui vengono riportati gli incipit dei romanzi di Camacho (e qui il rimando è immediato a Se una notte di inverno un viaggiatore di Italo Calvino).

Potrei stare qui a parlarvi, pagine su pagine, delle mie impressioni su questo romanzo, oppure potrei commentare alcuni passi memorabili, o ancora riflettere insieme a voi sulla pazzia di Camacho o sull’influenza che l’età può avere sull’amore. Ma non farò niente di tutto ciò, mi limiterò giusto ad augurarvi un’altrettanto memorabile esperienza di lettura!

Michele Stursi
 
Di Albino Campa (del 10/07/2011 @ 23:35:27, in Letture estive, linkato 3619 volte)

Bianca come il latte, rossa come il sangueBianca come il latte, rossa come il sangue, Alessandro D’Avenia, Mondadori, 2010, pp. 254, € 19,00

Tempo di lettura: 1 giorno, 3 sono troppi

Lettura consigliata. Ma non aspettatevi nulla di eccezionale.

Le pagine scorrono veloci sotto gli occhi; i capitoli si rincorrono freneticamente e senza affannarsi troppo si riesce ad arrivare sino alla fine del romanzo. Peccato che, una volta chiuso e riposto nello scaffale, di lui rimanga solo il ricordo del fastidioso struscio della carta contro le dita, monotono sottofondo di questa rapida prima lettura estiva. Poca musica quindi, solo un leggero brusio interrotto a tratti da timidi singhiozzi di letteratura. Un disco rigato, purtroppo.

Tuttavia ve ne consiglio la lettura, soprattutto se avete letto e amato “La solitudine dei numeri primi”. Di sicuro la storia di Leo, il solito giovane adolescente in crisi, farà di nuovo breccia nel cuore dei “matematici solitari”, e infastidirà non poco i cercatori di novità letterarie, che ahimè, ignari del fatto che il giovane prof. D’Avenia sia stato osannato come il nuovo Paolo Giordano, ne hanno intrapreso la lettura.

La ricerca linguistica è nulla: frasi brevi, sintatticamente banali, interrotte da una poesia scontata. “Ogni cosa è un colore. Ogni emozione è un colore. Il silenzio è bianco. Il bianco infatti è un colore che non sopporto: non ha confini”. (pag. 9) Poi si scopre che per fortuna stiamo leggendo i pensieri del giovane adolescente protagonista della storia e non quelli del professore D’Avenia. Attenzione però a non cadere nell’errore di ridurre un ricercato lavoro d’interpretazione del mondo adolescenziale, quale vorrebbe essere quello del D’Avenia, alla solita sceneggiatura targata “Moccia”, fatta unicamente di slang, degli irrinunciabili Google, i-Pode, T9, del classico rifiuto delle regole, dell’ostinata ricerca dell’ignoranza, di banali frasi d’amore, dell’immancabile odio verso adulti, scuola e il mondo tutto, e nient’altro.

Da educatore e quindi profondo conoscitore del mondo adolescenziale, il professore (che si intrufola nel romanzo sotto le sembianze del Sognatore, un supplente di storia e filosofia con un’innata passione per l’insegnamento),  ha il buon senso di aggiungere al mondo “mocciano”, o “giordano” che si voglia, quel tocco di intelligenza ai personaggi, quella spensierata meraviglia che permette di interrogarsi sulle cose del mondo, sul dolore o sul significato della conoscenza (due aspetti chiave del romanzo).

Elementi questi, che conferiscono alla storia quel pizzico di originalità che mi permette di consigliarvene la lettura. Nonostante tutto.

Michele Stursi
 
Di Albino Campa (del 20/07/2011 @ 23:20:07, in Letture estive, linkato 3128 volte)
La straordinaria sorpresa di questo breve romanzo di Conrad è l’universalità del linguaggio. L’autore racconta una vicenda prettamente autobiografica, ma è inevitabile poi per il lettore portarsi con la mente al momento in cui anche lui, come il giovane protagonista della storia, guardando indietro nella vita si è reso conto di aver oltrepassato non senza difficoltà “la linea d’ombra”, lasciandosi per sempre alle spalle la “spensierata e fervente giovinezza”. La continua ricerca introspettiva dell’autore mette a nudo pensieri e passioni che accompagnano il passaggio attraverso un “giardino incantato” in cui tutto ha un suo fascino, tutto è ancora da scoprire, inventare, creare, nonostante la consapevolezza di un passaggio obbligatorio per tutta l’umanità. Dirà Conrad nel suo romanzo: “è la seduzione dell’esperienza universale, da cui ci si attende una sensazione singolare e personale: un po’ di se stessi”. Ed ecco quindi che, ormai adulto, Conrad tenta di ridestare i ricordi e consegnare in questo modo uno scritto che possa servire da monito alle future generazioni. “L’effetto che ha la prospettiva sulla memoria è di ingigantire le cose, perché ciò che è essenziale emerge isolato da una congerie di insignificanti fatti quotidiani di contorno, che naturalmente sono svaniti dalla mente”, scriverà infatti lo stesso autore nella prefazione all’opera. A questo punto viene da chiedersi: qual è l’”essenziale” che emerge dalla lettura di queste memorie? La risposta è tra le righe. Immaginate di essere un giovane marinaio, insoddisfatto e deluso dalla vita, e di decidere un bel giorno di abbandonare la nave sulla quale prestate servizio ormai da qualche anno per ritornarvene a testa bassa a casa; poi una volta a terra vi ritrovate per caso ad accettare il comando di una piccola nave, che a voi giustamente sembra un destriero, e una volta a bordo dovete scontravi con un primo ufficiale che non vi reputa all’altezza dell’incarico, perché troppo giovane e senza esperienza. Non finisce qui: finalmente siete in mare aperto, su una nave tutta vostra e alla guida di un grappolo di uomini, ma qualcosa non va per il verso giusto, e vi ritrovate con la maggior parte dei marinari febbricitanti, e quindi privi di forze, e la nave intrappolata nella bonaccia non si smuove di un metro. Non dimenticate che questo è il vostro primo incarico! Qual è quindi il messaggio che Conrad vuole trasmetterci rivivendo e facendoci vivere la sua personale esperienza? I messaggi sono tanti, alcuni dei quali: non mollare la presa sulla vita; inseguire o farsi inseguire dai propri sogni, magari credendoci un po’ di più; non disperare mai e non buttarsi mai giù, ma rimboccarsi le maniche e insieme ai “piccoli uomini febbricitanti e risoluti” che sembrano condire la nostra gioventù portarsi oltre quell’inevitabile linea d’ombra, nel “periodo più consapevole e mordace della maturità”.
Michele Stursi

La linea d’ombra, Joseph Conrad, Garzanti Libri, pp. 126, € 7,50

Tempo di lettura: 2-3 giorni

 
Di Antonio Mellone (del 27/05/2013 @ 23:10:45, in NohaBlog, linkato 5395 volte)

Due seminaristi di Noha al servizio di papa Francesco Due seminaristi di Noha al servizio di papa Francesco

Il mio pallino è da sempre quello di rintracciare personaggi, accadimenti ed altre cose belle di Noha cercando di sfregarle sulla carta perché rimangano fisse, scripta manent, e non se ne volino, verba volant, al primo alito di vento, o al primo cinguettio o tweet (come con inflazionato inglesismo s’usa dire di una frase di massimo 140 caratteri lanciata nell’arcinoto social-network).  

Stavolta ho il piacere di parlare di un evento storico molto importante per la chiesa del Salento (e del mondo intero) come quello del 12 maggio scorso, allorché papa Francesco, in una piazza San Pietro gremita fino all’inverosimile (c’erano più fedeli che sanpietrini) proclamava santi i nostri Antonio Primaldo e Compagni, che tutti ormai venerano comunemente come i Santi Martiri di Otranto.

Due seminaristi di Noha al servizio di papa FrancescoMa il fatto straordinario di cui vorrei parlare non è tanto (o solo) la canonizzazione di personaggi storici della nostra terra, quanto il fatto che a servire la messa solenne del papa v’erano, tra gli altri, anche due bravissimi ragazzi di Noha, due seminaristi, Luigi D’Amato e Giuseppe Paglialonga, attualmente studenti (e sappiamo pure con profitto) di Teologia e Filosofia presso il pontificio seminario regionale “Pio XI” di Molfetta (pio collegio che ha “prodotto” pastori di gran prestigio, sacerdoti e vescovi, ma anche professionisti e uomini di importante levatura sociale), dopo aver frequentato, sempre insieme - e con soddisfazione da parte tutti, primo fra tutti l’ordinario diocesano - il seminario arcivescovile di Otranto (istituto ecclesiastico rinomato dal Settecento in poi per la floridezza degli studi e la bontà dei giovani avviati al sacerdozio).

Luigi e Giuseppe sono, dunque, due tra le perle più preziose di quello scrigno di tesori che è la gioventù nohana. Affatto diversi nella loro figura fisica, nel taglio della loro personalità, ma probabilmente non in quello delle loro aspirazioni, sempre pronti a salutarti cordialmente e con un sorriso, Luigi e Giuseppe hanno scritto e siamo certi continueranno a scrivere pagine importanti della Storia di Noha.

Ci sarà certamente il tempo (ora è fin troppo presto data la loro giovane età) per profondersi in biografie, stilare articoli sul loro curriculum vitae, vergare “scritti in onore” di questi due personaggi local con vocazione global (anzi universal, o, meglio, celestial), dandone i giusti colpi di scalpello nell’abbozzo di un loro profilo.

Qui però mi sia consentito di ricordare brevemente un paio di episodi che rispettivamente li riguardano.

Il primo è questo.

Due seminaristi di Noha al servizio di papa FrancescoTempo fa accompagnai Luigi D’Amato a Galatina nella casa di un mio amico, il compianto Prof. Mons. Antonio Antonaci, per far conoscere l’uno all’altro: ci tenevo (evidentemente per la stima che nutro nei confronti di entrambi). In quell’occasione il professore non parlò molto, affetto com’era da un principio di depressione senile cronica (che lo accompagnò fino al giorno del suo congedo da questa vita che ebbe termine il 26 settembre del 2011); tuttavia alla fine di quell’incontro il professore ebbe modo di donare a Luigi uno dei suoi numerosi capolavori: lo stupendo volume dal titolo “Fra’ Cornelio Sebastiano Cuccarollo – cappuccino - arcivescovo di Otranto (1930 - 1952)”, un libro di oltre 400 pagine sulla vita straordinaria di un vescovo santo che ha operato nella nostra terra durante “gli anni ruggenti” che vanno dal periodo fascista alla ricostruzione post-bellica. Orbene, in una delle prime pagine di questo tomo - il cui testo si legge scorrevolmente come un racconto senza tuttavia divenire un romanzo - Mons. Antonaci, prima dell’autografo, vergava di proprio pugno una dedica al nostro seminarista appellandolo (con molte probabilità profeticamente) don Luigi. In quell’occasione mi parve di cogliere in Luigi, anzi in don Luigi (e credo di non essermi sbagliato), un certo compiacimento, se non proprio un cenno di approvazione.

Il secondo fatto che vorrei menzionare riguarda invece Giuseppe.

Due seminaristi di Noha al servizio di papa FrancescoRicordo molto bene questo poco più che imberbe ragazzino beneducato e molto attento, oltre che sempre presente nelle prove o nel corso delle liturgie in cui mi capitava di suonare (con o senza il coro) l’organo a canne di Noha. Orbene, Giuseppe osservava in silenzio e sembrava assorbire come una spugna le tecniche ed i segreti di quella vera e propria orchestra che è l’organo elettromeccanico nohano, le combinazioni dei suoni, dei suoi timbri e registri, l’uso dell’“acceleratore” del “crescendo”, i pulsanti ai pedali, e via di seguito.

So che certe cose si aggrappano all’infanzia come ami nella carne per non staccarsene più; non saprei dire, però, con certezza se io sia stato protagonista in positivo (nel senso che Giuseppe, da buon osservatore nohano, abbia “scoperto” e quindi iniziato ad amare la musica, e soprattutto quella celestiale e sublime, commovente e magnifica di un organo a canne anche grazie a me), oppure in negativo (nel senso che osservando e soprattutto udendo il sottoscritto suonare l’organo con i piedi – ma nel senso metaforico del termine, in quanto un organo si suona pure con i piedi – dunque nel peggiore dei modi, abbia reagito alla violenza provocata ai suoi timpani, oltre che al decoro che si deve all’arte ed al senso estetico, studiando invece seriamente la musica organistica, e giacché c’era anche il canto, onde evitare il ripetersi nel mondo di certe performance melloniane). Sta di fatto che oggi, nell’un caso o nell’altro, Giuseppe Paglialonga è un bravo ed apprezzato organista, oltre che un cantante dalle indiscusse doti canore.

Due seminaristi di Noha al servizio di papa FrancescoMa ritorniamo in piazza San Pietro (ché le divagazioni potrebbero portarci fuori dal seminato - o dal seminario) ed a quelle immagini in mondovisione che hanno proiettato davvero su tutto l’orbe terraqueo, oltre a tutto il resto, anche i nostri due conterranei intenti l’uno, Luigi, a reggere il pastorale del papa (che per essere precisi si chiama “ferula”) e l’altro, Giuseppe – se riesco a veder bene nella foto - catino, brocca e forse anche manutergio per l’abluzione rituale (cioè la lavanda delle mani che avviene nel corso della messa durante l’offertorio e dopo la comunione).

Assisi proprio a pochi metri dalla sedia del papa, i nostri due impettiti seminaristi sono stati impeccabili. Il maestro delle cerimonie pontificie, il rigoroso e apparentemente imperturbabile Mons. Guido Marini (genovese, da non confondere con il prefetto suo predecessore fino al 2007, Mons. Piero Marini, pavese) non avrà faticato molto, né sprecato molto fiato nelle istruzioni da dare ai nostri ragazzi: Luigi e Giuseppe saranno apparsi agli occhi del cerimoniere pontificio come i più navigati liturgisti vaticani, grandi esperti di sacra liturgia, delle sue leggi e regole (e soprattutto delle tre P richieste a tutti i chierici, e cioè la pietà, la pazienza e la precisione) apprese certamente in seminario, ma anche e soprattutto in quella vera e propria scuola-guida che è la parrocchia di Noha.

Due seminaristi di Noha al servizio di papa FrancescoIn conclusione o ad integrazione di queste note, a me (ma sono certo anche ai miei venticinque lettori) piacerebbe conoscere i sentimenti, l’emozione e l’impressione provati dai nostri due baldi giovani a proposito di questo avvenimento che rimarrà indelebilmente scolpito nel loro animo per tutta la vita. Mi piacerebbe leggere (magari su questo stesso sito) i loro pensieri in merito, i risvolti e la cronaca particolare della cerimonia, il contatto con papa Francesco, i dettagli dell’evento e anche il “dietro le quinte” di questa occasione storica e straordinaria.

Nell’attesa di tutto questo, auguro a Luigi ed a Giuseppe, sicuro d’interpretare anche il pensiero di molti, tutto il bene di questo mondo, qualunque sarà la loro scelta.

Auguro loro di ascoltare e di mettere in pratica i messaggi forti di questo papa evangelico, dunque “rivoluzionario”, che dice papale papale (appunto!) che la chiesa di Cristo non ha titoli da concedere né onori da distribuire ai vanitosi del mondo, ma solo servizi da chiedere agli umili della terra, riaffermando con determinazione le parole di Luca (17,10): “Quando avrete fatto tutto il vostro dovere dite: siamo servi inutili”.

Due seminaristi di Noha al servizio di papa FrancescoAuguro loro di abiurare il dio del perbenismo di facciata, il dio del potere corrente e mafioso, il dio delle convenienze, delle compiacenze e dei privilegi, il dio di comodo ed il dio denaro. Auguro loro, invece, di credere, accogliere, predicare e donare agli altri il Dio nudo, forestiero, crocifisso, emarginato, diverso, precario e disoccupato, il Dio che inorridisce davanti ad ogni schifezza compiuta specialmente dentro le mura del tempio, il Dio che dà senza aspettarsi nulla in cambio, il Dio delle gerarchie, quelle vere che non hanno bisogno di gradi, il Dio che ha fame e sete di giustizia, il Dio della strada stretta, tortuosa, in salita, difficile, accidentata, il Dio dei poveri cristi, il Dio di una chiesa dell’intra omnes e non quello dell’extra omnes.

*  

Alla fine di questo percorso auguro loro - se sarà questa la loro Vocazione - di caricarsi anche del fardello del pastorale (se non proprio quello di una ferula papale: mai porre limiti alla divina Provvidenza), impugnandolo tuttavia non in qualità di caudatari, ma, possibilmente, in qualità di titolari.

Sempre, però, sulle orme di Francesco.

Antonio Mellone
 
Di Albino Campa (del 21/09/2011 @ 23:07:32, in Recensione libro, linkato 3202 volte)

Se c’è una cosa in libreria che mi dà il voltastomaco e mi fa stringere i pugni e digrignare i denti e che inevitabilmente a priori mi porta a non acquistare un libro è vedere quelle maledette fascette colorate avvinghiate alle copertine, come sanguisughe che ne azzoppano il fascino decimandone la capacità seduttiva. Scelte editoriali alquanto discutibili perché, diciamocelo francamente, bisogna essere alquanto sempliciotti per scegliere un libro solo per il fatto che milioni di persone l’abbiano già letto, o perlomeno acquistato, prima di noi oppure che l’autore abbia già scritto quel tale romanzo

Detto ciò, il libro che intendo presentarvi mi è stato regalato e come tale non poteva non avere un’orrenda fascetta gialla, che tra l’altro stona tantissimo con la copertina, che già di per sé non è il massimo. Io non l’avrei acquistato per i motivi di cui sopra, ma per fortuna esistono gli amici che a Natale non si dimenticano di noi. Potete quindi immaginare la faccia che ho fatto quando l’ho tirato fuori dalla carta regalo e orgoglioso me lo sono portato sotto il naso: era come se si ostinassero a gettare secchiate di rabbia e tristezza sul mio volto al solo scopo di distorcerne i lineamenti in una smorfia di disgusto. Fatica inutile però: vi sareste aspettati come minimo un urlo, un lancio fuori dalla finestra o in pasto a qualche cane o gatto, e invece ho riso di gusto leggendo le tre righe stampate su quella odiosa fascetta gialla: “I milanesi sono tosti come i rovi negli anfratti ed hanno ben donde d’esserne fieri, ma un salentino a Milano è un girasole in cantina”.

Solo per questa ragione non l’ho strappata quella orribile fascetta, ma non la potevo nemmeno lasciare lì dov’era per una questione di coerenza: quindi l’ho usata come segnalibro e mi ha accompagnato di pagina in pagina nella piacevole lettura di “Lecce – Ravenna. Andata e ritorno” di Maurizio Monte (Edizioni Clandestine, pp. 152, 2006). L’ho letto d’un fiato e mi ha fatto ridere, sognare, riflettere e anche piangere. E mi è venuto da pensare che delle volte un libro è in grado di sceglierti tra milioni di lettori, magari ti indica con l’ausilio di qualche fascetta colorata e tu gli corri incontro, lo apri e ti lasci accarezzare dalle storie che scorrono impetuose tra le sue righe.

Il libro di Monte l’ho fatto mio, me ne sono impossessato a tal punto che Demenzano, il paesetto dell’estremo sud-est Italia in cui è cresciuto il protagonista del romanzo, è diventato il mio paese; mi sono identificato nei giovani che vivacchiano nella piazza assolata, spaesati, aspettando che il lavoro li caschi sui piedi e che un bel giorno decidono di prendere il primo treno per il Nord. Allora scappano via ricolmi di odio per quella terra che dopo averli cresciuti ora non è in grado di regalarli un futuro e li abbandona per strada. Partono certi di non voler far più ritorno a casa, sicuri di riuscire a dimenticare.     

Quello che ci racconta il brindisino Monte, con uno stile abbastanza ricercato e mai banale, è una favola (con morale esplicita) che noi salentini conosciamo bene e che ha come titolo “emigrazione”. È la storia di un certo Saverio che è costretto a scappare dalla sua terra, a sfuggire a quel circolo vizioso che si chiama precariato. Arrivato a Ravenna però la nostalgia inizia a scavare tra i sui ricordi e porta a galla suoni, odori, immagini, sentimenti di un estremo sud che non aveva mai apprezzato appieno, ma che ora nella caotica città emiliana rappresentano il miraggio che gli da la forza per andare avanti.

Un mélange di aneddoti, descrizioni minuziose e intelligenti aforismi, con contorno di denuncia sociale, fanno di questo romanzo un libro che vale la pena leggere. Pazienza per la fascetta colorata!

Michele Stursi
 
Di Redazione (del 19/02/2013 @ 23:06:05, in Un'altra chiesa, linkato 3444 volte)
Premessa. Molti amici e molte amiche mi hanno subissato di e-mail e di messaggi per chiedermi che cosa penso delle dimissioni del papa. Poiché sto preparando un libro per l’editore «Il Saggiatore» in cui chiedevo le dimissioni di questo papa per manifesto fallimento, ho dovuto ripensare come fare e cosa fare del lavoro svolto. Ho pensato di aggiungere un capitolo e di metterlo come cappello all’intero libro. Alla notizia dell’Ansa, la mia prima emotiva reazione è stata: sono stato superato a sinistra da un papa. E’ la fine! Non pubblico più il libro. Poi, a una più puntuale e attenta riflessione, ho capito che quelle dimissioni rendevano il libro ancora più necessario, anzi gli davano fondamento e argomento. Senza di esse, il libro poteva apparire come lo sfogo di un prete «arrabbiato» (anche se non lo era), ora con le dimissioni, i fatti e le ragioni ch espongo hanno il crisma della prova che anche il papa «non ne può più» e pone fine alle ,lotte intestine, ai tradimenti, ai giochi di potere, rompendo il giocattolo nella mani sacrileghe dei cardinali e dei curiali, corrotti e senza Dio. Pertanto per venire incontro a tutti, pubblico questo nuovo capitolo, appena finito, invitandovi, per il resto, ad aspettare l’uscita del libro per i primi di maggio. Alla luce dei fatti, anche il mio precedente romanzo «Habemus papam» acquista una dirompenza profetica inusitata perché il tempo di Francesco I si avvicina sempre più perché è ineluttabile. Ora torno alla revisione del libro, non risponderò ad alcuno perché dovrò consegnarlo entro il 20 di febbraio. Di quello che pubblico, potete fare l’uso che volete. Il papa si dimette. Finalmente un’ottima notizia Iniziai questo libro il giorno lunedì 13 agosto 2012, alle ore 16,57. In esso per almeno due volte chiedo le dimissioni di papa Benedetto XVI per fallimento palese come uomo, perché ha dimostrato di non essere in grado di gestire la curia romana col suo vortice d’intrighi, corruzione, scandali e immoralità. Finita la stesura, mi accingevo a rivedere il testo per limare e aggiustare; giunto a pagina 77, lunedì 11 febbraio 2013, esattamente sei mesi dopo, poco prima di mezzogiorno, lessi sul web il lancio dell’Ansa con la notizia dirompente, quasi in diretta, che Benedetto XVI, nel concistoro in corso, comunicava ai cardinali le sue dimissioni da papa. Il card. Angelo Sodano, presente, prendendo la parola subito dopo il papa, parlò di «un fulmine a ciel sereno». Il papa aveva riunito il concistoro pubblico dei cardinali per concludere tre canonizzazioni, tra cui quella degli «Ottocento Martiri di Otranto», uccisi il 14 agosto 1480 dai Turchi perché non vollero abiurare dalla loro fede e convertirsi forzatamente all’Islam. Finito il concistoro pubblico, il papa proseguì con un concistoro segreto, riservato ai soli cardinali presenti, circa una cinquantina, ai quali, in latino, comunicò la sua ferma e libera decisione di dimettersi da papa perché, - disse - «sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata (ingravescente aetate), non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero pietrino», stabilendo la data d’inizio della «sede vacante» alle ore 20,00 del giorno 28 febbraio 2013. La motivazione che il papa stesso offrì al mondo fu drammatica e lucidamente consapevole: Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato (L’Osservatore Romano CLIII n. 35 [2013] del 11/12-02, p. 1). Quando questo libro sarà uscito (fine aprile 2013), la Chiesa cattolica avrà un nuovo papa e anche un papa emerito, in una situazione speciale, ma non unica nella bimillenaria storia ecclesiale perché altri papi e antipapi hanno convissuto in epoche lontane. Basti ricordare papa Ponziano che, il 28 settembre del 235, rinunciò alla carica perché mandato ai lavori forzati in Sardegna, e papa Antero che gli succedette il 21 novembre dello stesso anno; oppure il mondano Benedetto IX che tra il 1032 e il 1044, espulso e tornato in carica a più riprese, convisse con Silvestro III, Gregorio VI e Clemente II. Volendo si può anche andare all’inizio del sec. XV, al tempo dei papi Gregorio XII e Benedetto XIII, dimessi dal concilio di Pisa nel 1409 perché scismatici. Oppure è sufficiente ricordare l’antipapa Giovanni XXIII (nome ripreso, senza paura, da papa Angelo Giuseppe Rocalli nel 1958) che coesistette con Urbano VI e Martino V, quest’ultimo eletto dal concilio di Costanza; oppure Eugenio IV, scomunicato e deposto con Felice V che abdicò in favore di Nicolò V nel 1447. Si può dire che nella storia con questo valzer di papi e antipapi, doppi papi e tripli papi, non si ha certezza della linearità della successione petrina; tra tutti i papi dimessi o deposti, fa impressione notare che il nome di «Benedetto» ricorre più di ogni altro. L’11 febbraio 2013 fu la volta di un altro Benedetto, numero XVI, il quale non fu obbligato da forze esterne dirette, ma prese la decisione, ponderandola nella sua coscienza e solo quando essa fu matura in lui, la comunicò, secondo le regole del Codice di Diritto Canonico che sancisce: Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti (can. 332 § 2). Il gesto di Benedetto XVI, superato lo stupore di rito, lasciò aperte, e tuttora lascia, molte congetture, dando forza ulteriore di verità alle pagine che seguono, perché è la prova che i fatti e le valutazioni che riporto, spesso molto dure, non sono solo fondate sulla realtà, ma travalicano l’orizzonte delle ipotesi e si collocano sul versante della drammaticità che assiste impotente alle dimissioni del papa. Se il papa stesso motu proprio si dimise perché non ce la faceva più a svolgere il suo ruolo, significava che il livello del degrado era arrivato a tal punto che solo un gesto forte, «un miracolo», poteva porvi rimedio. Per la prima volta il gesto delle dimissioni, non usuale nel mondo clericale dove tutto si misura sul perenne e sull’eterno, portò con sé un germe di cultura e di costume di «laicità». Esso scardinò, «come un fulmine a ciel sereno», la figura del papa dall’aurela di sacralità, dove ingiustamente era stata collocata e la riportò alle dimensioni dell’umanità ordinaria, là dove, uomini e donne stanno al loro posto fino a quando le forze spirituali e fisiche lo consentono. Per la prima volta, il papa in persona disse di non essere un «dio», o peggio, un idolo, ma di essere solo un uomo, e anche limitato, che deve fare i conti con le categorie della possibilità e dell’impossibilità. Nel mondo e nella teologia cattolici crollò un mito. Anzi, iniziò a crollare. Se, alla fine di questo libro, potevo avere qualche dubbio sulla durezza delle valutazioni, dopo il gesto del papa, ogni dubbio si è volatilizzato, perché ora l’esigenza di una grande riforma, non superficiale della Chiesa, è sempre più cogente e necessaria, specialmente «in capite», cioè nella struttura gerarchica che oggi è lo scandalo maggiore dentro il cuore stesso della Chiesa. Giovanni Paolo II (come vedremo più avanti) si era detto disposto a mettere in discussione l’esercizio storico del ministero pietrino e ora Benedetto XVI, suo successore, pose il primo atto di riforma in quella direzione. Il papato non può più essere lo stesso e il potere temporale, formalmente finito il 20 settembre del 1870, di fatto, cominciò a terminare l’11 febbraio 2013, memoria liturgica della Madonna di Lourdes e anniversario dei «Patti Lateranensi», che formalizzarono la coesistenza del pastore e del capo di Stato nella persona del papa. La Storia è una grande maestra di vita, proprio perché non insegna nulla, se è vero che ciascuno vuole compiere fino in fondo i propri errori; essa però si vendica, creando occasionalmente motivi e circostanza e simbolici che valgono più di un trattato scientifico. Nello stesso giorno in cui il papa era riconosciuto come capo del Vaticano (1929), il papa dichiarava al mondo intero di non essere più né capo di Stato né vescovo di Roma perché non era più in grado (2013). Una rondine non fa primavera e i cardinali, ovvero la curia, sono duri a morire. Essi non arriveranno mai a prendere decisioni per scelta, ma da sempre si rassegnano a quelle cui sono costretti dalla storia o dalle convenienze. Il papa cessò di essere vicario di Cristo, titolo quanto mai controverso nella storia della teologia, per restare soltanto il successore di Pietro in un «servizio» a tempo, camminando in tempo per essere in grado, eventualmente, di arrivare in tempo. Lo disse, in modo disarmante, lo stesso Benedetto XVI: «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti». Con queste parole, egli confessò il suo limite cedendo alla dittatura della fragilità, non solo fisica, ma anche concettuale; lui, uomo di cultura e di studio, non era in grado di reggere i bisogni dei tempi di «oggi» e se non si fosse ritirato in tempo, avrebbe rischiato di mancare l’appuntamento con il Signore che nella sinagoga di Nàzaret, all’inizio del suo «servizio», disse con fermezza e competenza: «Oggi questa parola si compie nei vostri orecchi». Oggi, non ieri, non domani, non in un tempo che si rifugia nell’eternità perché ha paura dell’evolversi della vita, ma solo ed esclusivamente «oggi». Dio e il vangelo sono «oggi». E’ l’oggi di Dio. Benedetto XVI, ormai papa-non-papa, disarmato, e, oserei dire illuminato dallo Spirito, cedendo alla violenza della ragione, depose i sacri paramenti che difendono dalla mondanità esterna, prese atto che «il velo del tempio si era spezzato, da cima a fondo» e lasciò «il sacro soglio» che più prosaicamente si trasformò in una «sedia presidenziale», occupata da un incaricato per il tempo necessario al «ministero affidato». Finito il compito, si lascia la sedia e si torna a pregare e, se c’è, a convivere con la sofferenza. Cristo non ha lasciato la «sua» Chiesa ad alcuno, nemmeno al papa, perché ci ha garantito di essere «sempre con noi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,28). Egli chiama quanti sono disposti a dargli una mano perché ognuno svolga una sola delle «multae mansiones in domo Patris» (Gv 14,2). Anche il papa. Specialmente il papa, che deve dare l’esempio di non essere strumento o manipolatore di potere. Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Gli intrighi medievali e rinascimentali della curia romana non sono finiti. Le dimissioni del papa ne sono una prova, anzi un atto di accusa grave e impotente, come se il papa inerme dicesse: non sono in grado di reggere questa sentina che schizza da ogni parte. Se i cardinali e il segretario di Stato fossero stati uomini dello Spirito, avrebbero preso come criterio di vita le parole del Signore che invitano a un genuino spirito di servizio. Forse, in un clima e in un contesto di preghiera e di abnegazione, lo stesso gesto delle dimissioni papali, sarebbe stato motivato in modo diverso e sarebbe anche apparso meno dirompente: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10). L’inutilità di cui parla Gesù non è comportamentale o funzionale, ma appartiene alla logica della verità e del servizio: non sono più adatto. Il testo greco usa l’aggettivo «achrèios», composto da «a-» privativa e dal verbo «cràomai – io uso/compio», per cui «non sono più nelle condizioni di agire/compiere». La curia romana, purtroppo, da sempre ha usurpato il ministero pietrino al successore di Pietro, relegando questi a una funzione di appariscenza, con un ruolo di approvazione formale, riservando per sé il potere quotidiano, quello invisibile, quello vero, come nomine dei vescovi in primo luogo, scelti tutti per cooptazione e quindi ricattabili con la tentazione della carriera. Benedetto XVI, specialmente dopo gli scontri delle fazioni contrapposte, avvenuti davanti ai suoi occhi e dopo la constatazione che nemmeno la sua scrivania e il suo studio fossero più sicuri, se qualcuno poteva trafugare documenti, anche riservati, aprì gli occhi e vide. Vide e toccò con mano che la sporcizia, la corruzione, il malaffare, l’inganno e la menzogna erano moneta corrente nella sua Città, nella sua casa, nella Chiesa di Dio. Il «fumo di Satana» che Paolo VI, terrorizzato, aveva evocato nel 1968, per Benedetto XVI assunse un nome e una collocazione. Il fumo diabolico del carrierismo e delle lotte intestine per accaparrarsi il potere e imporre la propria immagine di Chiesa, invadeva il Vaticano e annebbiava le menti e gli occhi dei cardinali che, a papa ancora vivo, cianciavano di scenari di morte. Forse, per la prima volta, il papa si rese conto che il male sovrastava la Città del Vaticano e le iene erano in agguato per sbranarlo a pezzi senza pietà e misericordia. Gli uomini di Dio, quando vivono e agiscono senza Dio, sanno essere tragici e anche comici allo stesso tempo perché perdono il senso del ridicolo e riescono anche a prendersi sul serio. Lo Ior, con tutto il marcio che custodisce nei suoi forzieri, scoppiò in mano al papa che volle a capo dell’istituto una persona di sua fiducia perché lo riportasse alla legalità. Non solo non riuscì, ma, a sua volta, fu indagato dalla magistratura e dalla banca d’Italia per riciclaggio e costretto alle dimissioni dal segretario di Stato. Mons. Carlo Maria Vigano (v. sotto), uomo giusto, aveva avvertito il papa che monsignori e cardinali erano ladri e corruttori a forza di tangenti in Vaticano e fuori; per punirlo della sua onestà, fu allontanato dal vaticano e mandato oltre oceano. Di fronte a questi misfatti, non avendo la forza d’imporsi e di licenziare i figli delle tenebre, primo fra tutti il suo segretario di Stato, il papa fece quello che un uomo mite e debole sa fare: si tolse lui di mezzo per disarmare le mani dei suoi nemici. Per fare dimettere tutti e riportarli alla dimensione della ragione e della fede, se qualcuno credeva ancora, rassegnò le sue dimissioni, consapevole che con esse sarebbero decaduti tutti i detentori di qualsiasi incarico. Il fallimento dei colloqui con i lefebvriani, che si sono approfittati della sua eccessiva benevolenza, come dimostro più avanti, alzando sempre più il tiro per indurlo a dichiarare formalmente che il Vaticano II fu un «concilio minore», anzi non può essere annoverato neppure tra i concili perché «eretico», dovette averlo molto amareggiato e forse si è pentito di avere tolto loro la scomunica. Prima, nel 2007, con la concessione senza condizioni della Messa preconciliare, il papa s’illuse che avrebbe potuto dialogare con essi e si adattò alle loro richieste, ma alla fine capì che non era per amore della Chiesa che essi volevano ritornare, ma solo per prendersi una rivincita dottrinale: il vero peccato di orgoglio, il peccato di Adamo ed Eva che non ha mai abbandonato il ceto clericale. Non potendo mettere d’accordo coloro che avrebbero dovuto «naturalmente» andare d’accordo, osservando come ciascuno perseguisse il suo interesse a danno di quello della Chiesa, il papa li costrinse a prendere coscienza che egli non poteva stare dalla loro parte; si tirò fuori e pose, come i profeti della Bibbia ebraica, un gesto fisico, un gesto che parlasse più delle parole: Mi dimetto. Con questo gesto egli affermò che la Chiesa è di Cristo e che nessuno ha il monopolio dello Spirito Santo. All’obiezione di chi sicuramente cercò di bloccarlo dicendogli che «alla paternità non si può rinunciare», il papa rispose, parlando con i fatti, che la paternità è solo di Dio e noi ne partecipiamo secondo la grazia e la possibilità, la misura e le condizioni. Le dimissioni del papa pongono sul tappeto della teologia, la questione che è rimasta irrisolta anche al concilio Vaticano II, la stessa che il Vaticano I non aveva nemmeno affrontato, sbilanciando così l’autorità solo sul versante del papa. La questione riguarda la collegialità dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa. Con la dichiarazione dell’infallibilità (vedi sotto) a beneficio esclusivo del papa, per oltre un secolo, la Chiesa è stata zoppicante e le conseguenze si vedono ancora oggi. Con le dimissioni di Benedetto XVI, l’anziano papa dice, forse senza volerlo, che l’autorità papale non è più assoluta, ma relativa, perché dimettendosi inidoneità «all’adempimento del suo ufficio», egli fa rientrare la figura del papa nella normalità della legge che esige le dimissioni (enixe rogatur – è fortemente invitato) di ogni vescovo in qualsiasi parte della Chiesa (CJC 401 §2). Tornando alla chiesa di comunione che è incompatibile con la chiesa piramidale verticistica, si afferma la necessità, non più procrastinabile, di un concilio che stabilisca i confini dell’autorità papale e nel contempo affermi i diritti dei vescovi che tornano a riprendersi la loro natura di «epìskopoi – custodi/sorveglianti» e non più luogotenenti o commissari governativi del papa-re o, ancora peggio, padroni di una porzione di Chiesa. Le dimissioni di Benedetto XVI rientrano nella categoria dei «segni dei tempi», che oggettivamente sta lì, spetta a noi leggerle in qull’ottica e da quella porspettiva che ci impegna a interrogarci sul loro significato che hanno in sé e nel futuro della Chiesa. Che cosa Dio vuole dire alla Chiesa di oggi, con il gesto di un papa che spontaneamente rinuncia al potere assoluto, all’immagine di sacralità di cui la sua funzione ra circonfusa per ritornare a essere un uomo di preghiera e di silenzio? San Paolo direbbe che questo momento è «un’occasione favorevole – un kairòs» per mettersi in ascolto di ciò che il Signore vuole dire alla sua Chiesa all’inizio del terzo millennio. Se deve nascere una nuova Chiesa, dipende anche da noi, perché Dio manda i suoi «segni dei temi», ma non si sostituisce alla nostra responsabilità e nemmeno conculca la nostra libertà, anche se è un impedimento alla realizzazione di un suo disegno. Dalle ore 20,00 del giorno giovedì, 28 febbraio 2013, memoria liturgica dell’asceta san Romano abate, vissuto a cavallo dei secoli IV e V, inizia un nuovo cammino per la Chiesa di Dio: esso può prendere la direzione del Regno attraverso la Storia, oppure il sentiero della paura verso il passato ala ricerca di una sicurezza che nessuno può dare perché è solo lungo il cammino che con i discepoli di Emmaus, sentiremo il cuore scaldarsi e alla fine, solo alla fine, scopriremo il volto del Signore nello «spezzare il pane». Spetta al nuovo papa e alla curia, di cui vorrà dotarsi, dimostrare con i gesti e la testimonianza che Dio è tornato a vivere in Vaticano perché i suoi abitanti, a cominciare dal papa, convertiti, hanno di nuovo cominciato a credere in lui, dandone anche testimonianza quotidiana. Il prossimo papa non potrà più erigere davanti a sé, o permettere che altri erigano, una cortina d’incenso, ma deposte le sontuose vesti della sacralità e preso un bastone, una tunica e un paio di sandali, dovrà scendere sulle strade del mondo per camminare accanto agli uomini e alle donne del suo tempo alla ricerca dei brandelli di Cristo disseminato nella Storia del mondo e delle singole persone. Ascoltando le parole di Benedetto XVI, con grande rispetto, ma reputandolo allo stesso modo colpevole e responsabile del degrado in cui versa la Chiesa, posso affermare che questo libro doveva essere scritto, come è stato scritto. Lo affido anche al nuovo papa, perché nello spirito di Francesco I, ripari la sua Chiesa e, senza paura, ma con la forza della sola fede, si lasci afferrare da Cristo per salire il monte delle Beatitudini e poi riscendere sulla pianura del Magnificat. E’ giunta l’ora ed è questa. Oggi.
 
Di Albino Campa (del 24/09/2010 @ 23:05:32, in Il Mangialibri, linkato 4000 volte)

Disponibile il primo romanzo di Michele Stursi "Il Mangialibri".

Per maggiori informazioni cliccare qui

Si puo' richiedere una copia direttamente da Noha.it inserendo un commento al seguente articolo, oppure presso lo studio d'Arte di Paola Rizzo ed infine inviando una richiesta all'indirizzo e-mail ilmangialibri@gmail.it

 
Di Michele Stursi (del 15/07/2012 @ 22:58:31, in Letture estive, linkato 6576 volte)

Tout commence par une interruption (PAUL VALÉRY).
Ecco, la questione è se davvero esistono le interruzioni nella nostra vita, oppure se quelle che noi ci ostiniamo a chiamare interruzioni non sono altro che degli stupidi pretesti per affogare la noia, per dare ritmo alla monotonia  e intensità alle cose che circondano.
“Ora basta”, “ è ora di cambiare”, “sono davvero stufo, ho bisogno di fare altro”. Sono queste le frasi dietro le quali nascondiamo la nostra ipocrisia, dentro le quali affoghiamo la nostra vanità. Abbiamo tutto, ma crediamo di non avere nulla. Corriamo, ci affanniamo per arrivare all’apice e quando siamo in cima, a respirare a pieni polmoni, ci viene improvvisamente il voltastomaco e ci chiediamo cosa ci siamo saliti a fare lassù, cosa abbiamo cercato di inseguire.
“Mentre camminava per Regent's Park – lungo un viale che sempre sceglieva, tra i tanti – Jasper Gwyn ebbe d'un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per guadagnarsi da vivere non era più adatto a lui.” Inizia con queste frasi Mr Gwyn di Alessandro Baricco, inizia da un’apparente (a mio dire) interruzione, da un tentativo disperato del protagonista di spezzare i fili che lo avevano tenuto fin lì in piedi sulla scena del mondo. Mr Gwyn decide un bel giorno, infatti, di smettere di scrivere, di porre fine a quell’arte che lo aveva alimentato giorno dopo giorno, che aveva dato senso ad ogni attimo della sua vita, è convinto di poter mettere un punto alla sua storia professionale e svoltare, andare a capo. In verità, il problema non è la scrittura, ma piuttosto lo strano meccanismo nel quale Mr Gwyn si rende conto di essere cascato: “finì per capire che si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che, solo, li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli. I figli per i genitori, il successo per gli artisti, le montagne troppo alte per gli alpinisti. Scrivere libri, per Jasper Gwyn. Capirlo lo fece sentire sperduto, e indifeso come solo sono i bambini, quelli intelligenti.”
Il bel romanzo di Baricco inizia quindi da una presa di posizione del protagonista, che sfidando tutti, ma soprattutto se stesso, cerca di cambiare prospettiva, di osservare il mondo dall’interno. Non voglio svelarvi altro, non voglio rovinarvi il gusto di questa stupefacente lettura (forse il romanzo più intenso e bello di Baricco) anticipandovi la trama. Posso solo dirvi che Mr Gwyn non abbandonerà la scrittura, non riuscirà a dimenticare facilmente la sua capacità di osservare le cose, le persone, i fatti e rimodellarli con arte e sapienza sulla carta, come un artigiano che lavora la cartapesta.
Il Mr Gwyn di Baricco inventerà un mondo originale e assolutamente personale per continuare a scrivere, a dimostrazione che quell’interruzione iniziale era solo un pretesto per cercare di sfilare dal meccanismo inceppato la parte innocente che lui ama. 
“Jasper Gwyn mi ha insegnato che non siamo personaggi, siamo storie, disse Rebecca. Ci fermiamo all’idea di essere un personaggio impegnato in chissà quale avventura, anche semplicissima, ma quel che dovremmo capire è che noi siamo tutta la storia, non solo quel personaggio. (…) Jasper Gwyn diceva che tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che nessuno ha mai scritto e che invano cerchiamo negli scaffali della nostra mente. Mi disse che quello che cercava di fare era scrivere quel libro per la gente che andava da lui. Le pagine giuste. Era sicuro di poterci riuscire.”

Michele Stursi

 

Luisa Ruggio torna a Galatina, in un incontro promosso dalla Libreria Fiordilibro in collaborazione con I Vitelloni Bistrot,  per presentare il suo ultimo romanzoNotturno” edito da Besa, il 17 dicembre alle ore 19,00 presso i Vitelloni Bistrot di Piazza Alighieri,79.

Dialogherà con l’autrice, la giornalista Valentina Chittano.

Le note di Angelo Coluccia accompagneranno l’incontro .

Luisa Ruggio torna ad affascinarci con la sua scrittura e ci regala uno scrigno denso di tesori e meraviglie perché tale è Notturno .

Si narra che Erik Satie avesse una stanza segreta che fu aperta solo dopo la sua morte: lì custodiva una collezione di ombrelli. E’ questa la scusa che un traduttore tedesco ,Jul , usa alla soglia dei quaranta anni  come zattera e rifugio quando si accorge di non aver una famiglia,un futuro, né un vero luogo in cui fare ritorno. Da bambino Jul ha lasciato Stoccarda insieme alla madre, è cresciuto viaggiando in solitaria, attraversando paesi veri o immaginari, alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. A Firenze, dove continua a sentirsi un senza terra, tenta di dimenticare il passato di cui non ama parlare. Ha ereditato questo silenzio da suo nonno, il Lupo, sopravvissuto alla battaglia si Stalingrado e ad una traversata di quattromila chilometri a piedi in un regno di neve e sergenti. Nottetempo Jul si diverte a postare un racconto a puntate ispirato ai Cinque Notturni di Satie,  gli ultimi che il suo autore preferito scrisse dopo la morte dell’amico Debussy.Poi un giorno, una sconosciuta che dice di chiamarsi Lyda inizia a leggere il suo racconto a puntate e gli scrive da una terra si frontiera che non nomina mai. Inizia così un dialogo intenso , un inverno di favole e un processo di rivelazione.  I Cinque Notturni di Satie scandiscono la rieducazione  sentimentale ed erotica di Jul e Lyda. I due, insieme , rimetteranno in discussione tutto ciò che credevano immutabile, a cominciare dalla difficoltà di conciliare i mondi immaginari e la realtà claustrofobica della vita quotidiana, il tempo interiore e l’orologio degli altri.

Luisa Ruggio scrittrice e giornalista  ha esordito nel 2006 con il suo primo libro "Afra" aggiudicandosi ben 5 premi letterari, ha inoltre pubblicato diversi saggi sul cinema e la psicoanalisi e altri tre libri: "Teresa Manara" nel 2014, "La nuca" nel 2008, e la raccolta di racconti brevi "Senza Storie".

Emilia Frassanito

 
Di Albino Campa (del 09/12/2010 @ 22:11:01, in Recensione libro, linkato 3587 volte)
Solo adesso mi rendo conto quanto un incontro del tutto fortuito, possa dirsi poi necessario nella vita.
Scorrevo con il dito lungo costole di libri che fremevano su scaffalature ricolme e proprio lì, non saprei spiegarmi il perché, sul dorso bianco di Glister, ho indugiato. L’ho sfilato dolcemente e l’ho trattenuto per qualche secondo sul palmo della mano per ammirarne la copertina. No, non l’ho scelto per la copertina, ne sono certo. Non l’ho scelto nemmeno per il nome dell’autore, John Burnside, a me sconosciuto sino a quel momento; nemmeno per il titolo, incomprensibile; né per la trama. Vi chiederete, allora, perché proprio lui tra centinaia di volumi? Oggi, solo dopo averlo letto, sono arrivato alla conclusione che è stato Glister a scegliere me.
È davvero difficile classificare quest’opera in una ben precisa categoria letteraria: non si tratta semplicemente di un romanzo noir, né tantomeno di una crime novel, un poliziesco o un romanzo psicologico. Glister è tutto ciò insieme, ma innanzitutto è una storia di formazione. Il romanzo di Burnside, attraverso una scrittura quanto mai sincera e libera da pregiudizi, si prefigge l’obiettivo di scuotere, svegliare le coscienze assopite di noi collaborazionisti e sonnambuli, che assistiamo impotenti alla distruzione delle nostre città.
È così che va il mondo. I cattivi vincono e gli altri, per salvare la faccia, fanno finta che non si sono mai accorti di niente. È difficile ammettere di essere impotenti, ma ti devi abituare all’idea. È a questo che serve la scuola, ovvio. Ad abituarti alla vitale disciplina di essere impotenti. (pag. 107)
Il luogo in cui Burnside sceglie di ambientare il suo romanzo non esiste sulla carta, è inutile cercarlo; è sufficiente leggere per scoprire che sotto le spoglie dell’Innertown, abbandonata con il suo impianto chimico ai piedi della nobile penombra dell’Outertown, è nascosta qualsiasi città, e nei suoi abitanti malaticci e svogliati non possiamo non riconoscerci.
L’Innertown non era un luogo salutare in cui vivere; il problema era nel fatto che, per la maggior parte delle persone, non c’era altro luogo dove andare. Era questa la ragione per cui in tanti morivano per cause che nessun dottore avrebbe mai potuto diagnosticare: delusione, rabbia, paura, solitudine. (pag. 48)
La scomparsa di alcuni giovani dell’Innertown è il chiodo a cui l’autore appende i problemi che affliggono il nostro mondo. Glister rappresenta l’alternativa a questo mondo marcio, in cui si soffre inutilmente e la sofferenza altrui non ha alcun valore; un mondo in cui il denaro è la logica dei più forti e quindi di coloro che, per una bizzarra legge della natura, dettano le regole del gioco. Ma è nelle mani del peccato d’omissione, incarnato nella storia dal poliziotto Morrison che per primo scopre il cadavere straziato di uno di quegli adolescenti scomparsi e per paura decide di insabbiare l’inchiesta, che le nostre città si sono frantumate.
…: è la forma più estrema di crimine in cui la città sia rimasta invischiata da decenni, il peccato d’omissione, il peccato di aver girato lo sguardo per non vedere cosa stesse accadendo proprio di fronte ai propri occhi. Il peccato di non voler sapere; il peccato di sapere tutto e di non fare nulla. Il peccato di sapere le cose dai giornali, ma rifiutarsi di vederle nei nostri cuori. Tutti lo conoscono questo peccato. (pag. 301)
Burnside ha costruito, pagina dopo pagina, una realtà in cui è difficile non riconoscersi e allo stesso tempo ha suggerito al suo lettore una via d’uscita. Glister è un luogo oltre la vita e per raggiungerlo occorre cambiare, fare delle scelte, ribellarsi, aprire gli occhi, spegnere la TV e leggere di più, e solo dopo essersi guardati intorno, sopra e sotto di noi, iniziare a interrogarsi.

GLISTER di John Burnside, Fazi Editore 2010, pagg. 309

Michele Stursi

 
Di Fabrizio Vincenti (del 02/04/2013 @ 21:57:15, in NohaBlog, linkato 2835 volte)

Ciao Noha,

è stato bello rivederti. Ritornare nella mia parrocchia di origine, nella mia piccola piazza San Michele, acquistare gli arachidi da Pippi e dalla sua immancabile bancarella, trovare le zeppole di San Giuseppe nei bar, gli agnellini di pasta di mandorla nelle vetrine, vedere tutti i nuovi giovani nohani allegri appena cresimati, simbolo di un paese che non muore: che emozione! Eppure, accanto alla gioia di riviverti, mi assale un enorme dispiacere nello scoprirti sempre più trascurata. Sembra leggere un triste romanzo ambientato a Sarajevo ai tempi della guerra mentre ti attraverso, a piedi, in lungo e in largo. I disastri dei bombardamenti mancano, ma l’indifferenza che ti è stata riservata sembra causarti più danni di un attacco aereo. E poi le strade... in ventotto anni della mia vita, o forse da quando sono state asfaltate per la prima volta, non le ho mai viste in queste condizioni. E penso a quanti soldi siano stati spesi per rattopparle volta per volta senza mai risolvere il problema alla radice. Quanto sono pessime le condizioni di viabilità nostrane. Possibile che non si riesca a fare un piano di risanamento stradale intelligente, capace di mettere in sesto una volta per tutte queste piccole stradine senza rischiare ogni volta di finire in delle voragini più che delle buche?! Un piano che in quattro o cinque anni preveda la raschiatura del vecchio manto stradale e la stesura di uno nuovo, livellando i tombini e predisponendo già tutti gli allacci alle varie reti di tubature per ogni abitazione, segnaletica orizzontale e verticale, illuminazione: questo serve. E non mi si dica che non ci sono soldi, la solita scusa di sempre. Se siete pagati, cari amministratori, lo siete per trovare soluzione ai problemi, e uno di questi è trovare i fondi per risanare il paese. Avete speso più soldi a rattoppare di quanti ne avreste speso per riasfaltare l’intero paese! Serve uno scienziato o un tecnico per capire che “nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio, altrimenti egli strappa il nuovo e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio”? (Lc 5). Eppure non mancano nuovi cantieri stradali, a mio avviso senza senso, che squarciano le campagne accavallando le strade. Non bisognerebbe assestare prima quelle già esistenti visto che, come sembra, di catrame ce ne sia ben poco? E invece il bitume non manca affatto se non si pensa due volte a stendere nuovi manti stradali. Dov’è la “concretezza” e il buon senso delle nostre amministrazioni comunali? Tutto questo vaneggiamento intellettuale e logorroico che attanaglia queste amministrazioni locali mi lascia sgomento. Si vuole una volta per tutte iniziare a ragionare con “senno e cognoscimento”? O vogliamo continuare così, a tirare avanti alla meno peggio, senza una visione futura del bene comune? Lo vogliamo capire una volta per tutte che la mediocrità non è utile per nessuno ma nociva per tutti? Possiamo iniziare anche a Noha ad abituarci alla concezione dell’eccellenza? Non è un peccato mortale. Il nostro Papa Francesco, che continua a stupire noi tutti per la sua umiltà e per il suo senso della concretezza, quella che manca ai politici, ci ha ripetuto più volte che noi siamo custodi della creazione. Beh, Noha non ha custodi a quanto pare, vista la condizione in cui si trova. O meglio, i custodi che ha non bastano a salvaguardare la sua dignità che gli spetta di diritto visto la storia che vanta. Dove sono i nohani, gli assessori, i consiglieri, i sindaci o i commissari? Pagati per custodire cosa, la loro stessa poltrona? È vero che non dobbiamo perdere la speranza, ma forse è meglio ricordarlo a questi quattro politicanti che il vero potere, come dice papa Francesco, è il servizio. E a cosa servono questi e chi stanno servendo non si è ancora capito. Di sicuro né Noha né i nohani.

Fabrizio Vincenti
 

La rassegna “Dammi una L”, passata la sbornia del Salento Book Festival che anche quest’anno ha portato a Galatina nomi di caratura internazionale, torna con un ospite importante: Rosario Pellecchia di Radio 105. Il conduttore radiofonico sarà presente domenica 8 settembre presso l’ex Complesso Monastico delle Clarisse in Piazza Galuccio per presentare “Solo per vederti felice” il suo romanzo edito da Mondadori. Parteciperanno all’incontro il Sindaco Marcello Amante e l’Assessore alla Cultura Cristina Dettù.

Rosario Pellecchia, Ross per chi segue i suoi programmi, è nato a Castellammare Di Stabia, dove è anche ambientata la seconda parte del romanzo, parte nella quale il protagonista torna nella città natale per stare vicino all’anziana madre malata, e lavora dal 1986 in radio. Ha vinto un Telegatto ed è passato anche dalla TV, ma in radio si è consolidato il rapporto con il suo pubblico. Il romanzo, tra momenti tragici e divertenti, è un tuffo all’indietro nel tempo e all’interno dei sentimenti umani e degli affetti familiari.

Ufficio Stampa - Marcello Amante

 

 
Di Antonio Mellone (del 04/05/2019 @ 21:42:44, in NohaBlog, linkato 1086 volte)

Non vi venga il ghiribizzo di iniziare di sera la lettura de “La Notte degli Indicibili”, il romanzo d’esordio di Giunio Panarelli (Montag, 2018), magari quando siete già a letto: rischiereste seriamente di arrivare alle tre senza accorgervene - prima di dovervi interrompere causa incipiente novella giornata lavorativa da lì a meno di quattro ore.

Di primo acchito, chissà perché, ti vengono in mente i Ragazzi della via Paal, ma dopo appena qualche riga t’accorgi che qui il tragico si trasforma immediatamente in comico, reso oltretutto con inedita scrittura creativa, mai scontata, e direi pure raffinata. Dalla maneggevolezza della penna arguisci sin da subito quanti libri (di cui molto probabilmente è tappezzata casa sua) abbia sfogliato l’autore, quanto gli ronzi in testa il loro brusio, e forse anche quanto sia pure un pizzico figlio d’arte.

Che poi oggi questo ventiduenne di Galatina frequenti la Bocconi e addirittura International Politics & Government (yes, in inglese), con un bel po’ di esami in metodi quantitativi [necessari finalmente a chi nelle istituzioni nazionali e internazionali, e perché no locali, è chiamato a formulare decisioni, ndr.] è un altro paio di maniche e si chiama completamento. Si cresce passo dopo passo, magari anche con la partecipazione alla redazione di Intevalla Insaniae - il giornalino del liceo classico galatinese, a suo tempo così osteggiato dal diciamo potere costituito - (fatto), con uno stage al Fatto Quotidiano (fatto), con la pubblicazione sui social network del Bollettino del Quattro Marcio, notiziario satirico (fatto) [ah, la satira, così invisa agli analfabeti funzionali, ndr.], con la collaborazione a questo o a quel magazine più o meno web (fatto anche questo). Tutto sembra propedeutico (come si diceva di certi esami universitari) a un secondo auspicabile romanzo: un Economic Thriller per la precisione (ché quanto al Political horror non c’è bisogno di inventare nulla, visto quanto ormai la realtà obliteri la fiction).

Ma ritorniamo alla nostra Notte, ché le digressioni dell’Osservatore Nohano potrebbero farvi fare tardi.

Nella seconda delle tre parti del romanzo, i bambini della prima son diventati adolescenti, e tra “grugniti etilici” e “botanica pratica” (al cui confronto le canne al vento del Canale dell’Asso sarebbero modica quantità), la voglia di cambiare nuovamente connotati alla lapide di quello stronzo di Cartesio (che pare non fosse proprio un Federico Moccia nel riportare su carta le sue elucubrazioni), e qualche considerazione sui massimi sistemi politici, si arriva al tratto finale: la notte degli indicibili vera e propria. Quella in cui cade il velo dell’incomunicabilità tra i tre amici, e dove finalmente “ognuno dice delle cose che tutti gli altri promettono di custodire solo per sé senza rivelarle a nessun altro”. Un metodo, quello di parlare agli altri, prima di tutto per parlare a se stessi, trovare una strada, salvarsi, ed evitare che il russa della famosa rivoluzione rimanga solo una voce del verbo.

I pensieri, le parole, le opere, non le omissioni, diventano veicoli che, svoltando a sinistra (mai a destra), dopo la memorabile seconda stella, consentiranno a molti di spingersi fino all’isola che finalmente c’è.

Antonio Mellone

 
Di Antonio Mellone (del 25/09/2017 @ 21:40:14, in NohaBlog, linkato 2376 volte)

Non so voi, ma a me ‘sta storia del mega-porco commerciale Pantacom rievoca tanto quella della monaca di Monza, narrata da Alessandro Manzoni nei suoi Promessi Sposi.

In questa sorta di romanzo nel romanzo, ci vien presentata la figura della povera Gertrude destinata al convento sin dalla nascita, così, tanto per rispettare la tradizione del Maggiorasco che prevedeva la concentrazione del patrimonio ereditario nelle mani del primogenito (ovviamente maschio).

Sicché la sventurata si trova istradata al monastero già all’età di sei anni, quale normale prosecuzione dei suoi giochi d’infanzia (fatti perlopiù di santini e di bambole vestite da suore), e naturale destino di un nome che fa tanto chiostro, Gertrude, imposto dal padre-padrone, “principe e gran gentiluomo milanese” che per la figlia non vedeva altro futuro se non il velo e la clausura.

Orbene, nonostante Gertrude non avesse alcuna intenzione di farsi monaca, più il tempo passava più s’accorgeva di essersi incamminata in un vicolo cieco. In molte occasioni avrebbe potuto rifiutare la “vocazione” impostale, ma venne sopraffatta dagli eventi, dalla insicurezza, e nondimeno dalla sfiducia nella propria libertà.

La meschina, troppo debole per affrontare le conseguenze di una disubbidienza al volere paterno, mente prima di tutto a se stessa, e poi agli altri, alle consorelle, alla badessa, e infine a quell’uomo “dabbene” che era il vicario, cioè il prete convenuto al monastero, come previsto dalla procedura, per confessarla e interrogarla sulle sue reali intenzioni di accettare i voti, la vestizione e la vita “lontana dalle insidie del mondo”.

Ecco cosa scrive il Manzoni nella sua bella prosa-poetica, dopo l’ennesimo assenso all’“iter autorizzativo” da parte dell’infelice ragazza: “Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre” (cap. X, I Promessi Sposi).

  Ecco, io non vorrei che con il Mega-porco commerciale avvenisse il medesimo dramma vissuto dalla sciagurata Gertrude: cioè che si dia corso a questa minchiata  economico-ecologica [scusatemi, ma in questo momento non mi viene un lemma più triviale di questo, ndr.], nonostante siano in pochi ormai (almeno spero) a credere agli asini che – ragliando a cento decibel di “ricadute” e “occupazione” - continuano imperterriti a volare sulle nostre teste.

Come ben saprete, tra i punti all’ordine del giorno del Consiglio Comunale di martedì 26 settembre 2017, al numero 5 leggiamo: “Piano Attuativo per la realizzazione di Area Commerciale Integrata no-food in contrada Cascioni. Proponente: PANTACOM s.r.l. – Approvazione nuova convenzione in sostituzione di quelle sottoscritte in data 24/04/2013 e 31/05/2017”.

Bene. Ora mi (e vi) pongo alcune domande.

Perché un’altra convenzione? Com’è che se ne cambiano ogni tre per due? Forse che le precedenti non andavano bene? È proprio necessario procedere all’approvazione di una novella convenzione in sostituzione delle passate, posto che in genere le successive son quasi sempre peggiorative per noi e migliorative per i richiedenti, cioè con meno oneri per loro e più diseconomie per il Comune di Galatina?

E se invece di approvarle si negassero, cosa succederebbe? Il finimondo? O, come diceva qualcuno, addirittura l’apocalisse (tipo quella paventata lo scorso dicembre in caso di vittoria del No al referendum di Renzi)?

A Galatina sono maestri nel ripetere un mantra che suona più o meno così: “Non c’è più nulla che si possa fare per bloccare il progetto del Megaparco perché tutti gli atti autorizzativi necessari sono stati rilasciati dalle precedenti amministrazioni”.

Se davvero così fosse, come si spiegherebbe la convocazione addirittura di un Consiglio Comunale per discuterne ancora? E non sarebbe a questo punto il caso di render noto all’intera cittadinanza l’elenco degli atti di qualunque natura relativi a codesta “definitiva” autorizzazione: sia quelli già rilasciati, che, eventualmente, quelli ancora mancanti?

E, giacché ci siamo, non sarebbe opportuno che questa nuova Amministrazione Comunale mostrasse chiari segni di discontinuità con le precedenti, anche sul tema del Mega-porco (visto che i propositi, le premesse, la buona volontà, la voglia di far bene sembrano esserci tutti)?

Ho sentito dire in giro, tra le altre cose, che il Consiglio Comunale “è tenuto ad approvare”, eccetera, eccetera. Coooosa? È questo il moderno concetto di Democrazia? Ma scusate: non è forse un Consiglio Comunale la massima assise cittadina, espressione della sovranità di un popolo stanziato su di un determinato territorio, l’organo di volontà e indirizzo politico di un Comune, per cui è libero di decidere in assoluta libertà quel che vuole (e dunque non è “tenuto” ad approvare proprio un bel nulla), nel rispetto delle leggi e della Costituzione?

E se davvero non ci fossero alternative, mi spiegate a cosa cavolo servirebbe un Consiglio Comunale? A ratificare forse quel che avrebbero deciso gli altri, o peggio ancora un funzionario a briglie sciolte il quale, magari in qualche conferenza dei servizi, ha stabilito che andava bene un centro commerciale senza alberi di alto fusto (sennò magari le radici sollevano l’asfalto e rompono le palle alle auto e ai Tir)? [questa mi pare di averla già sentita da qualche parte, ndr.].

E che razza di decisione è mai quella per la quale o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra? Ci sarebbero delle penali da sopportare, dite? E a carico di chi sarebbero queste penali? Del Comune, o di chi eventualmente avrebbe preso l’iniziativa “in nome del”, senza magari averne il mandato o, come si dice, in carenza o difetto di rappresentanza? E in questa seconda eventualità, non sarebbe appena il caso di accollarle al responsabile e non invece a tutta la collettività (responsabilità e penali, dico)?

E a chi dovrebbero essere pagate queste penali, alla Pantacom? Cioè alla società che, salvo errori od omissioni, è ancora “inattiva”? E cosa farebbero i signori di codesta società a responsabilità ridotta, l’attiverebbero giusto il tempo di incassare le penali? E, di grazia, di che importo sarebbero codesti indennizzi, posto che si tratti di esborsi monetari e non di fustigazioni sulla pubblica piazza? E se anche si dovessero sopportare spese per risarcimenti, non trovate che qualunque rifusione sarebbe comunque di gran lunga meno gravosa della pena di un Mega-porco a km zero? E perché mai non si prevede un indennizzo finalmente a favore del Comune se non altro per il danno derivante dall’enorme perdita di tempo e di energie dei suoi uffici, che, piuttosto che dar retta alle coglionate, avrebbero potuto pensare ai problemi reali di Galatina?    

Inoltre, invece di andare avanti con questa pantomima [vocabolo derivante giusto da Pantacom, ndr.], avete letto per caso in questi giorni (perfino sul Corriere della Sera, giornale tutt’altro che anticapitalista) della decisione della Provincia di Trento di bandire definitivamente i centri commerciali dal proprio territorio, al fine di “salvaguardare l’ambiente, ridurre il traffico veicolare, e rinnovare il metodo degli insediamenti commerciali sul territorio all’insegna della qualità e della valorizzazione dei piccoli esercizi”? No? Allora, per favore, informatevi bene prima di prendere decisioni irreversibili come quelle della monaca di Monza. 

E infine, lo sapete che negli Stati Uniti il mito del centro commerciale è crollato da tempo? E che gli Stati Uniti anticipano generalmente la nostra sociologia di circa un decennio? E che secondo molti analisti nei prossimi anni chiuderanno addirittura 400 dei 1100 centri commerciali statunitensi? Avete avuto per caso notizia dell’inchiesta del New York Times (non dell’Osservatore Nohano) che attesta che svariati Malls (centri commerciali) sono ormai alla stessa stregua di vere e proprie città-fantasma, deserte, vuote, fallite? Lo sapete che ci sono dei siti internet - come ad esempio il seguente http://deadmalls.com/ - con storie di centinaia di Malls chiusi, sedotti, abbandonati, morti e sepolti? A quando la costruzione e la redazione anche in Italia di un sito o un blog dello stesso tenore dal titolo “limortiloro.it”?

*  

Di questo passo Galatina farà la fine della monaca di Monza. E i danni non si ripareranno con una “cavita di conza”.

Antonio Mellone

 

Daria Colombo sarà ospite a Galatina, giovedi 19 novembre  presso la Sala Contaldo  del Palazzo della Cultura “Z. Rizzelli ” alle ore 19,00.

Daria Colombo, art director, giornalista, scrittrice,  ha dato vita al movimento dei Girotondi a livello nazionale ed è impegnata in numerose iniziative di solidarietà.

È sposata con Roberto Vecchioni, con il quale collabora da oltre vent’anni. Ha già pubblicato Meglio Dirselo (Rizzoli 2010), con cui ha vinto il premio Bagutta Opera Prima.

Durante l’incontro a Galatina,  a cura della Libreria Fiordilibro, presenterà il suo nuovo romanzo “ Alla nostra età con la nostra bellezza” Rizzoli,  in cui esplora nuovamente l’universo femminile.

 “Ho voluto raccontare – spiega Daria Colombo - una storia di sentimenti e amicizia tra due donne, una giovane ventenne e una trentottenne che frequentano l’università insieme e gradualmente, con alti e bassi, diventano amiche pur apparendo molto diverse, anzi proprio per questo si scambieranno molto. Ma è anche una vicenda di condivisione – prosegue – che si svolge sullo sfondo degli anni che vanno dal 1992 al 2007, un periodo significativo per l’Italia”.

Dialogherà con l’autrice, Sandra Antonica che del periodo preso in esame nel libro, è stata protagonista  di primo piano con la stessa passione di Daria Colombo e soprattutto grande lettrice .

Appuntamento a giovedì  19 novembre ore 19:00, presso la sala Contaldo del Palazzo della Cultura “Z. Rizzelli

Emilia Frassanito

 
Di Redazione (del 05/06/2017 @ 21:18:55, in Comunicato Stampa, linkato 1684 volte)

Martedì 6 giugno, ore 10, presso la Biblioteca comunale “P. Siciliani” di Galatina i volontari del Servizio Civile – progetto In Reading – in collaborazione con la società Libermedia organizzano la presentazione/spettacolo del nuovo romanzo dell’attore, regista e scrittore galatinese Fausto Romano “Anche i pesci hanno il mal di mare”.
Nello spettacolo/presentazione Romano – che si allontana ancora una volta dalle classiche presentazioni di libri – scherza, canta, parlando di questo “nuovo fenomeno sociale” che dice di aver scoperto: «L’hanno chiamato AMOR! E lo vogliono tenere nascosto perché fa paura, è pericoloso… è una sorta di virus, ti prende la tremarella, sudi, balbetti, non capisci più niente…»
Il romanzo, edito da Alter Ego, è infatti un racconto semiserio di un delirio passionale che vede come protagonista Bruno, scrittore squattrinato di ventisei anni, alle prese con una delusione d’amore; Gioia lo ha lasciato perché per lei era “troppo”. Per aiutarlo a superare questo trauma arrivano i consigli di un ventilatore cinico e misogino, e gli amici Max e Daniele che trascinano Bruno in feste anni Venti, sbornie, incontri con escort, gite fuori porta… Tutto questo in una Roma torrida che fa da scenario a quello che è il fatidico, ma indispensabile, passaggio da un’ultima adolescenza all’età matura.

SINOSSI

Ma i pesci possono avere il mal di mare? Razionalmente no, certo. Ma se soffrissero di mal d’amore? Allora sì, tutto è possibile quando la ragione si scontra con il sentimento. A Bruno, scrittore squattrinato di ventisei anni, accade proprio questo: Gioia l’ha lasciato perché per lei era “troppo” e ora lui non riesce a togliersela dalla testa. In suo soccorso arrivano i consigli di un ventilatore cinico e misogino e degli amici Max e Daniele che trascinano Bruno in feste anni venti, sbornie, incontri con escort, lavori saltuari, gite fuori porta… Tutto questo in una Roma torrida che fa da scenario a quello che è il fatidico, ma indispensabile, passaggio da un’ultima adolescenza all’età matura.

Racconto semiserio di un delirio passionale, questo di Fausto Romano è un libro ironico, dolce e intelligente, da leggere tutto d’un fiato, per divertirsi e riflettere tra le righe. Una storia per chi, almeno una volta nella vita, non ha sofferto di mal d’amore. O di mal di mare

 

 FAUSTO ROMANO, (Galatina, 1988) si diploma in recitazione presso l'Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” a Roma. Nel novembre 2011 è vincitore del “Premio SIAE” con lo spettacolo “Andare a Teatro” di K.Valentine e premiato a Roma da Andrea Camilleri. È protagonista della trasmissione Rai “Guardami” sui nuovi talenti italiani, e collabora col regista Emanuele Crialese. In teatro, lavora nelle commedie “Rumori fuori scena” e “La pulce nell’orecchio” e nel musicall sul tenore Tito Schipa. È autore di diverse sceneggiature e di due romanzi: “Grazie per aver viaggiato con noi” (Lupo Editore) e "Anche i pesci hanno il mal di mare" (Alter Ego Edizioni).

Scrive, dirige e interpreta il cortometraggio “CRATTA – coprodotto da Apulia Film Commission – e vincitore di numerosi premi, tra cui il Premio Fellini e il Premio Dino De Laurentiis.

È vincitore del bando MigrArti del MiBact con il cortometraggio “La Giraffa senza gamba” da lui scritto e diretto.

 
Di Albino Campa (del 23/03/2011 @ 21:15:36, in Musicando pensieri, linkato 4004 volte)

Ai tempi della sua prima uscita, “Il giorno della civetta”, romanzo breve di Leonardo Sciascia, fece grande scalpore nella sua Sicilia e in tutta Italia. Era la prima volta che un letterato si occupava di mafia. Ancora oggi però, rileggendolo, si scopre che poco o niente è cambiato: la si combatte tutt’oggi la mafia, ma a differenza di allora, sembrano essere aumentati coloro che denunciano con convinzione questa piaga sociale.

 Non è facile parlarne, questo dobbiamo riconoscerlo e immedesimarci una volta tanto in scrittori come Sciascia, che pur trovando il coraggio di portare alle stampe la sua opera scrive ai suoi lettori in una nota: “Non mi sento eroico al punto da sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio; non mi sento di farlo deliberatamente. (…) perciò mi sono dato a cavare, a cavare. (…) è scomparso qualche personaggio, qualche altro si è ritirato nell’anonimo, qualche sequenza è caduta. Può darsi che il racconto ne abbia guadagnato. Ma è certo, comunque, che non l’ho scritto con quella piena libertà di cui uno scrittore dovrebbe sempre godere”.

 

 Ad accompagnare la lettura di una sequenza memorabile del racconto di Sciascia, la colonna sonora del film “Il padrino” del maestro Ennio Morricone.
       
 - Gli uffici fiscali, a quanto vedo, non sono la sua preoccupazione.

- Non mi preoccupo mai di niente – disse don Mariano.

- E come mai?

- Sono un ignorante; ma due o tre cose che so, mi bastano: la prima è che sotto il naso abbiamo la bocca: per mangiare più che per parlare…

- Ho la bocca anch’io, sotto il naso – disse il capitano – ma le assicuro che mangio soltanto quello che voi siciliani chiamate il pane del governo.

- Lo so: ma lei è un uomo.

- E il brigadiere? – domandò ironicamente il capitano indicando il brigadiere d’Antona.

- Non lo so – disse Don Mariano squadrando il brigadiere con molesta, per il brigadiere, attenzione.

- Io – proseguì don Mariano – ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…

- Anche lei – disse il capitano con una certa emozione. E nel disagio che sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia, a giustificazione pensò di aver stretto le mani, nel clamore di una festa della nazione, e come rappresentanti della nazione circonfusi di trombe e bandiere, al ministro Mancuso e all’onorevole Livigni: sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere uomo. Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro e informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi e dei rapporti umani. E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida?

- Perché sono un uomo: e non un mezz’uomo o addirittura un quaquaraquà? – domandò con esasperata durezza.

- Perché – disse don Mariano – da questo posto dove lei si trova è facile mettere il piede sulla faccia di un uomo: e lei invece ha rispetto… Da persone che stanno dove sta lei, dove sta il brigadiere, molti anni addietro io ho avuto offesa peggiore della morte: un ufficiale come lei mi ha schiaffeggiato; e giù, nelle camere di sicurezza, un maresciallo mi appoggiava la brace del suo sigaro alla pianta dei piedi, e rideva… E io dico: si può più dormire quando si è stati offesi così?

- Io dunque non la offendo?

- No: lei è un uomo – affermò ancora don Mariano.

- E le pare cosa da uomo ammazzare o fare ammazzare un altro uomo?

- Io non ho mai fatto niente di simile. Ma sei lei mi domanda, a passatempo, per discorrere di cose della vita, se è giusto togliere la vita a un uomo, io dico: prima bisogna vedere se è un uomo…

Il giorno della civetta, Leonardo Sciascia, Adelphi, pp 137

Il testo è reperibile, oltre che in tutte le librerie, anche nella Biblioteca civica “P. Siciliani” di Galatina e nelle Biblioteche scolastiche del Liceo Scientifico “A. Vallone” e del Liceo Classico “P. Colonna” di Galatina.

 
Michele Stursi

 

 

La nuova stagione letteraria della libreria Fiordilibro riprende il 29 ottobre con la presentazione di quello che si sta rivelando come l’evento letterario dell’anno: il  nuovo libro di Luisa Ruggio “Teresa Manara” per le Edizioni Besa Controluce.

L’incontro si svolgerà nella splendida cornice dell’Amarcord Wine bar di Galatina alle ore 19.00.

  “Ci sono solo due tipi di momenti, Teresa. Quelli da ricordare. E quelli da dimenticare. Così mi diceva sempre mia madre. E io non la capivo. Dov’era il trucco, l’insegnamento? L’istante dopo smettevo di pensarci, andavo a controllare il nido delle upupe, mi acquattavo tra i cespugli di erba strega che minacciavano di inondare il nostro giardino. (…) durante il mio primo addio ci ho fatto caso: entrambi quei momenti sono senza ritorno.”
 
Teresa Manara è una storia ambientata nel Sud Italia del 1950, dedicata al mondo dei sensali che all’epoca si spingevano nel Salento in cerca del miglior vino sfuso da imbottigliare al Nord e raccontato per la prima volta dal punto di vista di una giovane donna che decide di lasciare Imola per trasferirsi in una terra di frontiera ancora superstiziosa e magica.

Dialogherà con Luisa Ruggio, Mauro Marinodel Fondo Verri e direttore di Spagine, Alessandra De Paolis  giovane attrice galatinese, leggerà alcuni brani del libro, Donatello Magnoloci farà rivivere le atmosfere degli anni cinquanta  eseguendo degli intermezzi musicali con il sax.

Sarà presente anche Paolo Cantele, appena tornato dal Giappone dove ha fatto conoscere attraverso l’ eccellenza dei suoi vini, anche quella di una terra, quella salentina, costruita anche da uomini e nel nostro caso da donne visionarie  come Teresa Manara, che hanno avuto la capacità di veder lontano ed hanno scommesso su una terra allora considerata “alli scuffundi “. Una terra che non era certo il Salento diventato il  brand di moda degli ultimi anni, ma che quel brand l’hanno costruito per noi, con anni di duro lavoro, sacrifici e passione. 

Grazie Luisa( Ruggio) per averci fatto conoscere Teresa Manara altrimenti rimasta confinata nei ricordi  delle persone a lei più care, grazie per averci condotto in questo viaggio nell’Italia degli anni cinquanta ed averci restituito il significato originario di alcune parole di cui avevamo perso la memoria.

A chiusura dell’ incontro le Cantine Cantele offriranno una degustazione dei loro vini.

Luisa Ruggio (1978), giornalista e scrittrice di origini pugliesi, ha pubblicato saggi sul cinema e la psicoanalisi. Il suo romanzo d'esordio, "Afra" (Besa, 2006), ha vinto cinque premi letterari. Dopo il suo secondo romanzo, "La nuca" (Controluce, 2008), ha pubblicato la raccolta di racconti brevi "Senza storie", (Besa, 2009) Menzione Speciale del "Premio Bodini 2010". Suoi articoli sono apparsi su quotidiani e riviste letterarie, è autrice di numerosi reportage dedicati al Salento per i quali ha ricevuto il "Premio Skylab 2011" Sezione Giornalismo e Cultura (Università del Salento) e la menzione speciale del Premio “Terra D’Arneo 2013”. Dal 2006 aggiorna il blog dedicato alla scrittura "Dentro Luisa": www.luisaruggio.blogs.it

Emilia Frassanito
 

Nuovi e terribili eventi sembrano sgorgare dalla contrapposizione tra Oriente ed Occidente, tra Cristiani e Islamici, tra Nord e Sud del mondo. I fatti di Parigi, terribili e raccapriccianti sono solo la punta dell’iceberg, in questo mondo in cui interessi ed affari, religione e potere sono in lotta perenne, ecco arrivare un libro ” Il giuramento del Falco ” Armando Siciliano editore che ci racconta i particolari dell’eterna lotta fra bene e male. Un libro scritto da Giampiero Khaled Paladini che racconta la genesi dell’Università Islamica e che a detta dello stesso autore è una pietra miliare nella lotta all’indipendentismo siciliano. Mafia, politica, massoneria, esoterismo, logge segrete, servizi deviati, economia e la grande finanza internazionale muovono nel profondo e nel segreto, misteri, intrecci, amori, sesso, potere e sullo sfondo un Italia meridionale ancora al centro del mediterraneo, dove le primavere arabe non hanno cambiato se non in peggio la situazione economica e sociale da una riva all’altra del mar mediterraneo. La Sicilia ancora contesa, mossa da intrighi internazionali e da una forte spinta separatista. Un romanzo che si occupa anche del terribile momento dell’Africa grembo madre del nostro pianeta, della forza spirituale di uno sciamano che mette il protagonista in contatto con l’anima di Federico II lo “Stupor Mundi”, che entra e guida lo spirito del protagonista verso una nuova indipendenza dall’Italia, dagli americani. Il terribile MUOS, che deforma ed uccide i bambini di Niscemi. Un raffronto da non perdere per capire ancora di più il mondo che viviamo con le sue contraddizioni ed i suoi mille segreti inconfessabili. L’università Popolare Aldo Vallone di Galatina vi invita venerdi 30 gennaio 2015 alle ore 18, presso il palazzo della Cultura ( Museo Civico ) per un appuntamento con i fatti della storia attuale. A raccontare i mille segreti e le uniche verità sul progetto dell’Università Islamica a Lecce, Giampiero Khaled Paladini, affiancato da Raimondo Rodia che converseranno dei tanti temi della trilogia che si chiude proprio con ” Il giuramento del Falco “. Giampiero Khaled Paladini nato a Magliano in provincia di Lecce nel 1957, oggi vive in Sicilia a Giardini Naxos, nel 2012 si è convertito all’Islam, nella vita è presidente di CONFIME Confederazione Imprese Mediterranee e guida una lobby di imprenditori italiani ed esteri, nata per creare sempre nuove ed accattivanti opportunità di business in tutti gli angoli del mondo.

Raimondo Rodia

 
Di Antonio Mellone (del 15/03/2015 @ 21:09:19, in NohaBlog, linkato 3895 volte)

Gentile Daniela Sindaco,

in qualità di cittadino di Noha avrei bisogno di alcune informazioni in merito al romanzo comunale che ha per oggetto la vecchia scuola elementare di Noha di piazza Ciro Menotti ristrutturata ma anche no (per via di una cabina elettrica dal sen fuggita, anzi dal senno sfuggita). La quale scuola, dico, invece di diventare centro culturale polivalente, com’era nelle iniziali intenzioni del pubblico investitore, sembra essersi trasformata in un centro pollivalente, (nel senso di pollaio, con l’aggiunta di oche starnazzanti a destra e a manca).

Intanto volevo chiederti se avessi notizie di prima mano in merito al reale stato del cantiere di quell’edificio scolastico, soprattutto riguardo al famoso allaccio alla rete elettrica con i (sembra) necessari 50 kw in grado di mettere finalmente in funzione ascensore, apparecchiatura fotovoltaica (sai, per ammortizzare i costi della struttura) e soprattutto impianto di riscaldamento e condizionamento dell’aria (il che ci eviterebbe - per esempio nei pubblici convegni con interventi di relatori e/o pubblico anche esterni – oltre al freddo e al caldo, a seconda, altresì la solita figura da paese del terzo mondo). Sul tema potresti chiedere lumi, diciamo così, al tuo compagno di partito (o dipartito), al secolo ing. Andrea Coccioli, meglio noto come l’assessore del fare (ma soprattutto del dire).

*

Cara Delegata, non so gli altri nohani, ma io sono stanco di leggere, e da tempo, cronache poco edificanti sul conto di Noha, dei suoi rappresentanti, dei suoi immobili pubblici utilizzati come dependance di case private, manco fosse scritto nello statuto di quella struttura a mo’ di primo comandamento: ricordati di privatizzare le feste (socializzandone i costi).

Insomma: è vero quel che si vocifera e si scrive in giro? O è sempre e solo frutto di “strumentalizzazione politica” (alibi perfetto per ogni occasione)? Pensi che questa telenovela nohana avrà fine un dì, oppure si andrà avanti come al solito continuando a farci del male? Quali sono eventualmente le tue idee o quelle del tuo gruppo politico per questo centro culturale (che invero sembra nato male per finire peggio)? E’ dato conoscere il bilancio, o almeno i costi annui per il mantenimento della struttura? Non è che come al solito è tutto top secret ovvero non si ha la più pallida idea su come muoversi d’ora in avanti? E cosa dice o addirittura pensa Mimino Montagna nostro in merito alla vexata quaestio?

*

Nell’attesa di una risposta, possibilmente scritta (da pubblicare su questo sito), mi auguro che almeno i trenini che immagino si faranno nelle feste private al polivalente di Noha (magari con tanto di ritornello inneggiante a “Brigitte Bardot Bardooot”)non abbiano tutte ma proprio tutte le caratteristiche dei trenini de “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, quelli per i quali Toni Servillo, nei panni del giornalista Jep Gambardella, soleva dire: “So' belli i trenini che facciamo alle nostre feste, so' i più belli di tutta Roma. [...] So' belli. So' belli perché non vanno da nessuna parte”.

Antonio Mellone
 
Di Redazione (del 16/02/2015 @ 21:08:59, in NohaBlog, linkato 6345 volte)

Gli amici di Facebook ci hanno segnalato  questo bellissimo articolo di Alessandro Romano sulle nostre Casiceddhre. La loro fama inizia finalmente a varcare i confini "provinciali". Buona lettura.

C’è un luogo singolare, nascosto sul cornicione di una casa qualunque, a Noha, periferia di Galatina, piccolo centro ricco di tante peculiarità. Di solito nessuno alza mai lo sguardo, quando arriva a quell’incrocio, così questo luogo resta poco noto alla maggioranza dei turisti, ma anche dei salentini. Si tratta delle “casiceddhre”, le chiamano proprio così.

Poste in questo angolo sconosciuto, silenziose, piccole, con un campanile che a stento supera il metro e mezzo di altezza, queste case in miniatura, che una mente allegra e minuziosa concepì alla fine del XIX secolo, reggono ancora a stento il passare del tempo.

noha

Pare che il loro costruttore sia stato un certo Cosimo Mariano, un nome che fra l’altro è inciso nell’angolo di una piccola casa, ma di lui si sa ben poco, anche se dei talenti di Noha ci hanno scritto un romanzo e interi libri di storia locale citando questo luogo.

noha

Quello che sorprende di queste casette in miniatura è l’incredibile maestria con cui sono stati realizzati i particolari, gli intonaci, i balconi, tutto come in una casa reale!

Le casiceddrhe di Noha

Questo balcone qui sopra, per esempio, a concepirlo dal vero richiederebbe un bell’impegno!

noha

Sembra rappresentato un piccolo centro storico di una cittadina qualunque del Salento, con la guglia e i palazzi nobiliari.

le casette di noha

Non mancano gli elementi in stile gotico, quelle cuspidi poste in alto, che tendono a slanciare la costruzione verso il cielo…

noha

…o i particolari arabeschi, come questa finestra…

noha

L’interno delle casette è incredibilmente realistico, viene da chiedersi come abbia fatto il buon Cosimo!

noha

Purtroppo, da diversi anni, le casette versano in uno stato sempre peggiore. Avrebbero bisogno di cura e restauro, allo stesso grado d’amore dell’artigiano che le costruì, tanto tempo fa…

noha

Comunque, non sono le uniche, nel Salento. All’interno della storica Masseria Brusca, in agro di Nardò, ce n’è un altro esempio. Anche questo è storico, risale ai primi del 1900, e pare sia stato realizzato dal figlio del padrone di casa, unico figlio maschio. Per tenerlo al riparo dai pericoli, i suoi genitori gli chiesero di riprodurre la Masseria stessa, in miniatura, e così lo distrassero molto!

 Alessandro Romano

 
Di Redazione (del 25/10/2019 @ 20:49:26, in Comunicato Stampa, linkato 1096 volte)

Al via il tour del romanzoNinnanò” (Alter Ego Edizioni) di Fausto Romano, scrittore, attore e regista, che farà tappa insieme al suo terzo romanzo in più di venti città italiane.
Prima tappa di questa presentazione-spettacolo sarà Galatina, città natale del regista, domenica 27 ottobre alle ore 19.30 presso l’Ex Complesso Monastico delle Clarisse, Piazza Galluccio. La serata, organizzata dal comune di Galatina nell’ambito della rassegna letteraria “Dammi una L”, verrà introdotta dal sindaco Marcello Amante e dall’Assessore alla Cultura Cristina Dettù.

Dopo Grazie per aver viaggiato con noi (Lupo Editore), Anche i pesci hanno il mal di mare (Alter Ego Edizioni), Ninnanò sfrutta gli stilemi del giallo per parlarci di altro. Dietro un caso di rapimento in un paese di provincia, si nascondono i temi più forti e problematici della società contemporanea: le potenzialità distruttive dei social, le conseguenze di un successo immediato e insperato, la distanza abissale e al contempo invisibile che separa la vita pubblica da quella privata. Un romanzo sulle infinite potenzialità del riscontro collettivo, e sugli effetti paradossali e imprevedibili del dolore esibito.

A impreziosire la serata ci sarà anche il cantautore Renato Saracino, uno dei partecipanti al contest musicale #ArrangiaNinnanò che ha coinvolto numerosi cantanti e musicisti che hanno arrangiato e cantato la ninna-nanna presente nel romanzo, appunto la Ninnanò. Gli artisti hanno realizzato un filmato pubblicandolo sulle pagine social del romanzo; quello che riceverà più like diventerà la Ninnanò ufficiale. Il contest è ancora aperto e tutti coloro che parteciperanno potranno avere la possibilità di seguire l’autore nel tour.

 

Pagine social:

www.facebook.com/ninnanoromanzo

www.instagram.com/ninnanoromanzo  

Ufficio Stampa - Marcello Amante

 
Di Redazione (del 06/12/2021 @ 20:14:36, in Comunicato Stampa, linkato 531 volte)

Martedì 14 e giovedì 16 dicembre, ore 10, presso il Palazzo della Cultura “Z.Rizzelli” di Galatina i volontari del Servizio Civile - progetto In Reading 2019 - organizzano la presentazione del nuovo romanzo del cantautore e scrittore Simone Perrone aka Blumosso, "Schiena Cucita".

L’artista, allontanandosi dalle classiche presentazioni di libri, interagisce con il pubblico unendo il mondo della musica e della scrittura e parlando attraverso il suo libro della falsità, della paura della verità e dell’assenza di dialogo che portano alla distruzione delle relazioni.

 Il romanzo, edito da Casa Editrice Kimerik, ha come punto focale la contrapposizione tra  sentimento e follia che sono spesso molto vicini e il confine è talvolta così labile da non riuscire a contenerne i margini. Succede quindi che le emozioni si mischiano, si confondono senza più essere riconoscibili.
Una contrapposizione tra morte e vita, amore e odio, razionalità e follia, paura e determinazione.
Un romanzo accattivante che svela al lettore le sue intenzioni sapientemente.

Volontari del Servizio Civile Universale del Progetto InReading2019 

 

Catena Fiorello, torna a Galatina con Libreria Fiordilibro, Giovedì 28 febbraio ore 18,00 presso lo Chalet del Bar delle Rose per presentare il suo nuovo romanzo  Tutte le volte che ho pianto  per Giunti Editore. Catena Fiorello ama definirsi  “cuntastorie”  e cosi è, come poche sa raccontare storie, di vita e di donne straordinarie in cui nelle varie fasi della vita, ognuna si può riconoscere.

 Tutte le volte che ho pianto è un romanzo appassionato ed emozionante, sulla forza di ricominciare,  sulle seconde possibilità, per chi non ha mai smesso di credere nella vita e nell’amore nella sua accezione più ampia. La protagonista è Flora proprietaria di un bar a Messina. Nell'autunno tiepido di una Messina dalle spiagge ormai deserte, Flora corre ogni mattina sul bagnasciuga. Una disciplina che le dona calma, adesso che, a quasi quarant'anni, sta cercando di riprendere le redini della sua vita. Il matrimonio con Antonio è andato in frantumi, eppure Flora non riesce a dimenticarlo e vacilla ogni volta che lui torna a corteggiarla, alimentando le illusioni della figlia Bianca. Con un bar da gestire, una madre anziana che non ha mai superato la morte del marito e, soprattutto, la perdita della sorella maggiore Giovanna, la vita di Flora è già abbastanza complicata. Ma a scombinare ulteriormente le carte, un giorno arriva Leo, con la sua aria da James Dean e un passato che lo lega a quei luoghi. E con i suoi modi affascinanti, si insinua pericolosamente nei pensieri di Flora...

 Letture affidate a Maria Margherita Manco.

Catena Fiorello, autrice siciliana torna in libreria con il suo nuovo romanzo, Tutte le volte che ho pianto (Giunti). Dopo, Nati senza Camicia (Dalai),  Picciridda (suo esordio pubblicato nel 2006 da Baldini e Castoldi e ripubblicato da Giunti), da cui è stato tratto un film, Casca il mondo, casca la terra e Un padre è un padre (entrambi per Rizzoli) e L’amore a due passi (Giunti), Un amore fra le stelle( Baldini e Castoldi).

Emilia Frassanito  

 

Manuel e Marco partono per un viaggio in Turchia dove vivranno un’esperienza ben oltre la semplice vacanza lontana dalle rispettive mogli. S’imbatteranno infatti in un mondo completamente diverso da quello Occidentale, dove avranno modo di entrare in contatto con una Istanbul segreta, sconosciuta alla maggior parte dei turisti, con le sue contraddizioni, con la sua cultura e la sua storia. 
In un precipitarsi degli eventi, Manuel si troverà coinvolto in una storia che affonda le sue radici nel fondamentalismo islamico: scoprirà infatti che Fatima, una giovane ragazza conosciuta in un locale che è una sorta di limes, di confine tra ciò che è la vita di tutti i giorni e quella sotterranea, lontana dagli occhi della gente, è stata reclutata per compiere un attacco kamikaze.
Con l’aiuto di Ermes, enigmatica e ambigua figura che si presenta come un importante uomo d’affari tedesco, e Viola, una ex fiamma di Manuel, riuscirà a sottrarla al suo destino di morte.

Carlo Sindaco. Nato vicino Varese, da oltre vent’anni vive in un paesino in provincia di Lecce. Impiegato, è sposato con Annalisa con cui ha avuto un bimbo di sei mesi. Ha pubblicato una raccolta di poesie - scritte in età giovanile - sul portale di UniLibro dal titolo “Liquidi in Eccesso”, e un breve racconto titolato “Risvegli”, inserito in una raccolta edita da Letteratura Horror.it. Carlo coltiva numerosi interessi: dalla Letteratura alla Filosofia, dalla Scienza al Gaming competitivo, dal Calcio giocato al Design Industriale, Sociologia della comunicazione, Informatica ed elettronica, musica, cinema e attività culturali in genere.

Arci Levèra Noha

 

Venerdì 24 novembre sarà una giornata speciale perché lo scrittore, doppiatore, coach e scout letterario Leonardo Patrignani farà tappa a Galatina per il tour di presentazione del suo ultimo thriller, "La Cattedrale di Sabbia".

Per tutti coloro che avranno il piacere di farsi trasportare in un futuro possibile, sospeso tra realtà virtuali immersive, memoria e inganno, l'appuntamento è alle 19:00 allo Chalet delle Rose, insieme a Leonardo, alla bravissima scrittrice Elisabetta Liguori, moderatrice dell'incontro, e alla impeccabile supervisione della Libreria Fabula.

Sempre venerdì, ma durante la mattinata, Leonardo Patrignani farà tappa nelle scuole, per un utilissimo workshop di due ore di scrittura creativa, dal titolo: "Il viaggio dell'Eroe spiegato a ragazzi e ragazze". Prima nella scuola secondaria di primo grado "Giovanni XXIII" di Galatina, e poi in quella di Taviano, Leonardo Patrignani svelerà il dietro le quinte della costruzione delle storie.

Dalla struttura narrativa agli archetipi, passando attraverso esempi presi dal mito, dall'epica, fino ad arrivare alle storie di oggi che i ragazzi conoscono e amano (Harry Potter, Avengers, film Pixar etc). Per scoprire che si è tutti piccoli sceneggiatori quando si scrive un tema in classe, si racconta un episodio agli amici, si parla delle vacanze appena finite. E che ci sono regole valide sin dai tempi di Aristotele, e un'impalcatura invisibile dietro la costruzione di qualsiasi storia, che sia un film, un romanzo, un fumetto.

Indubbiamente l'ennesima conferma dell'attenzione che la Dirigente Rosanna Lagna con la coordinatrice Prof.ssa Paglialonga e tutto il team di insegnanti riservano al tema dell'importanza dello storytelling per i ragazzi e le ragazze.

Uno speciale ringraziamento va ovviamente ai preziosissimi partner che hanno reso possibili queste iniziative culturali: il Gruppo Gaetani, lo Studio odontoiatrico della dott.ssa Sandra Antonica, il ristorante Terra di Lecce e il ristorante pizzeria Zona Franca di Galatina.

A venerdì!

 Marco De Matteis

 
Di Redazione (del 23/10/2021 @ 19:10:30, in Comunicato Stampa, linkato 794 volte)

Dopo numerosi e opportuni lavori di ristrutturazione e un processo partecipato di sensibilizzazione della cittadinanza che ha coinvolto associazioni, istituzioni, scuole e operatori del settore, torna agibile il prestigioso Teatro Cavallino Bianco di Galatina (Le) con la cerimonia inaugurale che si terrà sabato 13 novembre alle ore 10.30 (prenotazione obbligatoria) e un ricco e qualificato programma di spettacoli sostenuto da Ministero della Cultura, Regione Puglia e Città di Galatina col sindaco Marcello Amante.

Si riparte con la consapevolezza del teatro come bene pubblico, come bene comune, risorsa importante per il riscatto culturale, sociale ed economico di una città depositaria di un patrimonio culturale invidiabile (Galatina è culla del tarantismo, città ricca di beni culturali come la Basilica di Santa Caterina, di eccellenze enogastronomiche).

Anche il programma degli spettacoli impaginato dall’associazione OTSE (Associazione Theatrikès Salento Ellada) diretta da Pietro Valenti, già direttore di Emilia Romagna Teatro, nell’ambito di un progetto speciale finanziato dal Ministero della Cultura, in partnership col Comune di Galatina, Regione Puglia e AMA-Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce, diretta da Franco Ungaro, è coerente con una visione di teatro pubblico di prossimità, vicino ai bisogni della comunità e dei più giovani e al profilo che il Cavallino Bianco ha sempre avuto come ‘Teatro di tutti’.

Un progetto che coinvolgerà gli studenti degli Istituti scolastici Superiori in attività di alternanza scuola-lavoro, attività laboratoriali e incontri con gli artisti ospiti.

L’intenso e articolato programma propone in esclusiva regionale e nazionale spettacoli di alto profilo artistico con la presenza di riconosciuti protagonisti della scena culturale e teatrale, come Marco Baliani, attore, drammaturgo, regista teatrale e scrittore tra gli inventori del teatro di narrazione, che propone una sua versione del Rigoletto di Verdi, lo stesso titolo con cui nel 1949 venne aperto il Cavallino Bianco. Baliani sarà in scena sabato 13 novembre alle ore 21.

Seguiranno gli appuntamenti con: Virgilio Sieni, danzatore e coreografo, inventore di una gestualità rituale, poetica ed evocativa col suo omaggio a Dante Alighieri (16 novembre); la compagnia di operette di Corrado Abbati con Sul bel Danubio blu (17 novembre); Daniel Pennac, noto al grande pubblico per i suoi romanzi di straordinario successo che hanno per protagonisti Benjamin Malaussène, la sua squinternata famiglia e il quartiere parigino di Belleville (19 novembre); Gabriele Lavia, una delle colonne portanti del teatro italiano, che al Cavallino Bianco porterà il suo recital su Leopardi (20 novembre); Nicoletta Manni, originaria di Santa Barbara di Galatina, dal 2014 prima ballerina del Teatro alla Scala di Milano che si esibirà insieme a Timofej Andrijasenko e al Maestro Luigi Fracasso (21 novembre); Mariangela Gualtieri, tra le più apprezzate poetesse italiane (25 novembre); Gino Castaldo, con le sue Lezioni di rock e gli omaggi a David Bowie e Franco Battiato (26 novembre )

Di rilevante impatto e riconoscibilità artistica saranno la nuova creazione di Fredy Franzutti, Haribaírg, con le allieve e gli allevi delle scuole di danza di Galatina, Ballet studio e Oistros balletto (23 novembre); lo spettacolo di Roberto Piumini, Mattia e il nonno, con Ippolito Chiarello e la regia di Tonio De Nitto (28 novembre); gli spettacoli rivolti alle famiglie e ai ragazzi Biancaneve, la vera storia con la regia di Michelangelo Campanale e la produzione del Crest di Taranto (14 novembre); l’attore e scrittore Fausto Romano, originario di Galatina e proiettato sulla scena internazionale col suo lavoro L’eterno riso (30 novembre)

 

Programma

IL FUTURO È ADESSO

13 novembre ore 10.30

Cerimonia inaugurale del Cavallino Bianco di Galatina

Nel corso della cerimonia si esibirà il corpo bandistico “San Gabriele dell’Addolorata” di Noha- Galatina diretta dal m° Loredana Calò

13 novembre ore 21

RIGOLETTO: LA NOTTE DELLA MALEDIZIONE

Marco Baliani con

Giampaolo Bandini chitarra

Cesare Chiacchiaretta fisarmonica

Musiche di Giuseppe Verdi, Nino Rota, Cesare Chiacchiaretta

Produzione Società dei Concerti di Parma

In collaborazione con Teatro Regio di Parma

Rigoletto è un monologo, quindi per farlo c’è bisogno di un personaggio in carne e ossa, spirito e materia. Poter rivestire per una volta la pelle di un altro e starci dentro dall’inizio alla fine: è una gioia particolare per me che in scena da narratore non ho mai la possibilità di calarmi interamente nelle braghe di chicchessia, sempre devo stare vigile a controllare e dirigere l’intero svolgersi della vicenda. La proposta fattami dal Teatro Regio di Parma di occuparmi, a mio modo, di una “rilettura” di un’opera di Verdi, la potevo facilmente risolvere con un bel reading, lettura più musica e via così. Mi son detto però  che era l’occasione buona per osare un personaggio e incarnarlo, dopo tanto tempo, tornare a mettere mano a tutte le cose che ho imparato strada facendo sul mestiere antico dell’attore e provare a costruirci sopra un testo scritto, un bel canovaccio su cui giorno dopo giorno, provando, creare un dire per niente letterario, ma concreto, materico. Compreso il trucco in faccia e il costume preso in prestito nei depositi del teatro Regio, appartenuti ai tanti Rigoletti passati da quelle parti.  Poi c’è stata la mia passione per gli esseri del circo, ma quei circhi piccoli, non eclatanti, non amo i “soleil” circensi fatti di effetti speciali e artisti al limite della robotica per la bellezza scultorea e bravura millimetrica del corpo. No, preferisco la rozzezza faticosa ma meravigliosa di quei circhi dove chi strappa i biglietti te lo ritrovi dopo vestito da pagliaccio e il trapezista sa anche fare giocolerie, esseri nomadi, zingarescamente affamati di vita, mi prende uno struggimento totale quando varco quei tendoni, a percepire la fatica quotidiana di un vivere precario ma impeccabile. Volevo fare un omaggio alle cadute, alle sospensioni, alle mancanze di appoggi.

Marco Baliani

 

14 novembre ore 17.30

Testo, regia, scene e luci Michelangelo Campanale

con Catia Caramia, Maria Pascale, Luigi Tagliente

costumi Maria Pascale

assistente alla regia Serena Tondo

 tecnici di scena Walter Mirabile e Roberto Cupertino

produzione Crest, vincitore Eolo Award 2018 e premio Padova 2017 – Amici di Emanuele Luzzati.

L’ultimo dei sette nani diventa testimone dell’arrivo di una bambina coraggiosa, che preferisce la protezione del bosco sconosciuto allo sguardo, conosciuto ma cupo, di sua madre. Una madre che diventa matrigna, perché bruciata dall’invidia per la bellezza di una figlia che la vita chiama naturalmente a fiorire. Nel bosco Biancaneve aspetta come le pietre preziose che, pazienti, restano nel fondo delle miniere, fino a quando un giorno saranno portate alla luce e potranno risplendere di luce propria ai raggi del sole.

Tutti i bambini conoscono già questa fiaba, lo spettacolo del Crest li vuole portare per mano “dietro le quinte” della storia, lì dove prendono forma e vita i personaggi, i loro sentimenti e le loro azioni, talvolta buoni e talvolta cattivi, quasi mai sempre buoni o sempre cattivi. Proprio come uno spettacolo: un po’ comico, un po’ emozionante; o come la vita che impariamo ad affrontare: un po’ dolce, un po’ irritante, un po’ divertente, un po’ inquietante, un po’.

Con questo lavoro continua il progetto che il Crest condivide con l’immaginario di Michelangelo Campanale – ricordiamo “La storia di Hansel e Gretel” (2009) e “Sposa sirena” (2012) – per raccontare ai ragazzi storie che riescano ad emozionarli davvero, senza edulcoranti e senza bugie, ma solo con grande rispetto della loro capacità di comprendere ed elaborare pensieri e opinioni in autonomia, semplicemente sulla strada della crescita.

16 novembre ore 21

PARADISO

Regia, coreografia e spazio  Virgilio Sieni
musica originale Paolo Damiani
interpreti Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Giulio Petrucci

costumi Silvia Salvaggio
luci Virgilio Sieni e Marco Cassini
allestimento Daniele Ferro
produzione Comune di Firenze, Dante 2021 comitato nazionale per le celebrazioni dei 700 anni in collaborazione con fondazione teatro Amilcare Ponchielli – Cremona

Il Paradiso di Dante ricompone il corpo secondo una lontananza che è propria dell’aura, un luogo definito dal movimento, da ciò che è mutevole. Un viaggio che si conclude nello spazio senza tempo della felicità.

Dante non è un flâneur, viaggiatore della notte alla ricerca di se stesso nelle pieghe infernali della città; né un wanderer, viandante immerso negli abissi della malinconia e letteralmente risucchiato dai paesaggi emozionali; né un passeggiatore scanzonato, come ci indica divinamente Petrarca, cioè un camminatore che tiene lontani i pensieri invadenti e si sospende nell’ “errabondare tra le valli”. È un cammino dall’umano al divino, dal tempo all’eterno. Lo spettacolo è la costruzione di un giardino e non riporta la parola della Divina Commedia, non cerca di tradurre il testo in movimento ma si pone sulla soglia di una sospensione, cerca di raccogliere la tenuità del contatto e il gesto primordiale, liberatorio e vertiginoso dell’amore. Danza dialettale che si forma per vicinanze e tattilità.

Nella prima parte la coreografia è costruita per endecasillabi di movimenti dove i versi della danza ritrovano il risuonare della rima da una terzina all’altra. Questo continuo manipolare, accarezzare e pressare lo spazio invisibile intorno ai corpi edifica un continuum di terzine sillabiche del gesto: una maniera umile per porsi nei confronti della loro magnificenza geometrica, matematica e cosmica. Allo stesso tempo il gesto scaturisce da una ricerca sullo spazio tattile e sull’aura della persona.

Nella seconda parte tutto avviene cercando nel respiro delle piante la misura per costruire un giardino quale traccia e memoria dei gesti che lo hanno appena attraversato. La coreografia è costruita portando, sollevando e depositando le piante nello spazio. Le piante, la cosa alta, restituiscono il vero senso della danza, la lingua penultima: dialettale e popolare, in grado di mettere in dialogo le persone secondo declinazioni astratte, simboliche, inventate e immediatamente inscritte nella memoria.

 

17 novembre ore 21

SUL BEL DANUBIO BLU

Compagnia Corrado Abbati

musiche di Johann Strauss

coreografie Giada Bardelli
direzione musicale Marco Fiorini

Poco più di 150 anni fa Johann Strauss figlio scriveva quello che sarebbe diventato il manifesto di un'intera epoca: Sul bel Danubio blu. Più che un semplice valzer, il simbolo di un mito che ancora oggi vive e si rinnova generazione dopo generazione: chi non lo conosce? Chi non lo canticchia? Un'espressione di buonumore, di voglia di vivere, di fare festa. Ecco dunque uno spettacolo pieno di gioia e di buon umore: caratteristiche tipiche di una delle più importanti espressioni di quell’epoca: l’operetta!

Una “rivista” dove il ritmo della narrazione e l’armonia degli spunti melodici unisono e fondono, in una sequenza di allegri e spensierati episodi, gli stilemi delle espressioni teatrali tipiche dell’epoca: dalla commedia all’operetta, dalla musica da ballo all’opera. Uno spettacolo pieno di leggerezza e seduzione dove, ballando un vorticoso valzer, può succedere di innamorarsi, perché questa è musica che scioglie i cuori e scalda l’anima.

Buon divertimento! Corrado Abbati

Le musiche di Strauss, Lehar, Kalmann, Abraham, sono i cardini di questo spettacolo in quanto non si tratta di una serie di arie come in un concerto, ma di una vera e propria drammaturgia in forma scenica dove la coppia lirica, quella comica, gli assieme e le coreografie si integrano in vere e proprie e scene tratte da “Il pipistrello”, “La vedova allegra”, “La principessa della czarda”, “Ballo al Savoy”, solo per citarne alcune. Ne nasce quindi uno spettacolo pieno di ritmo e praticamente privo di quei tempi morti che si trovano spesso nei libretti di ogni lavoro teatrale.

 

19 novembre ore 10

COMPAGNIEMIA MOUVEMENT INTERNAZIONAL ARTISTIQUE

DANIEL PENNAC

Incontro con le Scuole

 

19 novembre ore 21

DAL SOGNO ALLA SCENA

Un incontro teatrale

di e con Daniel Pennac

e con  Pako Loffredo e Demi Licata

mise en espace Clara Bauer

musiche Alice Loup

Produzione Compagniemia – Mouvement International Artistique

Un incontro « teatrale » che nasce dal desiderio di raccontare e condividere con il pubblico il lavoro creativo di Compagniemia con Daniel Pennac, un montaggio che mette in evidenza alcuni passaggi dei suoi ultimi adattamenti teatrali uniti nella magia della scena, che disegneranno l'universo narrativo e onirico dell'autore .

"Che ci faccio qui? Che ci sto a fare dietro le quinte di questo teatro, dietro a questa porta che sta per aprirsi sul palcoscenico? Io! Su un palcoscenico! Che mi ha preso? Io che non ho mai voluto fare l'attore! Tra poco la porta si aprirà e io mi precipiterò in scena. Perché? Perché io? In che cosa ti sei andato a cacciare? Che cosa hai nella testa?"
Daniel Pennac, in scena con alcuni suoi compagni di viaggio di CompagnieMia,  Pako Ioffredo e Demi Licata,  con le musiche di Alice Loup e la mise en espace di Clara Bauer, entrerà dal vivo fra le pieghe dei suoi libri e dei suoi ultimi spettacoli, incontrando il pubblico in quella linea di confine fra interpretazione e narrazione, lettura e recitazione.  La piuma di Pennac gioca con la poesia della scena.

E che il piacere e lo humour ci guidino!

Incontro in lingua italiana ed in lingua francese tradotta dal vivo in italiano

 

20 novembre ore 21

LEOPARDI

di e con Gabriele Lavia

produzione Effimera srl –

L’attore non legge né interpreta le poesie di Giacomo Leopardi, ma riversa sul pubblico, in un modo assolutamente personale nella forma e nella sostanza, le più intense liriche dei Canti e non solo, da “A Silvia” a “L’Infinito”, dal “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” a “Il sabato del villaggio” e a “La sera del dì di festa”.

I versi leopardiani ripetono che l’amore, l’intimità rubata e immaginata fatta di attese e ricordo, i sogni senza sonno, le nobili aspirazioni dell’animo, le speranze che riscaldano lo spirito umano e che a volte svaniscono di fronte alla realtà, sono tutti elementi che rendono faticosa e impegnativa la vita, ma straordinariamente degna di essere vissuta.

È un viaggio nella profondità dell’animo umano, un nuovo omaggio al poeta, a quella sua nuova voglia di sondare la parola e il suono in un momento della sua esistenza che si tramutò in esaltante creatività artistica.

«Le poesie di Leopardi sono talmente belle e profonde che basta pronunciarne il suono, non ci vuole altro – spiega Gabriele Lavia -. Da ragazzo volli impararle a memoria, per averle sempre con me. Da quel momento non ho mai smesso di dirle. Per me dire Leopardi a una platea significa vivere una straordinaria ed estenuante esperienza. Anche se per tutto il tempo dello spettacolo rimango praticamente immobile, ripercorrere quei versi e quel pensiero equivale per me a fare una maratona restando fermo sul posto».

 

23 novembre ore 21

Haribaírg

performance di danza in una parte

Coreografia di Fredy Franzutti

Con Allieve e Allievi Scuole di danza: A.S.D. BALLET STUDIO / OISTROS BALLETTO

La restituzione alla comunità del contenitore che ospita il flusso della trasmissione culturale tra arte e pubblico è opportunità per elaborare il luogo come “Haribaírg” nel significato gotico che sta alla radice di “Albergo”. Ospitare, Accogliere, Custodire, Contenere sono sinonimi che possono descrivere un “luogo ricettivo” e un’attività teatrale virtuosa. L’ispirazione viene dal nome del Teatro dedicato all’operetta di Ralph Benatzky “Al Cavallino Bianco” che si svolge appunto in un albergo in Baviera. La narrazione non è nel testo dell’operetta, che viene solo citata nelle atmosfere e nei personaggi, ma nel concetto allontanante di un’operetta Bavarese calata nella società, tradizioni e storia della cittadina di Galatina. Le immagini del mito di Atena, Santa Caterina, il Barocco, i riti pagani di Pietro e Paolo, la vita rurale e il Salento vengono ospitate e sovrapposte nella condizione surreale dell’albergo bavarese creando la situazione onirica e straniante come il nome del Teatro che appare senza connessione con il tessuto sociale e culturale della cittadina. Il ponte fantasioso tra Salento e Baviera, che sembrano, e sono, due estremi distanti di una parabola stilistica ed emotiva, si accorcia e trova sintesi nella figura di Carlo V d’Asburgo. La presenza dell’imperatore che governa dai paesi bassi al sud Italia, che appare nel finale della performance, offre coerenza al progetto come messaggio di unità. Non solo casualmente, anche nel finale dell’operetta, “Al cavallino Bianco”, appare un Re: deus ex machina e risolutore delle incoerenze del testo. Fredy Franzutti

 

25 novembre ore 21

IL QUOTIDIANO INNAMORAMENTO

rito sonoro di e con Mariangela Gualtieri

con la guida di Cesare Ronconi

Produzione Teatro Valdoca  con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Cesena

Il quotidiano innamoramento dà voce ai versi di Quando non morivo, recente silloge einaudiana di Mariangela Gualtieri, li intreccia ad altri del passato e compone tutto in una partitura ritmica ben orchestrata, con un aggancio, in questa occasione, al tema della memoria. Tutto muove dalla certezza che la poesia attui la massima efficacia nell’oralità, da bocca a orecchio, in un rito in cui anche l’ascolto del pubblico può essere ispirato, quanto la scrittura e quanto il proferire della voce.

Mariangela Gualtieri è nata a Cesena, in Romagna. Si è laureata in architettura allo IUAV di Venezia. Nel 1983 ha fondato, insieme al regista Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca, di cui è drammaturga. Fin dall’inizio ha curato la consegna orale della poesia, dedicando piena attenzione all’apparato di amplificazione della voce e al sodalizio fra verso poetico e musica dal vivo.

Fra i testi pubblicati: Antenata (Crocetti ed.,1992 e 2020), Fuoco Centrale (Einaudi, 2003), Senza polvere senza peso (Einaudi, 2006), Sermone ai cuccioli della mia specie (L’arboreto Editore, 2006), Paesaggio con fratello rotto (libro e DVD, Luca Sossella Editore, 2007), Bestia di gioia (Einaudi, 2010), Caino, (Einaudi, 2011), Sermone ai cuccioli della mia specie con CD audio (Valdoca ed., 2012), A Seneghe. Mariangela Gualtieri/Guido Guidi (Perda Sonadora Imprentas, 2012), Le giovani parole (Einaudi, 2015), Voci di tenebra azzurra (Stampa 2009 ed., 2016), Beast of joy. Selected poems (Chelsea Editions, New York, 2018), coautrice – con Cesare Ronconi e Lorella Barlaam - dell’Album dei Giuramenti/Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) di Teatro Valdoca, Quando non morivo (Einaudi, 2019), Paesaggio con fratello rotto (Einaudi, 2021).

 

26 novembre ore 10 per le Scuole

LEZIONI DI ROCK con Gino Castaldo

Ascoltare la musica, vedere la musica, raccontare la musica. Gino Castaldo, critico musicale del quotidiano “La Repubblica”, in Lezioni di Rock indaga temi e personaggi della storia del rock, ricostruendo storie, raccontando dischi, curiosità, aneddoti e testi, per guidare il pubblico nell’ascolto di opere che fanno parte della storia della musica ma anche della vita di noi tutti. Due ore di lezione ricche di canzoni memorabili e storie indimenticabili.

David Bowie L’8 gennaio 2016, giorno del sessantanovesimo compleanno, è uscito Blackstar, considerato il suo “canto del cigno”. Due giorni dopo, nella notte del 10 gennaio, David Bowie si è spento nel suo appartamento di New York. Anche la sua morte può essere considerata un’opera d’arte.

Musicista, cantautore, attore, produttore discografico, artista completo e intellettuale complesso, ha attraversato cinque decenni di evoluzione culturale, in particolare della musica rock, lasciandosi periodicamente dietro le spalle i più diversi stili con i quali si è cimentato, le più diverse immagini che ha incarnato.

Dal folk acustico all’elettronica, dal glam rock, al soul, dal cinema al video, dal palco alla scrittura, ha influenzato il pensiero, i gusti, le mode di varie generazioni del “secolo breve”.

 

26 novembre ore 21

LEZIONI DI ROCK Con Gino Castaldo

Franco Battiato Un colosso della cultura italiana, un intellettuale che ha usato ogni mezzo possibile per promuovere arte e bellezza, un artista che con incredibile originalità ha realizzato opere che, senza alcun dubbio resteranno nel tempo, pittore, regista, scrittore, compositore, direttore d’orchestra, cantante, autore, divo pop, e tanto altro. Ed è stato poeta, nel senso pieno del termine, perché con le parole ci ha fatto vedere cose che non avremmo visto altrimenti, provare emozioni fortissime, ci ha fatto scoprire e conoscere cose che non conoscevamo, è stato “maestro” in grado di insegnare e mostrare. E saranno proprio le sue parole a mancarci di più, quelle de “La cura” o di “Povera patria”, parole, dure e dolci, mescolate alle sue melodie, in grado di farci vedere la nostra misera vita quotidiana da altezze inarrivabili, ci mancherà la sua visione, mistica e misteriosa, e il suo saperci portare in ogni  momento in ogni luogo del mondo.

 

28 novembre ore 17.30

MATTIA E IL NONNO

di Roberto Piumini dal romanzo omonimo pubblicato da Einaudi Ragazzi

con Ippolito Chiarello

adattamento e regia Tonio De Nitto

musiche originali Paolo Coletta

Costume Lapi Lou

Luci Davide Arsenio

Tecnico Matteo Santese

Organizzazione Francesca D’Ippolito

coproduzione  Factory compagnia transadriatica , Fondazione Sipario Toscana  in collaborazione con Nasca Teatri di Terra

Mattia e il nonno è un piccolo capolavoro scritto da Roberto Piumini, uno degli autori italiani più apprezzati della letteratura per l’infanzia.

In una lunga e inaspettata passeggiata, che ha la dimensione forse di un sogno, nonno e nipote si preparano al distacco, a guardare il mondo, a scoprire luoghi misteriosi agli occhi di un bambino, costellati di incontri magici e piccole avventure pescate tra i ricordi per scoprire, alla fine, che non basta desiderare per ottenere qualcosa, ma bisogna provare e soprattutto non smettere mai di cercare.

In questo delicato passaggio di consegne il nonno insegna a Mattia, giocando con lui, a capire le regole che governano l’animo umano e come si può fare a rimanere vivi nel cuore di chi si ama.

Una tenerezza infinita è alla base di questo straordinario racconto scritto con dolcezza e grande onirismo. Un lavoro che ci insegna con gli occhi innocenti di un bambino e la saggezza di un nonno a vivere la perdita come trasformazione e a comprendere il ciclo della vita.

Domenica 21 novembre ore 21

Nicoletta Manni – Timofej Andrijasenko

Passo a due da “Il Corsaro”

Musiche: Adolphe Adam Coreografie: Marius Petipa

Passo a due da “Caravaggio”

Musiche: Bruno Moretti Coreografie: Mauro Bigonzetti

Passo a due da “Luminus”

Musiche: Max Ritter Coreografie: Andras Lucaks

Maestro Luigi Fracasso

L. v BEETHOVEN Sonata in Do diesis min. op. 27 n. 2 min 17
 Adagio sostenuto
 Allegretto
 Presto agitato

F. CHOPIN Notturno in Fa min. op. 55 n. 1
 Polacca in La bemolle magg. op. 53

Nicoletta Manni, nome di punta della compagnia del Teatro alla Scala è nata e cresciuta a Santa Barbara di Galatina (Lecce, Italia).

Ha ricevuto la sua formazione iniziale presso la scuola di ballo di sua madre, a 13 anni è ammessa al 4° corso presso la Scuola di ballo del Teatro alla Scala. Nel 2009, dopo essersi diplomata all'età di 17 anni, ha ricevuto un contratto presso lo Staatsballett di Berlino sotto la direzione di Vladimir Malakhov, dove è rimasta per tre stagioni, prendendo parte in tutte le produzioni classiche e contemporanee.  Sotto l'invito di Makhar Vaziev, è tornata in Italia, nella compagnia del Teatro alla Scala, debuttando con Myrtha(Giselle) e Odette/Odile nel Lago dei cigni di Rudolf Nureyev. Un anno dopo, all'età di 22 anni, è stata promossa Prima Ballerina del Teatro alla Scala. Da allora ha ballato tutti i ruoli principali, accanto a etoile e ospiti internazionali, interpretando molte nuove creazioni, oltre ai numerosi capolavori del repertorio classico.

Timofej Andrijasenko nato a Riga, in Lettonia, nel novembre 1994, dove inizia i suoi studi di balletto alla National State Academy. Nel 2009, all'età di 14 anni, ha partecipato al Concorso Internazionale di Danza "Città di Spoleto", vincendo una borsa di studio; questo premio gli consente di frequentare il Russian Ballet College di Genova diretto da Irina Kashkova, dove si diploma nel giugno 2013.  Da novembre 2014, su invito di Makhar Vaziev, entra a far parte del corpo di ballo del Teatro alla Scala e nel 2018 viene promosso Primo Ballerino. è nel cast dei marinai russi in The Nutcracker di Nacho Duato ed è tra i principali interpreti di Cello Suites di Heinz Spoerli.

Luigi Fracasso, pianista italiano, di  Galatina (Le) ha compiuto gli studi musicali presso il Conservatorio di Musica di Stato “T. Schipa” di Lecce, conseguendo con il massimo dei voti il Diploma di Pianoforte. Aldo Ciccolini ha scritto: “… Luigi Fracasso è un musicista vero, agguerritissimo, con idee sane sulla nostra arte e con un vivo senso della logica strumentale.”. È direttore artistico dei concerti del chiostro.

30 novembre 2021 – ore 21

L’eterno riso

di e con Fausto Romano

musiche, eseguite dal vivo, di Eva Parmenter

Produzione FAUST

I pomeriggi d’estate, in un afoso Salento, il chierichetto Faustino, di otto anni, si reca con padre Luigi a “prendere i morti” da casa per far loro il funerale. È un bambino acuto, attento e analizza il tutto con estrema curiosità cogliendo le diverse contraddizioni del rito e i lati colorati della più grande recita della vita, dove ognuno vuol togliere al morto la parte del protagonista. Incontriamo allora il becchino Rafele, che per fare il suo lavoro deve vestirsi obbligatoriamente di nero e tagliarsi i capelli; la ventriloqua Maria che colleziona presenze in chiesa; Gianni, che si è costruito da solo la propria bara finendoci dentro con una donna; il “cane degli inferi”, presente a ogni corteo funebre; la banda musicale che accelera il passo e il ritmo dei brani per tornarsene presto a casa... E ancora, il numero di manifesti mortuari perché “più manifesti ci sono, più il morto è importante”; gli strani oggetti contenenti nelle bare; le divertenti frasi di congedo e i pericolosissimi elogi funebri tenuti dagli amici del “fu”.

Fausto Romano, con la sua usuale leggerezza e intelligente vena umoristica, ci trasporta in un paesino del Salento degli anni novanta nel quale ognuno di noi potrà ritrovarsi e scoprire che la morte, alla fine, è uno spettacolo per tutti.

 

 

info: 3881814359 / 3201542153

mail: officinetse.com

www.otse.it

 

Prevendita online dal 28 ottobre su: www.diyticket.it

Prevendita presso la biglietteria del teatro Cavallino Bianco

Via Giuseppe Grassi, n.13 – GALATINA (Le) dal giorno 26 ottobre

dal lunedì al venerdì dalle ore 16.30 alle ore 19.30

sabato dalle 10 alle 13

 

Prenotazione tramite centralino telefonico:

la prenotazione del biglietto e quindi del posto a sedere può essere effettuata anche

chiamando i seguenti numeri telefonici 388.1814359 / 320.1542153 a condizione che il biglietto venga poi ritirato in botteghino entro 24 ore dalla prenotazione, altrimenti la stessa viene considerata annullata.

 
Di Redazione (del 29/05/2018 @ 19:03:32, in Comunicato Stampa, linkato 1565 volte)

Venerdì 22 giugno 2018 – GALATINA

- Ore 18.30 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

"TUTTAUNALTRASTORIA” a cura di ZEROMECCANICO TEATRO con FRANCESCO CORTESE e OTTAVIA PERRONE. Laboratorio tra lettura e teatro dedicato a bambini da 5 a 11 anni.

- Ore 20.30 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

GINO CASTALDO presenta il libro “IL romanzo DELLA CANZONE ITALIANA” (Einaudi). Intervista l’autore LUCA BIANCHINI con la partecipazione straordinaria di CHIARA GALIAZZO e del musicista GIANLUCA LONGO.

 

Domenica 8 luglio 2018 – GALATINA

Ore 20.30 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

SELVAGGIA LUCARELLI presenta il suo nuovo libro (ancora in fase di redazione ed edito da Rizzoli), con la partecipazione straordinaria dell’attrice SIMONA CAVALLARI.

Ore 21.30 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

MARCO TRAVAGLIO presenta il libro “B. COME BASTA!” (Paper First).

 

Lunedì 9 luglio 2018 – GALATINA

Ore 19.00 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

POIEFOLA – COSTRUZIONI TEATRALI presenta “NON C’ERA UNA VOLTA”. Spettacolo per bambini e ragazzi.

Ore 20.30 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

MAX LAUDADIO presenta il libro “SI COMINCIA DA 1” (San Paolo).

Ore 20.30 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

FEDERICO RAMPINI presenta il libro “LE LINEE ROSSE” (Mondadori)

 

Sabato 21 luglio 2018 – GALATINA

Ore 20.00 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

GIOIA BARTALI presenta il libro del padre Andrea Bartali “GINO BARTALI, MIO PAPÀ” (Tea).

Ore 21.00 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

ANTONIO CAPRARICA presenta il libro “ROYAL BABY” (Sperling & Kupfer).

Ore 22.00 – Piazzetta Orsini (nei pressi della Basilica di Santa Caterina)

CHIARA FRANCINI presenta il libro “MIA MADRE NON LO DEVE SAPERE” (Rizzoli).

 

Marcello Amante, sindaco di Galatina, ha dichiarato: “L’amministrazione comunale che mi onoro di guidare guarda alla cultura come a una fonte necessaria da cui attingere risorse naturalmente e giornalmente. Governare una Città come Galatina, in cui storia e tradizione costituiscono il tessuto a maglie strette della nostra quotidianità, significa fare della cultura un traino fondamentale per alimentare costantemente il ricordo, attivare il presente, preparare al meglio il futuro.
È per queste ragioni che abbiamo sposato al cento per cento il progetto del Salento Book Festival e della rassegna letteraria “Dammi una L”, nata nel primo anno di amministrazione. Conosciamo il valore dei libri, del linguaggio, della parola, della formazione, della divulgazione, della conoscenza. Gli incontri con gli autori e tutte le iniziative in cui la cultura viene messa in comune, in uno scambio costante di pensieri ed emozioni, sono momenti di enorme crescita per chi ascolta, per chi partecipa e per chi organizza. La nostra idea di Città passa anche attraverso manifestazioni come il Salento Book Festival che mette insieme chi la cultura la fa e chi la cultura la respira in un incontro unico di crescita e di costruzione.
Abbiamo l’obbligo di comprendere ciò che è stato, per capire ciò che viviamo e immaginare ciò che potrà essere.”

Cristina Dettù, assessore alla Cultura, ha dichiarato: “Avere la sensazione di regalare qualcosa di bello alla tua Città. Lasciarsi trascinare dall'entusiasmo di un progetto semplice e ambizioso. Entrare a far parte di una grande famiglia, fatta di addetti ai lavori, scrittori, artisti, amici amministratori. Questo è il Salento Book Festival, un evento singolare, unico, che Galatina, per il primo anno, abbraccia e accoglie nella sua bellezza e nel caldo tepore delle serate estive. Ogni libro è un piccolo segno di libertà, ogni parola traccia un solco indelebile lungo la strada della cultura, quella che costruisce, coltiva, produce, quella che rende liberi.”

Ufficio Stampa Marcello Amante

 
Di Albino Campa (del 15/06/2006 @ 19:02:23, in Libro di Noha, linkato 5153 volte)

Buonasera a tutti. E grazie per essere insieme a noi.

 

*   *  *

 Ora prima di dire altre cose o che qualcuno, in seguito al mio intervento, caschi dal sonno, fatemi capire: fino a questo momento ne è valsa la pena? Siete contenti?

 Fatevi sentire!

 

*   *   *

 Non posso che partire con un ringraziamento. Se questa sera siamo qui lo dobbiamo all’editore, Infolito Group di Milano, ma soprattutto a Michele Tarantino, di Noha.

 “Caro e illustre amico, permettetemi di mettere il vostro nome all’inizio di questo libro e ancora prima della dedica; perché a voi soprattutto ne devo la pubblicazione. Passando per la vostra magnifica perorazione, la mia opera ha acquistato ai miei stessi occhi quasi un’autorità imprevista. Accettate quindi l’omaggio della mia gratitudine, che, per quanto grande, non sarà mai all’altezza della vostra eloquenza e della vostra dedizione”. Con queste parole, il 12 aprile 1857 a Parigi, Gustave Flaubert ringraziava Monsieur Marie-Antoine-Jules Sénard, per la pubblicazione del suo splendido “Madame Bovary”.  

Credo che queste parole calzino bene – non saprei trovarne di migliori – per esprimere la nostra gratitudine a Michele per il nostro: “Noha. Storia, arte, leggenda”. Che non sarà un “Madame Bovary”. Ma insomma!

 

*   *   *

 Allora prima che qualcuno si abbandoni, come dicevo, nelle braccia di Morfeo, vi dico un paio di cose. Ed ho pensato di incominciare… dando i numeri. Siamo di fronte ad un libro di 455 pagine; 3.773 paragrafi (per paragrafo intendiamo un periodo, una frase in cui abbiamo messo un punto e siamo andati a capo. Cioè non solo quando si mette il punto. Ma quando si mette il punto e si va a capo.).

Abbiamo scritto 14.518 righe (senza contare le didascalie alle foto che scritte di seguito assommano a ben 12 pagine fitte di espressioni); 124.318 parole.

 Se non ci credete, provate a contare!

 Perché vi ho dato questi numeri? Per raccontarvi della mole del lavoro che abbiamo svolto. Ma soprattutto per dirvi che, paradossalmente, di fatto, non abbiamo scritto niente. Come diremo: c’è molto altro ancora da studiare e scrivere.  

 

*   *   *

 Ma andiamo, più o meno, per ordine.

Qualcuno di voi mi ha chiesto: ma quando hai scritto?

La risposta deve necessariamente seguire un ragionamento.

Sappiamo che in un anno (non bisestile) ci sono 8.760 ore. In media, ogni giorno: 8 ore di sonno, 1 ora e mezza tra sera e mattina: pigiama, sveglia, barba, doccia, notizie ecc. ecc., sono 3.468. Rimangono 5.292 ore.

Dieci ore di lavoro al giorno (sono direttore di una filiale di banca con dieci persone; ed un direttore non lavora meno di quelle ore al giorno, escluso il sabato e la domenica, ovviamente); e sono 2700 ore.

Ed in questo computo non calcolo le ore per gli eventuali (numerosi) corsi di aggiornamento o quelli non residenziali o cosiddetti manageriali altrove in Italia: Bari, Napoli, Milano…. Rimangono 2.582 ore.

Vado in palestra due volte la settimana (e si vede!) per un totale di 3 ore e mezza a settimana: sono 189 ore.

Per gli spostamenti da casa al lavoro e da Putignano a Noha (e viceversa) impiego circa 5 ore la settimana:  dunque 270 ore all’anno. Sottraendo anche queste ne rimangono 2.133.

Scrivo almeno una volta al mese su “il Galatino” (e non considero gli articoli saltuari inviati alle altre riviste). Per trovare l’argomento, documentarmi, stendere una prima bozza dell’articolo, rileggerlo, correggerlo, limarlo, inviarlo alla redazione: impiego a dir poco tre ore a settimana. Dunque altre 162 ore.

L’anno scorso ho seguito dei ragazzi di scuola superiore impartendo lezioni di matematica, ed un laureando e due laureande, rispettivamente in Economia e in Beni Culturali nelle loro tesi di laurea (correzione bozze, ricerche bibliografiche, ecc. ecc.): circa quattro ore a settimana. Altre 216 ore. Rimangono 1.785 ore.

Poi ci sono i giornali e soprattutto i libri. E Internet: almeno un’ora e mezza al giorno. Fa 547 ore.

Non rinuncio mai, ogni settimana, a cinema, o teatro, o concerti, o spettacoli, feste, passeggiate al mare, incontri con amici e amiche, scambi sociali, incontri galanti, la pizzeria, la santa messa domenicale, la caffetteria, la libreria, il pub; e poi ancora shopping, convegni, presentazioni di libri, viaggi,… che assorbono oltre 16 ore (in media) la settimana: sono 864 ore.

Rimangono 374 ore, (cioè un po’ più di 1 ora al giorno) da dedicare ai pasti, alla televisione, e, in qualità di invitato, a cerimonie, come battesimi, cresime, matrimoni,  ecc. ecc.

SIGNORE E SIGNORI: QUESTO LIBRO S’E’ SCRITTO DA SOLO!!!

 

*   *   *

 Dunque il libro, come per magia, s’è scritto da solo.

Vi dico, tra l’altro, che la redazione del testo è forse la cosa più semplice da fare. O almeno per me così è stato.

Il problema inizia con l’Art Designer (cioè con il compositore delle pagine del libro), soprattutto se questo compositore si trova a Genova, come la signora Gabriella Zanobini Ravazzolo (che salutiamo con un battimani). Che è splendida, ma che non conosce Noha.

Per comporre un libro ricco di foto bisogna indicare dove vanno inserite le foto.

Ma non basta. Bisogna dire a chi non conosce Noha ad esempio che la foto del palazzo baronale deve avere un certo formato, quella di una casa anonima di un formato più piccolo; quella della torre va inserita in un certo contesto, mentre quella di una processione, o quella di una cassetta di pomodori, in un altro. Insomma un lavoro incredibile.

Se poi ti si impalla, cioè si inchioda il computer (abbiamo lavorato molto con le e-mail) perché la definizione delle foto assorbe e rallenta il lavoro; o se in qualche caso, come è successo, dopo aver scritto un brano o una frase, ti chiama qualcuno al telefonino, ti dimentichi di salvare, devi rifare il lavoro, ecc… potrete capire il livello di disperazione.

Se a tutto questo aggiungete una madre che ogni tanto ti dice: ancora con questo libro!?. Ma quando sarà pronto!? Mi pare ca sta vu la pijati a passatiempu!!! Potrete subito capire!!!  

 

*   *   *  

E non voglio parlarvi del lavoro per “sposare” i due scritti, per trovare un linguaggio omogeneo e semplice, per la cernita delle fotografie, per la loro ubicazione nel testo, per far combaciare le didascalie (dopo averle preventivamente pensate e scritte), per le note a piè pagina che  - non capivo perché – si sfasavano, per l’ordine delle foto inserite in ben sei CD con l’ordine tipico di un pazzesco marasma, che definire coacervo confuso è dire poco.  

 

*   *   *

 A proposito di fotografie. Le fotografie oltre 460 sono parte essenziale del testo: per favore, però… se comprate il libro non limitatevi a guardare le fotografie riportate nel testo. Non limitatevi  a leggere le didascalie delle foto. Leggetelo, andate un po’ oltre le foto, potreste trovare cose incredibilmente interessanti o divertenti o affascinanti o curiose o intriganti o misteriose.

Tra l’altro il libro lo potete leggere anche a salti. Non è necessario seguire per forza la sequenza dei capitoli.

A proposito di cose carine vi vorrei raccontare l’aneddoto del telefono: lo trovate a pag. 336. E’ l’accadimento del telefono avvenuto tempo fa nel bar di Ninetto (che ci ha lasciato nel mese di novembre dello scorso anno).

Il telefono a muro color beige, è l’ultima cosa di cui vorremmo scrivere in questa sorta di nostalgiche “disiecta membra” sui bar di Noha.

Con il disco con i buchi per comporre i numeri, il telefono attaccato al muro, sulla sinistra dell’ingresso del bar, non era in una cabina: sicché di fatto era pubblico non solo il telefono ma anche la telefonata. Tutti gli astanti potevano quindi ascoltare per filo e per segno tutte le conversazioni  telefoniche (la privacy era ancora un vocabolo sconosciuto); anzi nel corso di una telefonata i presenti interrompevano le loro chiacchierate, facevano addirittura silenzio “per non disturbare chi telefonava” (e per cogliere meglio il succo della comunicazione). 

A questo proposito, ecco l’aneddoto (tutto vero!) di “Fernando – oggetti sacri”.

 Fernando di Noha, ora in pensione anche lui, era commerciante di oggetti sacri. Non avendo in casa un telefono, (così come accadeva per la quasi totalità degli abitanti di Noha), pensò bene di lasciare ai clienti quale recapito quello del bar di Ninetto (sempre su autorizzazione del barista, s’intende); recapito telefonico che aveva fatto riprodurre anche su materiale pubblicitario come potevano essere i calendari o bigliettini da visita.

Un bel dì squilla il telefono, come tante volte era successo. Risponde Ninetto, come al solito, con il suo vocione squillante: “Prontooo?!!”.

E dall’altra parte una voce titubante fa : “Pronto?...  Parlo con Cacciapaglia Fernando?... Il rappresentante di oggetti sacri?” (Era un sacerdote che necessitava di alcuni “prodotti” trattati dal Fernando).

E Ninetto, preso alla sprovvista, e onde evitare di fornire una dettagliata lunga spiegazione, in un attimo decide: taglia corto e risponde: “Nooo!! Eeeeh…sono sua moglie! Dica!!”!    

Vedete? Con questo libro ci si può anche divertire.

Il nostro libro ha tante pagine, tanti paragrafi, tante parole, tante fotografie…

Ma vi volevo dire che non abbiamo scritto chissà quanto.

Anzi diciamo meglio: chissà quante cose o persone o accadimenti sono rimasti nella nostra penna (o nei tasti dei nostri computer). Oserei dire che, dunque, non abbiamo scritto proprio nulla!

Nella conclusione, infatti, invitiamo le nuove generazioni a continuare a scoprire, a studiare, a riscrivere, a ripensare magari, a confutare (anche!) gli stessi argomenti o i temi che nel libro s’è trattato soltanto superficialmente o che non s’è trattato affatto.

Ben vengano, allora, tutti quanti vogliano scrivere saggi, libri, trattati, articoli sulla Storia di Noha, vogliano scattare nuove foto o girarne documentari; in queste pagine, e soprattutto altrove, c’è materiale a sufficienza per la ricerca di una risposta ai mille “perché”. Ciò che è già stato scritto non è mai bastevole, mai commisurato all’assoluto bisogno di conoscenza.

Se dopo di noi qualcun altro vorrà scrivere sulla Storia, l’Arte e le Leggende di Noha con più penetrazione, tanto meglio: il nostro intervento ha il torto ed il merito di essere stato fatto prima.

 

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Adesso consigli per gli acquisti. Del libro.

Il libro costa 30 euro. L’editore non riesce nemmeno a coprirne i costi. Avete visto la veste tipografica: magnifica e accattivante.

Pensate 30 euro per la storia, l’arte e la leggenda della nostra cittadina.

Adesso, pur non utilizzandone i toni, faccio un po’ la Vanna Marchi della situazione. Signori: quanto un CD di Eros Ramazzotti! Quanto due pizze e due birre! Quanto una cravatta (no: la cravatta costa di più, a meno che non sia di Andrews-Tie): una maglietta non di marca. Quanto un taglio ed una messa in piega. Quanto manco un pieno di benzina.

Trenta euro.

Spesso ci si adopera a misurare i costi della cultura. Senza avere idea però di quanto costi l’ignoranza. Sappiate comunque che i costi della cultura sono sempre infinitamente più bassi dei costi che può generare l’ignoranza.

L’emarginazione non è un fatto solo economico.

Indifeso, emarginato, ultimo, non è tanto chi non ha soldi (anche!); ma soprattutto chi non riesce a far propria la ricchezza della comunicazione con gli altri: cioè la cultura.

 

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 Voi sapete che prima di essere uno scrivente di fatti locali io sono un economista.

 

Ora vi spiego perché dal punto di vista economico l’acquisto di questo libro è un affare. Anzi un investimento.

Vi spiego però prima che cosa è un investimento. Anzi un buon investimento. E poi, per essere completo, vi spiego anche che cosa è invece un finanziamento (che è una cosa speculare dell’investimento).

Semplificando al massimo diciamo che un investimento non è una semplice uscita monetaria: cioè un costo.  Un investimento è un’uscita monetaria che comporterà degli introiti. Saremo di fronte ad un buon investimento se gli introiti, i benefici, immediati e differiti, superano il sacrificio di quella spesa.

Dunque un investimento è un’uscita monetaria cui seguono delle entrate. E l’investimento è tanto più buono quanto più la somma di queste entrate supera la somma delle uscite.

Mentre un finanziamento è un’entrata monetaria, dunque un debito, che prima o poi dovrò rimborsare in una sola botta o a rate. Quando una banca mi concede un finanziamento, ho un introito di soldi che poi restituirò in una unica soluzione o spalmandoli nel tempo.

Ho la presunzione di dire che il nostro libro è un buon investimento poiché il suo valore supera di gran lunga la sua spesa per acquistarlo.

Il valore del libro è sia intrinseco e sia estrinseco.

Intrinseco è il suo contenuto: le foto a colori, la ricerca, gli scritti, i documenti, la stampa, l’eccellente carta, l’inchiostro, la copertina rigida ricoperta di pregiata tela color rosso-cardinale, la sovra-copertina, l’eleganza del testo, e il lavoro, le ore impiegate per scriverlo di cui vi ho parlato, il trasporto, l’opera dell’ingegno, il diritto d’autore…

Il valore di mercato o estrinseco deriva invece dal fatto che questo bene, essendo a tiratura limitata, è, di fatto, una risorsa scarsa. Forse non riusciremmo a dare un libro per ogni famiglia.

Tra due, tre, quattro anni. Anzi, diciamo, tra dieci anni, il libro sarà una risorsa ancora più scarsa.

Il libro tra dieci anni non circolerà quasi più. Sarà un bene raro, da mercato secondario di intenditori. E per questo alcuni sarebbero disponibili a pagare cifre molto più alte dei 30 euro di oggi (sempre che 30 euro tra dieci anni varranno quanto i 30 euro di oggi). Vi invito dunque a guardare lontano, a volare alto.

Questo discorso, fidatevi, funziona indipendentemente dal contenuto del libro.

C’è gente che sarebbe disponibile, su una sorta di mercato secondario, a sborsare parecchie decine di euro anche se quel determinato libro, ben fatto, difficile da reperire sul mercato, dovesse parlare… di cucuzze. Questo libro come potrete notare non parla di cucuzze. O meglio non parla solo di cucuzze (ci sono pure quelle!)…

 

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Noi (ma questo tutti gli scrittori) abbiamo bisogno dello sguardo dei lettori, di voi, della vostra attenzione.

 

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A cosa serve il nostro libro?

 

Ma ovviamente cambiare il mondo!!!

 

 Diceva Plinio il Vecchio (citato da Plinio il Giovane in una lettera): “Non c’è libro tanto brutto che in qualche sua parte non possa giovare”.

 

Ogni autore che aggiunge qualcosa a quanto è già stato scritto supera un limite, magari spiega qualcosa che prima non era chiaro, ci dà una visione diversa del mondo. Anche se questo mondo è piccolo e si chiama Noha.

 

Possiamo dire che la novità di questa opera sta nel farci vedere il mondo, il nostro piccolo mondo, in modo diverso, sotto un’altra luce. E sarò contento se, quando lo leggerete, mi fermerete per strada e mi confermerete questo. 

 

Ma sarò contento anche se mi criticate (o come si dice qua, mi malangate).

 

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Io mi auguro, anzi vi auguro, che prendendo in mano il nostro libro voi possiate sentire suoni, annusare odori, gustare sapori. Vi auguro di compiere un viaggio nel tempo. Mi auguro e vi auguro che sentiate il desiderio di andare avanti, nella lettura e nella ricerca.

 

Mi auguro che il nostro libro stimoli la vostra fantasia.

 

Se mi fosse consentito vi augurerei che la lettura di questo (ma anche qualsiasi altra lettura) diventasse per voi come una sorta di sostanza stupefacente: una droga che però che accelera l’intelligenza, la fortifica, non la comprime.

 

Chi non ha questo privilegio si rifugia nelle droghe “normali” che servono a dimenticare l’infelicità dell’esistenza (nei confronti di queste persone è opportuno praticare il giudizio moderato della comprensione…).  

 

Come per umana consolazione fu scritta la “Divina Commedia” di Dante, così il nostro libro è stato scritto perché rinasca un antico orgoglio, il legittimo orgoglio per le nostre radici: quello di essere cittadini di Noha, questo lembo di terra che in passato era importante nel Salento e che ancora può essere conosciuto non come territorio di mafia, ma finalmente come centro di solidarietà, di cultura e libertà!!!

 

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Il nostro libro serve. Un libro di storia serve. Sempre.  

 

Si dice che la Storia è maestra della vita. E’ vero.

 

Però ci tengo a dire che il nostro futuro non è mai determinato dal nostro passato.

 

Il passato illumina il presente, ma non lo determina.

 

Ci si rivolge alla Storia non per sapere cosa dobbiamo fare oggi o domani. (Quello lo dobbiamo decidere noi). Ma per sapere in quale situazione ci muoviamo; per avere consapevolezza da dove veniamo e dove possiamo andare, se esiste una possibilità di farlo.

 

Ecco perché è importante la storia.

 

La storia ci aiuta a vedere meglio, magari più nitido, un accadimento. Ma non può dirci quello che dobbiamo fare.

 

La storia ci dice da dove veniamo. Non dove vogliamo andare!

 

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Infine i libri allungano la vita.  

 

“Un uomo che legge ne vale due”: questa non è mia: è una citazione di Valentino Bompiani (fondatore di quella casa editrice).

 

Con questo intendo dire che la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, analfabeta, non legge) è questa: colui il quale non legge, si limita a vivere solo la sua vita, mentre noi, grazie alla lettura, ne viviamo moltissime.

 

Cioè la lettura e la memoria ci permettono di conoscere le esperienze e le vite degli altri, ci fa andare alle radici. Sovente la lettura di un libro (specialmente quella di un classico) ci dice non solo come si pensava in un tempo lontano, ma ci fa anche capire perché oggi pensiamo ancora in quel modo…

 

Ecco perchè i libri allungano la vita. Ma sono anche una forma di assicurazione contro l’Alzheimer, per il semplice fatto che la lettura tiene in attività, diciamo, tiene allegro il cervello (il quale è come le gambe: le quali necessitano di alcune ore di allenamento sportivo, o comunque di movimento, ogni giorno).

 

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Una casa senza libri, poi, è come un corpo senza anima. I libri ci affascinano; ci parlano, ci danno dei consigli…

 

Ogni lettore, quando legge, legge se stesso.

 

L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. Anche se gli scrittori si chiamano Antonio Mellone, e Francesco D’Acquarica, (mi assolva padre!).

 

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Un giorno un amico mi chiese se la lettura del mio libro (il don Paolo, qualcuno di voi ricorderà quel mio libercolo del 2003) gli sarebbe servita per una certa ricerca che stava facendo sul novecento. Gli ho detto che gli sarebbe servita anche se poi avesse fatto il venditore ambulante di materassi a molle!

 

Ecco l’utilità di un libro: che poi è il succo di tutto ciò che vi ho raccontato questa sera.

 

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Ringraziandovi ancora una volta per la pazienza con la quale mi avete ascoltato,  ringrazio ancora gli ospiti, Giuliana Coppola e Nicola Toma (splendidi!) che mi hanno onorato della loro presenza; Paola Congedo ed il marito maestro cantautore-chitarrista Walter Faraone, grazie per la vostra performance; Emanuele Vincenti (che ha letto e riletto le bozze del libro); Giuseppe Rizzo ed Antonio Salamina (che hanno sorvolato Noha con l’aereo da turismo ed hanno scattato splendide foto dall’alto, qui presentate per la prima volta in assoluto); grazie al geometra Michele Maiorano per lo stradario, il “tutto-città” di Noha; grazie al prof. Zeffirino Rizzelli (che ha scritto la presentazione del lavoro), a Don Francesco Coluccia (padrone di casa), a don Donato Mellone (che ci ha concesso di consultare l’archivio parrocchiale nel tempo), a Bruna e Dora Mellone (per aver letto le bozze del testo), a Matteo Mellone (da Milano con furore!), a Paola Rizzo maestra d’arte (per i disegni del libro e per la mostra di questa sera dei suoi tre bellissimi ragazzi: Angelo Cisotta, Veronica Gianturco, Francesca Lupo), a Michele Tarantino e sua moglie Rossana D’Acquarica, venuti apposta da Milano per questa serata, oltre che per il loro determinante contributo per la stampa del nostro libro; saluto tutti i miei amici ed amiche che ho invitato a partecipare a questa presentazione quasi per forza (alcuni per l’occasione provenienti da Bari, Brindisi e Taranto); ringrazio Daniele, Michele e Rinaldo Pignatelli (dello studio fotografico Mirelfoto per le foto e le riprese ed i cortometraggi qui presentati, come vedo, con grande successo); ringrazio Telerama, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “il Galatino”, “Il nuovo Quotidiano di Lecce”, e “Quisalento”; grazie a Gigi Russo e Radio Reporter, ringraziamenti anche a Radio Orizzonti Activity; sono grato a Gianni Miri ed alla sua auto che, opportunamente “microfonata”, per le strade di Noha ci ha annunciato, con un bel sottofondo di Bob Marley, questo straordinario evento storico; grazie ad Albino Campa, webmaster, per aver in anteprima pubblicato la notizia dell’avenimento di oggi e la copertina del libro sul suo blog Noha.it (e mi auguro che quanto prima ritorni a funzionare il suo sito www.noha.it, il portale con l’h, che arricchiremo con tante foto, sito attualmente in “riparazione”); grazie a Piera Sturzi, per l’omaggio floreale alle gentili signore, a Sasà ed il suo B. & B. “Per le vie” (ed anche per l’ottimo pranzo offertomi proprio oggi, nella sala ristorante della struttura, in occasione dell’inaugurazione, appunto,  del secondo Bed and Breakfast di Noha; il primo è “Mimì”); saluto tutti i miei amici ed amiche (vedo là in fondo anche i miei amici di Galatina e Lecce e Gallipoli, oltre che quelli di Noha); grazie a Enzo Turi per l’esilarante fuori programma (che di fatto era in programma: l’abbiamo provato e riprovato: bravissimo!); grazie ai miei amici di Milano che mi hanno ospitato nella città meneghina e sopportato nel corso della redazione delle pagine di questo libro; grazie a tutti coloro che hanno preparato questa sala per l’occasione; grazie al bar Settebello che ha offerto il buffet che seguirà da qui a qualche minuto (a proposito siete invitati: paste di mandorla e prosecco ce n’è per tutti). E grazie anche a tutti quelli che ho dimenticato.

 

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E visto che ha funzionato quella volta, vorrei concludere, con le stesse parole con cui presentavo il mio libro del 2003, il “don Paolo”, sempre in questa sala convegni, parole prese in prestito e parafrasate da Alessandro Manzoni: quelle con le quali don Lisander conclude il suo romanzo “I Promessi Sposi”:  se la storia, diciamo, se il nostro libro e se questa serata  non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta (e presentata). Ma se invece fossi riuscito ad annoiarvi, credetemi non l’ho fatto apposta!

 

Grazie.

 
Di Antonio Mellone (del 28/11/2016 @ 18:56:15, in Recensione libro, linkato 2283 volte)

Non è la prima volta che Gianluca Virgilio mi fa dono di uno dei suoi libri.

Ecco. Quando succede sospendo quasi automaticamente la lettura dell’altro che ho per le mani per buttarmi a capo fitto e con gran diletto in quella del suo testo. La “parentesi virgiliana” di solito non dura più di un paio di giorni, al massimo tre, tanto scorrevolissimo e vorace, come sempre, è quel che egli scrive.

Stavolta la strenna è il suo “Quel che posso dire”, ancora caldo delle rotative di Edit Santoro di Galatina (settembre 2016); mentre l’Altro che avevo per le mani - e che ha dovuto attendere il suo turno - era un classico della Naomi Klein, “No logo” (Bur, Milano, 2015), insieme al centesimo volume di Andrea Camilleri, “L’altro capo del filo” (Sellerio, Palermo, 2016). Sì, in genere me ne porto avanti un paio per volta, quando non di più.

Questo bel libro del prof. Virgilio, dello stesso formato degli altri suoi e, combinazione, dei romanzi che Camilleri pubblica con Sellerio, non è un romanzo, come l’autore ci ha tenuto a puntualizzare, ma una raccolta di disiecta membra, brani d’esistenza, punti di vista, racconti di vita vissuta, edite e inedite riflessioni di un osservatore, pensieri sfregati perlopiù su pagine di rubriche tenute sul quindicinale salentino per antonomasia: “il Galatino”.

Non una trama, dunque, visto che nemmeno la vita ne ha una, ma una serie incommensurabile di orditi, schizzi, flash, colpi di scalpello che, tuttavia, all’occhio più attento non sono mai stocasticamente indipendenti uno dall’altro, dome direbbero gli statistici, ma legati in qualche modo da un fil rouge, una visione d’insieme, direi pure una concezione politica dell’esistenza.

Non solo nella prima parte del libro (“Scritti cittadini”), nella quale il Virgilio analizza la microsociologia della sua città, ma anche nelle restanti cinque (“Passeggiate con Ornella”, “Scritti scolastici”, “Prose”, “Racconti” e “Incontri”) affiora potente l’urgenza di una Politica (finalmente con la maiuscola) volta al bene comune, al rispetto dell’altro, alla formazione culturale di un popolo, alla realizzazione dei principi costituzionali negletti da troppa dimestichezza con la sbadataggine locale, e ultimamente minacciati anche da una riforma centrale pensata male e scritta  peggio.

Mentre leggevo i brani di questo libro, non so perché, nella mia mente si andava delineando, dapprima sfocata e poi sempre più nitida, la figura di chi potesse assumere il ruolo di prossimo venturo sindaco di Galatina. E il profilo che in tal senso pagina dopo pagina si stagliava con connotati sempre più netti era proprio quello del prof. Gianluca Virgilio (erede, oltretutto, di Zeffirino Rizzelli nella direzione e nell’organizzazione dell’Università Popolare di Galatina).

Galatina in effetti ha bisogno di una persona, che dico, di una classe dirigente virtuosa. E Gianluca Virgilio, per spessore e impegno culturale, padronanza morfo-sintattica nell’eloquio e nella scrittura, onestà intellettuale, capacità di ascolto e di comunicazione, e dunque visione strategica della Polis, potrebbe rappresentare un punto di riferimento importante, un’insegna, anzi un insegnante per il nuovo gruppo dirigente. Abbiamo bisogno di qualcuno a palazzo Orsini che finalmente, come Virgilio, faccia “l’elogio degli alberi” (pag. 31), che comprenda che qui è pieno di “decine di case monofamiliari chiuse e abbandonate, e con tanto di cartello VENDESI” (pag. 41), che si convinca dunque che un buon sindaco non si misura da quanto asfalto mette a terra o da quanto cemento farà colare, che il vero cittadino non può vivere “del poco, e di molta televisione, e si nutre di fiction” (pag. 20) ma di cultura e partecipazione, che “rottamazione è parola magica del consumismo” (pag. 43), che “la Buona Scuola ha dato il colpo di grazia alla libertà di insegnamento” (pag. 59), che non bisogna “prestare orecchio alle sirene del mercato” (pag. 61), che “la classe dirigente degli ultimi anni ha perseguito l’affossamento della scuola e la distruzione delle biblioteche scolastiche per dare i soldi alla scuola privata oppure favorendo l’ingresso nella scuola pubblica di privati sempre più rapaci” (pag. 76), che i giornali stanno diventando sempre più inutili, pieni zeppi, come sono, di pubblicità e di “commenti e opinioni tutti dalla parte del vincitore di turno, salvo dirne male quando per lui è giunta l’ora del tramonto” (pag. 95) - ogni riferimento agli orrori di stampa locale e nazionale è puramente causale.  

*    

Ho già passato questo bel libro a mio papà Giovanni. Mio padre ha 93 anni, è contadino, va ogni giorno in campagna, vive di poco, ha la terza elementare, non ha dunque una libreria come quella (pag. 113) del prof. Giuseppe Virgilio (compianto papà di Gianluca), ma quando è libero legge, legge tutti i libri che gli passo.

Conosce Gianluca molto bene perché è il suo vicino di campagna. Tra i nostri due contigui appezzamenti di terreno non c’è muro di cinta, non siepe, non soluzione di continuità. Sicché Gianluca e mio padre, il professore e il contadino, si vedono spesso, si scambiano consulenze, derrate agricole, e qualche volta anche i ruoli.

Ho sempre pensato che quelle di mio padre fossero braccia strappate alla cultura.

Antonio Mellone  

Articolo apparso su “il Galatino” – quindicinale salentino di informazione – Anno XLIX – n. 19 - 25 novembre 2016    

 
Di Michele Stursi (del 16/03/2015 @ 18:53:56, in Recensione libro, linkato 2535 volte)

Che tu sia un amante della lettura o che soffra di un’intolleranza particolare verso ogni forma di scrittura, arriva il momento nella vita in cui incontrerai il tuo libro. C’è gente che lo trova abbandonato su una panchina alla fermata dell’autobus; altri lo ricevono in dono da un amico, da un genitore, da un’amante; altri lo trovano per caso nascosto su uno scaffale di una libreria tra centinaia di altri volumi o relegato in un angolo di una disordinata bancarella di un mercatino dell’usato o dimenticato tra migliaia di cianfrusaglie nel ripostiglio di una nuova casa; altri ne leggono una recensione su un giornale o seguono il consiglio di qualcuno che prima di loro se ne è innamorato; ci sono persone che trovano il libro della loro vita perché incuriositi dalla piega inusuale del sopracciglio e dall’increspatura del labbro superiore di una donna che lo leggeva in treno.

Ci sono infinite circostanze che portano ad incontrare il proprio libro, strade traverse che incrociano più e più volte la via maestra e che talvolta scegliamo di ignorare. Così è stato per Il medico di corte di Per Olov Enquist, romanzo di cui voglio consigliarvi la lettura e che annovero tra i libri che, per vari motivi, hanno aggiunto qualcosa al mio modo di vedere e affrontare la vita.

La prima volta che ne ho sentito parlare, ne sono convinto ma allo stesso tempo non ne sono sicuro, è stato qualche anno fa al cinema. Ho come l’impressione, e voglio che tale rimanga, di aver visto in quella circostanza il trailer di un film tratto dal libro di Per Olov Enquist e di esserne rimasto pressappoco incuriosito. Non sono mai andato a controllare se il film esiste davvero (lo lascio fare a voi), ma a me piace far partire la storia del mio incontro con questo libro da una sala semioscura di un cinema semideserto.

La seconda volta che ne ho sentito parlare è stato in una recensione di Alessandro Baricco su La Repubblica, che cominciava più o meno così: “Accadde tutto realmente, nel piccolo regno di Danimarca, nella seconda metà del Settecento”. E alla prima idea che mi ero fatto vedendo il trailer si è inanellato il racconto di Baricco, ricco di impressioni e suggestioni personali, che non ha fatto altro che soffiare su un tizzone che giaceva tra la cenere della mia curiosità. Ed ecco riemergere la storia del medico tedesco Friedrich Struensee che si insinua come un tarlo nella corte demente e insensata di Danimarca, che si guadagna la fiducia prima del re, un ragazzo tacciato di pazzia e come tale inadatto a svolgere il suo ruolo di sovrano, e poi della regina (divenendone l’amante) e che in poco tempo a suon di riforme imprime alla Danimarca “una delle più grandi rivoluzioni illuministe della Storia”.

E poi di nuovo ritorna a perseguitarmi qualche anno dopo, quando mi capita di rileggere la stessa recensione di Baricco nella raccolta Una certa idea di mondo pubblicata da Feltrinelli e poi ancora eccolo menzionato come il capolavoro di Per Olov Enquist in un articolo apparso sull’inserto domenicale La Lettura del Corriere della Sera in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Il libro delle parabole.

C’è ne voluto di tempo prima imboccare la traversa giusta! Alla fine ce l’ho fatta a leggere Il medico di corte e forse solo grazie a queste mille peripezie letterarie oggi posso anche raccontare la storia dell’incontro con uno dei libri della mia vita.

Da leggere: Per Olov Enquist Il medico di corte. Iperborea 2001 pagg. 416

Michele Stursi
 
Di Redazione (del 06/11/2018 @ 18:50:46, in Comunicato Stampa, linkato 981 volte)

Giovedi 8 novembre alle ore 19.00 presenteremo a Levèra il romanzo d'esordio di Antonio Galati, SPLEEN, Edizioni I LIBRI DI ICARO - Lecce. 

Dialoga con l'autore: Dino Palumbo.

La parola spleen deriva dal greco "splen" ed è giunta ai nostri giorni attraverso i Fleurs du Mal del poeta Charles Baudelaire. Spleen rappresenta la tristezza meditativa, la malinconia, la voglia di non vivere, la ricerca della felicità. In questo racconto si descrive proprio la malinconia per un passato irraggiungibile: il Novecento, un secolo in cui si respirava aria di fratellanza, rispetto, amor patrio e che al mondo d'oggi sembra così distante. Lo spleen è sempre presente in ogni persona, anche in chi, in apparenza, sembra vivere una vita ideale.  

Antonio Galati, nato a Maglie, ha dimostrato sin dall’infanzia una certa propensione verso la letteratura e la musica. Nel 2004 ha iniziato a comporre poesie, risultando vincitore in diversi concorsi poetici nazionali tra cui il ‘Premio Valeria’ nel 2007. Dal 2013 ha cominciato a scrivere i primi racconti brevi, classificandosi al primo posto come vincitore assoluto della seconda edizione del concorso letterario ‘Salento Quante Storie’. Laureato in Lettere Moderne, ha svolto attività di studio Erasmus presso l’Universidade di Lisbona. ‘Spleen’ è il suo romanzo d’esordio. 

 

Levèra 

via Bellini 24 - Noha (Galatina)

 

 
Di Andrea Coccioli (del 02/08/2016 @ 18:48:26, in Note a Margine, linkato 2128 volte)

Continua la rassegna Note a Margine 2016  anche in questo soleggiato mese di agosto. Il terzo appuntamento della minirassegna galatinese  vedrà protagonista  il giornalista  Ennio Ciotta, con  la presentazione del suo ultimo romanzoDi contrabbando” edito da Bepress, alle ore 21 presso il pub “Al posticino” situato a Galatina di fronte Chiesetta San Paolo.

Dopo l'introduzione di Andrea Coccioli, presidente dell' Associazione Culturale  CityTelling l'incontro verrà moderato da Francesca Malerba l'autrice galatinese di “Salento Rock-andati via senza salutare”.

Una serata all'insegna dei racconti di una “periferia dell'umano” brindisina,  non troppo distanti da quelli appartenuti anche alla nostra cittadina salentina  diversi anni orsono.

“Di contrabbando” è il romanzo della vita vera. Una vita segnata dalle contraddizioni di chi non capisce o non vuol capire il valore del compromesso. L’epica della realtà che sfida la legge con ogni mezzo necessario in nome di una libertà dai confini incerti.

Di contrabbando come le casse di sigarette che corrono veloci stipate negli scafi che solcano il mare in tempesta, nei cofani delle auto blindate in colonna verso un traguardo invisibile agli occhi, per poi essere vendute agli angoli delle strade nella fitta rete del lavoro clandestino che sfama centinaia di famiglie. Casse, stecche, pacchetti, vecchie Alfa Romeo elaborate, onde del mare più alte della paura di morire e poi il coraggio di resistere nonostante il fiato sul collo diventi sempre più pesante. Di quale monopolio stiamo parlando? Di quale Stato? Di quale reato? Qui nessuno ha visto niente. All’ombra dei giganteschi palazzi della periferia le vite si intrecciano in mille trame differenti. L’amore è rumoroso e intrattabile come il motore elaborato di un auto pronta per una nuova notte di sbarchi, l’amicizia segue rotte polverose e d’improvviso si fa pericolosa in nome di un potere che acceca come un faro di vedetta puntato dritto negli occhi. C’è chi abbandona il campo convinto di meritare giorni migliori e chi rimane a combattere il dolore a denti stretti sperando che l’inverno passi una volta per tutte e che la primavera sia per sempre. L’anima è in bilico su un filo teso nel vuoto. Nessun confine fra legalità ed illegalità. Niente da rinnegare. Si va avanti a muso duro. La famiglia è il primo motore immobile. Tutto ruota intorno all’attenzione di ogni singola mamma per il destino di figli che la strada ruba troppo presto dalla protezione del loro grembo. Il tempo passa ma nulla cambia e la ragione, ammesso che ne esista una, diventa solo una questione di punti di vista.
A seguire live acustico.

 

Associazione Culturale CityTelling

Facebook: Note a Margine - Galatina 2016

Twitter: NoteAmargineGalatina

 

Venerdi  22 ottobre alle ore 18,30 presso la Chiesa del Collegio di Galatina, ritorna la Rassegna  culturale di “Incontri al Collegio”. Ci siamo fermati a febbraio 2020, questi mesi appena trascorsi sono stati mesi  difficili per tutti, ora ripartiamo con l’entusiasmo e la commozione dei nuovi inizi.

Apriranno la stagione 2021 le pagine di ”Ramondo Lo Scudiero – L’avventurosa storia di Raimondello Orsini del Balzoromanzo storico ed opera prima di Antonio Chirico

Il romanzo è liberamente ispirato alla figura di Raimondello Orsini del Balzo figura rilevante nella storia dell’Italia Meridionale ed a cui Galatina, deve molto con la fondazione e costruzione insieme alla moglie Maria d’Enghien, della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria.                                                                       “RAMONDO LO SCUDIERO” ci porta nella storia del Regno di Napoli tra il XIV e XV secolo ,vi si narra di battaglie, della disputa tra i due pretendenti al trono, degli intrighi che portarono nella chiesa cattolica allo scisma d’Occidente, vi sono richiami al Santo  Graal , ma si narra anche di amori e passioni. Tutti gli elementi contribuiscono a rendere il romanzo d’esordio di Antonio Chirico interessante anche perché denso di riferimenti storici precisi con una nota finale che informa il lettore delle parti non autentiche realmente accadute.

Dialogano con l’autore, Pompea  Vergaro Critica d’Arte e Giornalista e Angela Beccarisi Critica d’Arte e Guida, Francesco Mauro Attore ed Insegnate di teatro curerà le letture.

Introduce Don Antonio Santoro Rettore della Chiesa di Santa Maria della Grazia.

Antonio Chirico avvocato civilista di origine brindisine risiede a Lecce ed è alla sua prima opera letteraria.

Emilia Frassanito

 

Il libro frutto di riflessioni ed esperienze di una veneziana di origini salentine che ha vissuto anni in Pakistan e che in queste settimane, nella provincia di Lecce, sta partecipando a diverse rassegne letterarie presentando questo libro e il precedente romanzo, Il vecchio Leone (Sanremo, Leucotea 2017).

Il libro sul Pakistan è connesso non solo alla tematica del viaggio ma a quella, quanto mai attuale, dell'Intercultura e sarà presentato a Noha presso il Circolo ARCI LEVèRA mercoledì 27 Giugno alle ore 20.30.

È una testimonianza ulteriore dello spirito di una donna italiana che viaggiando e lavorando all'estero, non smarriscoe le proprie radici.

 

 

 

 

 
Di Antonio Mellone (del 12/10/2012 @ 18:42:04, in Ex edificio scolastico, linkato 3411 volte)

Mentre qualche rappresentante politico nostrano, incontrandoci per caso alla festa patronale di San Michele (di ritorno dalla titanica fatica di fungere – qui la u potrebbe essere sostituita dalla i - da orante e compunto codazzo della sacra statua portata in processione), ci riferisce verbalmente (tanto verba volant) che “mai e poi mai” lascerà qualcosa di scritto in merito allo scandalo del deserto che avanza inesorabile intorno alla vecchia scuola elementare di Noha, qualcun un altro dal “fronte opposto” – virgolette obbligatorie – sta dimostrando ancora una volta una prontezza di riflessi degna di una mummia, tanto che, se proprio volessimo rintracciarne il fantasma o ascoltarne finanche un pensierino da seconda elementare, probabilmente potremmo esser costretti ad organizzare una seduta spiritica.
Quell’unico lettore, che per caso si fosse connesso al nostro sito (compiendo un gesto altamente rivoluzionario, come quello di sottrarre del tempo a facebook), dovrebbe sapere che abbiamo ormai perso la voce  per urlare nella solita desolata landa nohan-galatinese il fatto che è un vero peccato che la vecchia scuola elementare di Noha non possa essere rimessa in funzione, magari come centro socio-educativo, dopo tutti “i lavori effettuati a regola d’arte”, perchè manca l’allaccio all’energia elettrica. Pare che, pur potendo, l’azienda energetica non voglia effettuare questo benedetto innesto alla rete, in quanto sarebbe necessaria prima la costruzione in mattoni e cemento di una cabina elettrica.
Noi, a questo punto, crediamo che i nostri rappresentanti politici ed i burocrati comunali di complemento - pur rischiando un ictus da sforzo - dovrebbero spendersi un po’ di più di quanto non abbiano saputo fare fino ad oggi per fare in modo che quella spesa di unmilionetrecentomilaeuro non fosse presa e buttata direttamente nella spazzatura (ma ogni giorno che passa - senza che alcuno osi alzare paglia – in effetti quei soldi rischiano di essere stati spesi invano). E sarebbe pure ora che lo facessero senza il bisogno di questi petulanti articoli (ché poi magari qualcuno con la coda di paglia s’offende pure), o della solita raccolta di firme, delle strigliate, dei video di denuncia, delle rivendicazioni locali, della satira graffiante, delle suppliche da parte dell’“antipolitica” (vocabolo buono ormai per tutte le stagioni). Altrimenti che senso avrebbe il voto, anzi il suffragio dei cittadini? Quello del suffragio pe’ l’anima de li morti
Invece, siamo ancora qui a scrivere che della promessa lista degli arredamenti, che quei signori preparatissimi e attenti alle istanze dei cittadini avrebbero dovuto inviare al sito di Noha, non si intravede nemmeno l’ombra; che ci sembra che siamo ancora una volta di fronte a gente pronta a svignarsela di fronte all’incipiente degrado nonostante il vento sia cambiato (in effetti oggi sembra spirare da scirocco, e gli acciacchi della politica iniziano a sentirsi tutti quanti); che a questi signori (ma anche a molti nohani, come al solito ignari di tutto) sembra non importi proprio una beneamata mazza di tutta questa storia, e tanto meno di render conto ai propri cittadini delle loro opere e soprattutto delle loro omissioni; che nell’ultima intervista al Sindaco effettuata recentemente dall’ottimo Tommaso Mascara di galatina2000, nel corso di una trentina di  minuti conversazione su “programmi e cantieri aperti”, la parola “Noha” è apparsa solo di striscio, ma per altro, mentre l’espressione “vecchia scuola elementare di Noha”, risulta non pervenuta nemmeno per sbaglio. Come se uno scandalo come quello che da mesi andiamo denunciando su questo sito non fosse per nulla rilevante. Anzi, come se fosse un’inezia, una quisquilia, un’invenzione, ancora una volta, di quei rompiscatole degli “antipolitici”.
In compenso il nostro sindaco ha parlato, tra l’altro, di ristrutturazioni e creazioni di nuovi “contenitori culturali”. Però a Galatina, s’intende: non c’eravamo accorti – che sbadati che siamo - che Noha, Collemeto e Santa Barbara sono da un bel pezzo frazioni di un altro comune.
Orbene, signore e signori: uno di questi nuovi “contenitori” potrebbe essere, tanto per cambiare, il Cavallino Bianco (e te pareva!).
Speriamo che almeno per quest’altra opera, prima di ogni altra architettura, anzi prima ancora dei cessi, le menti pronte a stilare avveniristici progetti di restauro, ristrutturazione o riconversione pensino almeno a quell’altro contenitore fondamentale - a quanto pare necessario ma pur sempre non sufficiente - chiamato in gergo tecnico “cabina elettrica”. Non sia mai che si fosse costretti anche in questo caso a ripiegare su di un allaccio di serie B, cioè un collegamento abborracciato di 10 kwh, anziché dei 50 necessari a far funzionare una struttura pubblica come Dio comanda.    

Antonio Mellone

P.S. Gli articoli su questo tema crediamo che (purtroppo) dovranno continuare a comparire su questo sito ancora per un bel po’. E saranno a puntate anche questi ghirigori di parole, alla stessa stregua di un novello romanzo d’appendice (o d’appendicite, di genere horror).
In effetti abbiamo ancora qualcosina da dire in merito allo stato di fatto e di diritto dell’opera, in merito al concetto di “antipolitica”, e alle iniziative che abbiamo in mente di porre in essere.
Ovviamente saremo costretti a vergare le nostre considerazioni a buon mercato anche sulle ultimissime minchiate che ci è toccato di sentire. Ma questo nelle prossime puntate.

 
Di Michele Stursi (del 23/07/2012 @ 18:39:41, in Letture estive, linkato 2863 volte)

Prendi tre sorelle, molto diverse tra loro, e falle ritrovare dopo qualche anno nella casa in cui sono cresciute, a Barnwell, piccola cittadina universitaria del Midwest americano. Tre sorelle che apparentemente sembrano non avere nulla in comune, se non una smodata passione per la lettura; tre sorelle caratterialmente molto diverse, che aspirano a sogni differenti e che hanno fatto scelte molto diverse nella vita. Ora che ce l’hai tutte e tre sotto lo stesso tetto, adesso che si prendono cura della madre che ha scoperto di avere un tumore al seno e che si ritrovano di nuovo a star dietro al padre, eccentrico docente di letteratura inglese, cultore di Shakespeare in particolar modo (di cui conosce a fondo tutta l’opera), ecco ora che ce l’hai tutte e tre di fronte prova a tessere una trama, prova a pensare a come dipanare la matassa di una possibile storia.
Ti dovrei dare qualche altro suggerimento, magari un piccolo aiuto ti potrebbe essere sufficiente a capire un sacco di cose riguardo la piacevole storia di Rosalinda, detta Rose, Bianca, meglio conosciuta come Bean, e da ultimo Cordelia, da tutti chiamata Cordy. Tre sorelle non a caso fatali, che non a caso si ritrovano vestite dalla penna di Eleanor Brown ognuna con una particolare personalità. Basta, ve lo dico (anche perché lo trovate subito scritto in copertina!): il collante della storia è Shakespeare, tutti i pezzi stanno insieme grazie a lui.
Sfogliate infatti l’opera del sommo poeta inglese e capirete subito che le sorelle fatali alludono in realtà alle tre streghe del Macbeth, che Rose, Bean e Cordy si ritrovano addosso, per volere del padre, i nomi di eroine di matrice shakespeariana, e che ad unirle è la straordinaria capacità di citare Shakespeare in ogni occasione durante la giornata.
«La nostra è una storia trina, dalla linea di confine in continuo movimento, caotica, priva di equilibrio, di equanimità. Due contro una oppure una contro l’altra, mai tutte e tre insieme. Il giorno della nascita di Cordy, Rose si alleò con Bean. Due contro una. E quando Bean si ribellò, rifiutandosi di partecipare ai giochi proposti da Rose, lei scoprì di potersi coalizzare con Cordy, che accettò docilmente il ruolo di gregaria. Due contro una. Finché Rose non se ne andò di casa e fummo di nuovo divise, una contro l’altra».
Un romanzo, quindi, molto piacevole, da leggere sotto l’ombrellone. Una storia poco impegnativa, molto lineare (a volte banale e scontata), scritta con uno stile abbastanza sobrio, digiuno di sofisticazioni letterarie. Di certo non può essere considerata una rivelazione, ma Le sorelle fatali (Neri Pozza, pp. 363, 2011) è senz’altro un buon sostituto ai romanzi sdolcinati e troppo commerciali che da qualche anno a questa parte siamo abituati a mettere nella sacca da mare.
Se non altro, questa è una buona occasione per rispolverare la poesia del bardo.

Michele Stursi

 
Di Redazione (del 23/05/2013 @ 18:31:47, in Un'altra chiesa, linkato 2914 volte)

La morte di don Andrea Gallo ci coglie di sorpresa, nonostante fossimo in attesa che accadesse. La verità è che non volevamo che morisse perché ci teneva sulle sue ginocchia e ci consolava, ci coccolava. In un tempo di papi e di gerarchie fissati su un’idea di Dio astratta, don Andrea ci fa vedere un Dio con le mani sporche di umanità, ansioso di sporcarsi e stare con la gente, fuori del tempio isolato da un muro d’incenso e d’ipocrisia.
Lo scorso anno a Palazzo Ducale di Genova, alla presentazione del mio romanzo «Habemus papam», in cui preconizzavo la necessità di un papa di nome Francesco, si entusiasmò e, prendendomi da parte, mi disse: «Sarebbe ora, mi piacerebbe esserci». Ora sono contento che abbia visto l’arrivo di papa Francesco e abbia fatto appena in tempo a pubblicare l’ultimo suo libro «In cammino con Francesco», quasi assaporando il cambio di marcia tanto desiderato.
Don Andrea Gallo, nella mia esperienza di amicizia e di affetto, è un uomo e un profeta di Dio, nato e cresciuto «strabico» per natura e per vocazione. Sì, era strabico come Mosè nell’esperienza del Sinai. Ebbe sempre una doppia stella polare: un occhio volto sempre al popolo e uno a Dio, mai separati. Strabico, ma non scisso. Per lui Dio e il suo popolo di poveri, di beati, di umili, di emarginati, «gli ultimi» sono la stessa cosa e se, per caso, non lo erano, in lui si fondevano e si identificavano.
Don Andrea Gallo, ha costruito ponti, nella chiarezza dei fondamenti della Costituzione italiana che, nell’era del vergognoso berlusconismo, ha difeso con ardore e passione da Partigiano, e nella linearità ideale del Vangelo che ha vissuto «sine glossa» perché il Vangelo è vita donata e ricevuta senza avere in cambio nulla. Non ha una vita sua e tanto meno privata: uomo di tutti, uomo sempre accogliente e disponibile. Per questo don Gallo è un prete a 360° senza pizzi e merletti, ma vestito dell’umanità malata e carica di voglia di esserci. Quando incontra una persona, la guarda con quegli occhi profondi e gli trasmette il messaggio che lei e solo lei è importante e vale la pena «perdere tempo» per lei.
Ora don Andrea Gallo è morto. Ora don Gallo vive perché, se da un lato ci lascia più soli, dall’altro lascia a noi un impegno e un compito: essere coerenti come ci ha insegnato in vita e in morte. Per me, che lui chiamava affabilmente «il mio teologo preferito», inizia un cammino di solitudine ecclesiale ancora più intensa perché quando c’era lui, bastava un incontro, una telefonata per rincuorarci a vicenda e confidarci cose da preti. Ora resto solo, ma con la certezza che averlo conosciuto, amato, difeso, condiviso è uno dei regali più grandi che Dio mi ha fatto e di cui sono grato.
Non piango la morte di don Gallo, piango per la gioia di essere stato considerato degno di averlo avuto come amico e padre.
Ciao, Partigiano, aiutami a essere sempre più vero e sempre più coerente come mi hai insegnato con il tuo esempio e la tua dedizione di prete da marciapiede. Ti vedo in cielo attorniato dai poveri e dalle prostitute, sì quelle che ci precedono nel Regno di Dio.

Don Paolo Farinella - Genova

 
Di Antonio Mellone (del 21/04/2020 @ 18:10:24, in NohaBlog, linkato 1087 volte)

Mai come in questo periodo si sente tanto parlare di Librerie: dai, i negozi di quelle cose con i segni grafici sulle pagine, da aprire, sfogliare, e se capita perfino leggere.

Approfitto del momento d’oro del settore per suggerire i primi quattro imperdibili best seller:

1) I PROMESSI SPONSOR di Alessandro Menzioni.

È la storia di una raccolta fondi da parte di un bel po’ di magnati spinti da conscience-washing (credendo di averne una, di coscienza), finalizzata alla nascita di un lazzaretto all’interno della fiera di Milano - onde l’etimologia “magnate” è costretta a oscillare tra il verbo “magnare” e il lemma “magnaccia”.

I donatori di sangue altrui sono stati così discreti da aborrire qualsiasi forma di Grida, menzione in tv, conferenze stampa, e trafiletti cartacei e on-line. Il battage su importi e ragione sociale del mercante in fiera è da ascrivere soltanto a una fuga di notizie (cd. provvida sventura). Pare che l’esempio sia diventato così virale (dagli all’untore!) che al di sotto di quel ramo del lago di Como, cioè verso Mezzogiorno, ha scatenato una corsa emulativa all’ultima donazione. Insomma davvero Bravi. 

2) L’AMORE AI TEMPI DEL COVID di Gabriel Garcìa Marchette.

Un romanzo così mozzafiato che potresti a tratti aver bisogno di essere intubato. Un classico. È la storia di un tizio costretto ad aspettare “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese” per poter finalmente raggiungere la sua bella, e dunque saltarle addosso, senza la necessità di dover firmare, in caso di fermo di polizia lungo il tragitto, un’autodichiarazione (d’amore) ultima versione.

Fa il paio con il celeberrimo “Cent’anni d’inettitudine”, inopinatamente (ma solo per vedere se eravate attenti) attribuito dal Tgcomico24 al povero Louis Seppur Veda.  

 3) LA SACRA CORONA UCCIDE SOLO D’ESTATE di Pifferaio (Magico).

Questo libro è una forma di evasione dalla quarantena, altrimenti detta regime del 41bis. Pare che il marchio Corona verrà registrato. Dopo la famosa Birra pale lager messicana, la griffe del noto virus - vero e proprio gioiello della corona - potrà essere applicato a occhiali, visiere, tute, guanti in lattice e, in seguito a Trattativa, anche ai vaccini obbligatori per tutti. Insomma da cosa nasce cosa nostra.

Però muti, non ditelo in giro, vi prenderebbero per complottisti. Guardate ad esempio che fine han fatto fare a quel complottista di Peppino: l’hanno impastato.

 

4) MASCHERINE NUDE di Luigi Pirlandello.

Un medical thriller tutto segreti sull’uso della mascherina fuori dal teatro e/o al di là dei periodi carnascialeschi.

Il primo dei citati segreti è quello sotteso all’utilizzo di codesto DPI nei viaggi solitari in auto, vera e propria moda primavera-estate degli anni venti di questo secolo.

Il secondo - irrisolto - riguarda l’importanza capitale del famoso Comitato di Esperti, ovvero Task Force, di nomina governativa. Pare che per la Fase Due il suddetto Comitato in seduta plenaria abbia scoperto un portentoso antidoto contro gli effetti degli starnuti sul parabrezza, individuandolo, dopo dieci ore ininterrotte di videoconferenza, in un efficacissimo sostituto della mascherina, vale a dire i tergicristalli interni (una novità assoluta di ultima generazione che diverrà di serie come le cinture di sicurezza).

Il terzo e ultimo segreto di vittima sarà la modalità di smaltimento dei miliardi di mascherine, versione bavaglio, necessarie allorché ci imporranno (come disposto nell’esemplare Lombardia, e dunque anche a Nardò) di adoperarle ovunque, persino all'aperto, e nonostante il distanziamento sociale di almeno dieci metri di raggio dal primo essere vivente dotato di senno. Per non parlare poi dell’escatologia, cioè dei destini ultimi delle tonnellate di Amuchina da utilizzare in abbondanza (manco fosse diserbante), unitamente agli scampoli dei rimanenti presidi (dirigenti scolastici inclusi).

Si vocifera in una fossa comune. Ma non è escluso che la sopraccitata Task Force imponga di incenerire il tutto in un focolaio.

Antonio Mellone

 
Di Antonio Mellone (del 10/01/2021 @ 17:59:49, in NohaBlog, linkato 1226 volte)

Nossignore, questo non è il panegirico del trancio di filoncino con una barretta di cioccolato, una delle merende certamente più salutari rispetto agli snack industriali pieni zeppi di grassi animali, zuccheri raffinati e sale quanto basta e avanza (roba da farti venire in un baleno carie, sovrappeso e problemi cardiovascolari): è invece la storia di un negozietto di abbigliamento per bambini dagli Zero ai Sedici anni, ubicato in piazzetta Trisciolo, uno dei campielli storici più graziosi di Noha, all’imbocco di via Benevento, là dove un tempo sorgeva il vecchio forno a legna della buonanima di Gino Misciali Maraiuli. E chissà che questa denominazione non intenda rievocare, più o meno involontariamente, la fragranza di pucce e panetti appena sfornati dal buon Gino ogni santa mattina prima dell’aurora.

L’ha voluto nel 2004 Anna Maria Baldari, la titolare, dopo aver maturato precedenti esperienze nel medesimo settore nelle città “più commerciali” (almeno sulla carta) di Maglie e Casarano. Dice: “Ma a spingermi fino a questo passo sono stati anche i miei: cioè mio marito Michele, mia figlia Maria Grazia, e soprattutto l’Umberto, il piccolo di casa, che soffriva – ma io più di lui – della mia assenza per molte ore al giorno. Mamma – mi ripeteva in continuazione – apri il negozio a Noha e io sarò contento, anzi contentissimo. […] E fu così che ristrutturammo i locali dell’ex-panificio di mio suocero, e iniziammo questa nuova avventura”.

Anna Maria mi racconta la sua passione per l’abbigliamento, l’atelier, i corredini di una volta: “Sin da piccola adoravo confezionare vestiti per le mie bambole, ed ero pure brava. Pensa, più grandicella ho frequentato un corso di taglio e cucito. Sì, in fondo io mi sentivo (mi sento) una sarta, ma davvero non ho il tempo nemmeno per fare gli orli ai pantaloni che vendiamo”. Insomma è una che capisce di stoffe, materiali, modelli, cuciture interne ed esterne e vestibilità: “Ho sempre scelto il meglio nei miei campionari: devi guardare tanti aspetti, e soprattutto la qualità rapportata al giusto prezzo. Oggi sembra che la cosa più importante sia la moda del momento a quattro soldi, ma a volte si tratta - scusami se parlo così - di vere e proprie porcherie. Invece guarda per esempio questo completo, la perfezione delle sue cuciture, la precisione del taglio, la morbidezza del tessuto, e soprattutto il pregio della lana e del cotone con cui è stato prodotto, oltretutto da una ditta salentina”. Mi fa i nomi di alcune aziende produttrici a livello nazionale, che per mia ignoranza della materia non conosco, ma mi rassicura su quanto diano sempre il massimo in termini di comodità, sicurezza e rispetto della salute della pelle, al contrario di certi indumenti “di battaglia”, spesso offerti da certe grandi catene di spaccio di guardaroba indistinguibili dalle cineserie usa e getta.  

Ora c’è da puntualizzare il fatto che da un bel po’ da Pane e Cioccolato si trova anche (soprattutto) abbigliamento per gli adulti, principalmente da donna. L’idea è nata spontaneamente nel corso degli anni dal fatto che i sedicenni, o molti fra loro, dal punto di vista delle taglie sono ormai da svariati lustri uomini e donne belli che fatti: sicché capitava non di rado che genitori, zie, nonne e comari andassero a comprare qualcosa per il proprio pargolo, uscendone invece con un capo tutto per sé. E così Anna Maria decide di ampliare l’intervallo inizialmente chiuso e limitato, passando dal vestiario Zero-Sedici a quello Zero-Infinito. Quando si dice che un’attività cresce in tutti i sensi.

Io confesso che, l’altro giorno, in questo emporio di magliette e calzoncini, maglie, camicie, cardigan e felpe, abiti, gonne, pantaloni, giacche e cappotti, berretti e pigiami, tute e giubbini per un attimo mi son sentito come catapultato nell’era geologica in cui mandavo a memoria la partizione delle Alpi e ripetevo la tavola pitagorica stampata sulla copertina dei quaderni a quadretti: era l’epoca in cui Berta filava (anzi, visto il contesto, Berta sfilava), e la regina madre per trovare qualcosa da mettermi addosso mi conduceva a Galatina da Cappuccetto Rosso, il negozio di cose per mocciosi, gestito dalla signora Franca e dal marito di cui non ricordo il nome, un signore col parrucchino, a mio avviso uscito provvisoriamente da una fiaba di Andersen. Questo invero accadeva semel in anno, in quanto, con una certa frequenza indossavo i vestiti dismessi da Livio, il mio fratello maggiore, attuando in un sol colpo il riciclo dei beni, la strategia dei rifiuti zero e pure l’economia circolare ante-litteram (onde non mi si dica io sia un ambientalista dell’ultima ora). Il fatto che l’acqua passata sotto i ponti dei rispettivi fratelli corrispondesse a quella di un novennio era un dettaglio di secondaria importanza, sicché ostentavo quei panni senza fare un plissé, benché talvolta mi sentissi azzimato come manco il piccolo lord (dico quello del romanzo dell’800).

Ma ritorniamo a Pane e Cioccolata, la bottega nohana che resiste nonostante i centri commerciali, le grandi catene in franchising, le piattaforme web e ultimamente le chiusure a singhiozzo per via di un virus. Esistono, come in questo caso, dei modi per riuscire ad andare avanti malgrado tutto, senza fare tante chiacchiere, riempirsi la bocca di vision, mission e fashion, e sbandierare i grandi marchi.

Insomma, in molti casi come questo, per cavarsela e bene non ci vuole la mano di Dior.

Antonio Mellone 

 
Di Marcello D'Acquarica (del 10/07/2014 @ 17:55:57, in NohaBlog, linkato 3202 volte)

Sembra tutto inutile. Scriviamo, parliamo, denunciamo e insistiamo nel cercare di evidenziare le malefatte e i malfattori, ecc. e poi che cambia? Niente! O comunque poco più di niente.

Per non affliggerci più del dovuto, forse, ci converrebbe vivere con i paraocchi come si fa con i cavalli. Oppure farsi iniettare una buona dose di farmaco intorpidente, fino allo schiacciamento totale di quei quattro neuroni che si ostinano a schizzare fuori da quell’atavico conformismo che è poi la causa di questo niente.

Da noi, il detto riportato nel romanzo di Tomasi di Lampedusa: “tutto cambia affinché nulla cambi”,  andrebbe rivisto forse così: “nulla cambi affinché tutto peggiori”.

Infatti, dopo tutte le lamentele pre-elettorali, ad amministrare il bene comune vengono nominati sempre i soliti arcinoti. Tutte bravissime persone, per carità, ma visti i risultati, se non venisse eletto nessuno, probabilmente, tutto resterebbe come prima con il grande vantaggio che non si sommerebbero altri danni.

Che novità ci sono? -starete pensando voi.

Appunto, nessuna: le tangenziali a Galatina, tagliano invece di tangere; le piste ciclabili (e soprattutto le biciclette) restano solo chimere; i marciapiedi sono solo sul vocabolario; si aggirano fantasmi di nuovi mostri tipo il mega-sito per il compostaggio di 30.000 tonnellate annue “sennò perdiamo i finanziamenti”; non c’è nessuno che voglia benedire la terra; si condannano i peccati di sesso (e mancu tutti) ma non quelli contro la legalità; con il caldo e lo scirocco l’aria torna a puzzare di carne morta come la scorsa stagione; l’orologio è morto e tra poco sarà anche sepolto (e senza l’onore delle campane a morto – che fa pure rima); il parco degli aranci è praticamente una nuova 167 per pantegane; la casa baronale cade a pezzi, così come si sta sbriciolando sotto la grattugia dell’inerzia l’annessa torre medievale con relativo ponte a sesto acuto; la masseria Colabaldi è posta in vendita al peggior offerente; le casiceddhre attendono qualche firma perché rientrino nel progetto FAI (Fondo Ambiente Italia), anche se ciò che servirebbe veramente sarebbe il fatto che quella parola “FAI” fosse voce del verbo fare; l’ipogeo sta diventando un calvario, ed il calvario un ipogeo; la casa rossa - subito dopo le camionate di cemento per il grande massetto intorno alla casa bianca - è probabile che con le venture piogge monsoniche diventi una palafitta; la vecchia scuola elementare di Noha ristrutturata, nonostante i proclami e le promesse dell’assessore Coccioli, continua ad avere un “allaccio da cantiere” di 10 kw e non di 50 e presto resterà nuovamente inutilizzata come l’altro catafalco di via Bellini angolo via Ippolito Nievo; le statistiche dicono che nel triangolo dei prodotti DOP (Lecce, Galatina, Maglie) la percentuale di malattie tumorali supera di gran lunga la media delle zone più industrializzate d’Italia. E per giunta senza avere le industrie, che di solito sono le principali indiziate per l’inquinamento ambientale. Come dire: curnuti e mazziati.

Fino a qualche tempo fa, quando le persone mi vedevano arrivare, mi salutavano così: “bè… osce ssi rrivatu? E quandu te ne vai?”, o comunque i soliti convenevoli per una buona accoglienza.

Adesso nemmeno apro bocca che da più parti suonano lugubri annunci di concittadini colpiti da malattie gravissime. Credo che sia ora di accantonare un po’ la parola “speranza”, quella cioè armata di buone intenzioni, di togliersi i paraocchi, di smetterla di pensare che accada solo agli altri o che le cause siano ignote.

Forse è giunto il momento di fare tutti qualcosa, smettendo per esempio di delegare ai soliti falsi “non vedenti” la politica nostrana.

Cosa fare? A questo proposito mi sono venute in mente delle parole ascoltate in circostanze diverse e da persone molto distanti fra loro, geograficamente e culturalmente. Ricordo per esempio che, in occasione della Festa dei Lettori del settembre 2008, e più precisamente riguardo alla salvaguardia dei nostri beni culturali, il Soprintendente della provincia di Lecce, dottor Giovanni Giangreco, a cui avevamo affidato tutte le nostre speranze, concluse dicendo a tutti i presenti nell’atrio del palazzo baronale, che a quel punto, la salvaguardia dei nostri beni dipendeva dai nohani (e non dalla Soprintendenza) e che tutti ci saremmo dovuti tirare su le maniche.

Lì per lì restai deluso, mi sembrò quasi un tradimento. Gira e sbota, pensai, ti fanno promesse e poi tocca sempre a nnui!

Poi ebbi l’occasione di ascoltare l’intervista fatta da un giornalista a Carmine Schiavone, ex boss del Clan dei Casalesi e pentito della Camorra, il quale esordì dicendo che se non fosse stato per la ribellione del popolo, della terra dei fuochi, non se ne sarebbe mai parlato così tanto. E il problema non sarebbe mai venuto fuori.

E di recente, giusto per toglierci ogni dubbio, la stessa cosa ha annunciato Papa Francesco a proposito di cambiamento della Chiesa, dove il Santo Padre diceva appunto che se non è la gente a volerlo fortemente, la Chiesa non cambierà mai

( e quindi, aggiungo io, nemmeno lo stato devoto).

E poi leggi di inchini di madonne ai boss, e soprattutto di sponsorizzazioni di feste patronali da parte del TAP, l’ennesimo scempio dedicato alla mafia, e ti cadono un’altra volta le braccia, e  pure il resto.

Marcello D’Acquarica

 
Di Albino Campa (del 05/11/2010 @ 17:35:56, in Il Mangialibri, linkato 4518 volte)

Un piccolo assaggio del romanzo "Il Mangialibri" di Michele Stursi. Chi volesse gustare appieno questa deliziosa pietanza per l'intelletto... non può mancare alla PRESENTAZIONE.

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Presentazione romanzo Il Mangialibri di Michele Stursi  sabato 6 novembre ore 19  Oratorio Madonna delle Grazie.

Programma della serata:

Interverranno

  • Don Francesco Coluccia
    direttore del Laboratorio Culturale Benedetto XVI - Noha
  • Antonio Mellone
    dell'Osservatore Nohano
  • Paola Congedo
    della Biblioteca Giona
  • Michele Stursi
    autore de "Il Mangialibri"

Presteranno la loro voce alle parole del romanzo:

  • Paola Rizzo
    inimitabile pittrice d'ulivi
  • Denise D'Amato
    amica dell'autore


e tanti altri lettori...

Durante tutta la serata si potrà visitare l'inedita mostra fotografica di Marzia Cisotta

 

A pochi giorni dall’uscita in libreria, Catena Fiorello presenta il suo ultimo libro “ Un padre è un padre” edito da Rizzoli, a Galatina il 6 luglio nella splendida cornice dell’Amarcord Wine Bar in Piazza San Pietro alle ore 20,30.

 L’evento promosso ed organizzato dalla libreria Fiordilibro di Galatina, vede la partecipazione del Sindaco Cosimo Montagna, dell’Assessore alla Cultura Daniela Vantaggiato e del regista Volfango De Biasi.

Il tema del quarto romanzo dell’autrice siciliana è un rapporto familiare tra padre e figlia ma non è quello che ci si aspetterebbe, perché è la storia non convenzionale di un uomo che vuole a tutti i costi essere riconosciuto padre e di una donna che a ventidue anni scopre di essere figlia .

Paola ,questo è il nome della protagonista alla morte della madre trova una lettera con su scritto il nome e l’indirizzo di chi anni prima le aveva abbandonate,ma la giovane donna contrariamente alla madre non riesce ad avere sentimenti di rancore verso quest’uomo Roberto, che immediatamente sente di amare e lo custodisce agli occhi del mondo, ma quando decide di dare una svolta a questo legame scoprirà un’altra verità che le sconvolgerà la vita per sempre.

 “Un Padre è un padre” è un libro ricco di colpi di scena, profondo, pulito, bello “ la felicità è come il profumo di agrumi in una stanza. Non puoi nasconderla, ed esce fuori appena si apre la porta”

A detta dell’autrice è la storia che avrebbe da sempre voluto scrivere e si capirà leggendo il libro.

Catena Fiorello è nata a Catania, vive a Roma, ma ama profondamente il Salento e lo dimostra ritornando spesso nei luoghi che ha già visitato perché con i suoi lettori instaura un rapporto particolare di affetto e di amicizia e come si fa con gli amici a cui si vuole bene, spesso li si va a trovare per raccontare le ultime novità.   

 Catena Fiorello “ Un padre è un padre”  – Galatina 6 luglio ore 20.30 - Amarcord Piazza San Pietro

 
Di Antonio Mellone (del 13/10/2019 @ 17:13:05, in Fetta di Mellone, linkato 1446 volte)

Incredibile quanto i libri si parlino tra loro. Lo diceva perfino Umberto Eco.

Quest’estate oltre a tagliare copiose fette di Mellone, ho impilato una serie libri per salirci sopra. La lettura ti permette infatti di montare sulla pila dei libri che leggi, e dunque di riuscire a guardare un po’ più in là che dalla solita altezza marciapiede.

Stavolta ho per le mani due volumi: il primo, “Palermo Connection” di Petra Reski (Fazi Editore, Roma, 2018), letto a giugno scorso in concomitanza della prima fetta di Mellone, proprio quando (combinazione?) mi recavo a Palermo per diletto; il secondo è “Pizzica Amara” di Gabriella Genisi (Rizzoli, Milano, 2019), terminato qualche giorno fa in occasione di quest’ultima fetta 2019. In mezzo, come dicevo, molti altri volumi (ma sempre troppo pochi, eh) sicuramente legati in qualche modo da un fil rigorosamente rouge.

Ebbene, questi due libri sembrano in rapporto tra loro come lo sarebbero in matematica le funzioni iniettive, se non proprio biettive. E già con questo mi sono giocato un bel po’ “mi piace”, ma non tanto per il riferimento alla proprietà delle f(x), quanto per il fatto che sto discettando di libri. Vero è che d’altro canto il vero piacere (like) non è mai un fenomeno di massa.

Ma torniamo a questi due scritti da fiato sospeso se non mozzato e alla straordinarietà delle loro relazioni: sulle rispettive copertine prevale il nero (vogliamo definirli noir? Noir); uno è edito da Darkside (Fazi), l’altro, guarda un po’, da Nero (Rizzoli); sono scritti entrambi da due donne, e donne sono pure le protagoniste, due investigatori, Serena Vitale, procuratrice antimafia a Palermo, battagliera e dalla schiena dritta (è ovvio che è la Reski), e Chicca Lopez, salentina, maresciallo dei Carabinieri, tutt’altro che allineata e coperta (io ci vedo la Genisi, che ci posso fare).

In entrambi i volumi si parla di lavori sporchi (quelli che dunque solo i galantuomini possono fare), di depistaggi istituzionali, di infiltrazioni e perbenismo, di documenti falsi e liste di proscrizione, di strategie della tensione, di smemoratezza e commemorazioni di stragi piene zeppe di retorica, di mafie e logge massoniche in cui c’è dentro di tutto, dagli alti burocrati ai faccendieri, dagli onorevoli ai magistrati che chiudono sempre un occhio.

Ma cosa sono, se non trattativa stato-mafia, i bastoni tra le ruote, il “sopire, troncare, padre molto reverendo”, la distruzione di intercettazioni telefoniche presidenziali, il cemento chiamato Sviluppo, l’affaire Xylella e la sua gestione a suon di decretini e giro di soldi, la querela temeraria a mo’ di bavaglio, il giornalismo d’accatto e da riporto, il potere sulla vita degli altri, le riforme della Costituzione promosse dai governi, le anestesie dei diciamo intellettuali, e la rimozione dal dibattito pubblico dell’ultima pesantissima sentenza di condanna (ancorché di primo grado) scaturita dal pluriennale processo Trattativa, diventata vero e proprio tabù per i benpensanti.     

Io so che questa terra è avvelenata da rifiuti tossici, scarti di una ricchezza prodotta e consumata altrove, saccheggiata nei suoi alberi in nome di una guerra contro una misteriosa epidemia, perforata in uno dei tratti di costa più belli da un tubo lungo centinaia di metri che, come una flebo nel corpo di un malato, deve pompare nelle sue vene il gas trasportato dall’oriente, attaccate anche nel suo mare con le trivelle nei fondali vicino Leuca, sempre alla ricerca di gas. Anche questo è progresso? Siamo sotto attacco. Quelli come me che avvertono ancora nella carne una ferita inflitta alla propria terra si sentono così. E si ribellano. E sono in tanti e diventano sempre di più. E sa perché? Perché ci hanno colpito nei nostri simboli più cari”.

Quest’ultimo sembra un brano scritto da Petra Reski: invece è quanto Gabriella Genisi fa dire al suo maresciallo Chicca Lopez a pag. 302. A voi scoprirne molti altri riportati nelle trame di questi due thriller da assaporare con vera appetenza cartivora.

Un romanzo in genere è narrativa, fiction, invenzione. In questi due casi, permettetemelo, è qualcosa di più che semplice calligrafia.

Eh, sì, a volte, come asserisce Petra Reski, per ovviare alle querele dei soliti prepotenti, “per dire la verità sei costretto a mentire”. 

Antonio Mellone

 
Di Redazione (del 22/04/2014 @ 16:51:43, in Comunicato Stampa, linkato 2578 volte)
Appuntamento con la letteratura, mercoledì 23 aprile 2014, ore 19.30 a Galatina(LE).  Marco Montemarano vincitore del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2013, presenta il suo romanzo La ricchezza, presso la Art and Ars Gallery, di Via Raimondello Orsini n.10.  Un incontro che nasce dall'esigenza di un confronto in linea diretta con un autore eclettico ed il suo romanzo, che  ha saputo cogliere gli aspetti più intimi di una generazione che voleva 'sognare'. L'ambiente è quello di una galleria di arte contemporanea, laddove è tangibile il senso del tempo in cui siamo, in un rapporto continuo tra le pagine del libro e la realtà dell'esistente. Dialoga con l'autore Paola Volante. L'evento è promosso dall'Associazione culturale il Mandorlo, in collaborazione con Art and Ars Gallery e libreria La Musa.  

Angela Beccarisi
Rappresentante legale
Associazione culturale il Mandorlo      

Info.  328.3890283

Note sull’autore e sul romanzo.

    Marco Montemarano è nato a Milano, cresciuto a Roma e vive da oltre 20 anni a Monaco. È scrittore, giornalista, traduttore e musicista. Il suo romanzo Acqua passata è tra i vincitori dell’edizione 2012 del concorso IoScrittore ed è stato pubblicato in e-book. I due album musicali Così sempre e The Art of Solo Guitar (RoBa/Zaraproduction) raccolgono sue composizioni per chitarra.

    La ricchezza - A quindici anni Fabrizio Pedrotti è già un gigante. A volte se ne sta in piedi in mezzo alla sua cameretta come se il suo corpo fosse un fantoccio ingiustificabile e lui non sapesse come disfarsene. È bello, è un leader. A scuola è attorniato da una folla di cortigiani, e il mondo gli si srotola ai piedi come un tappeto.
In un giorno del 1975, in un corridoio di un liceo romano, Fabrizio sceglie Giovanni come amico. Gli mette una mano in testa e lo elegge a suo scudiero. Poi lo ribattezza Hitchcock e lo accoglie nella cerchia più intima della sua famiglia.
Nel lussuoso appartamento dei Pedrotti, Giovanni-Hitchcock si muta nel testimone della vita dell’intero nucleo familiare. Riesce a scorgere il padre, un onorevole perennemente assente da casa, in una imbarazzante intimità; si rende subito conto della svagata cortesia ed estraneità della madre; stringe amicizia con Mario, il fratello minore di Fabrizio, un ragazzo gracile, un fantasma in pantofole che rasenta i muri aprendo e chiudendo in silenzio le porte; ha una relazione clandestina con la bella Maddalena, la sorella, una ragazza quasi adulta, coi ricci del colore di certe alghe marine; e infine apprende il lato nascosto, la zona d’ombra del rapporto tra Fabrizio e l’inerme fratello minore.
A volte Fabrizio sente un fremito tra il palato e la radice del naso, una specie di istinto a mordere. E allora lui, il gigante, tortura l’esile fratello minore, lo sveglia a morsi e lo sfinisce con il solletico. Finché Mario, che è in preda al panico al minimo tocco, smette quasi di dare segni di vita.
Al fianco dei Pedrotti, Giovanni abbraccia completamente l’identità di Hitchcock. Al punto tale che si convince persino di determinare la rovina e l’infausto destino di Fabrizio, Mario e Maddalena con un atto scriteriato e irresponsabile nell’acceso clima politico degli anni Settanta. Finché, con il trascorrere degli anni, e l’irrompere della maturità, la verità dei Pedrotti e  di Hitchcock, il loro scudiero, gli appare sotto una luce inaspettata e sorprendentemente diversa.
Con la sua scrittura asciutta e controllata, La ricchezza è un romanzo che narra dei ragazzi degli anni Settanta, di una generazione che ha consumato in fretta il proprio tempo nel sogno e nell’illusione, per esporre alcuni dei temi fondamentali della letteratura di ogni tempo: le grandi speranze e le fragili certezze della gioventù, l’impossibilità di accedere alle vite degli altri, gli inganni della memoria e dell’Io.

    romanzo vincitore della prima edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza, «un premio che è un unicum in Italia».
Corriere della Sera

    «La fugacità della giovinezza, l’inganno della memoria e di un’identità ritenuta inattaccabile. Sono queste le tematiche di Montemarano, affrontate in uno stile portato all’essenzialità».
Paolo Di Stefano, Corriere della Sera

    «Un racconto asciutto e sagace di un pezzo della meglio gioventù dei tardi anni ’70, senza i drammi e le passioni di quei tempi turbolenti, ma capace di svelare il doppio registro dei ricordi».
Silvana Mazzocchi, La Repubblica

    «La ricchezza è un romanzo fitzgeraldiano con un testimone-protagonista che ci racconta la storia di un’età dell’oro che volge in caduta, un racconto in cui la bellezza fisica all’inizio seduce ma col passare del tempo più spesso isola».
Michele De Mieri, Domenica (il Sole 24 Ore)

    «Montemarano si riappropria del passato con sicurezza e sembra dirci a ogni pagina che lavorare sulla costruzione della propria identità è una fatica infinita e si corre il rischio di mettere in crisi il principio di realtà».
Brunella Schisa, Il Venerdì di Repubblica

 
Di Redazione (del 29/10/2022 @ 16:17:01, in Comunicato Stampa, linkato 321 volte)

Domenica 30 ottobre prende il via" Arte in vers i" rassegna di scritture e sperimentazioni visive, nata dalla collaborazione tra Fiordilibro e Art Lab Second Light dell’artista Corrima - Corrado Marra. Sarà Antonella Caputo ad inaugurarla alle ore 19:00 in via Umberto I, 17 a Galatina,  presentando "Quando saremo grandi " il suo nuovo romanzo per Les Flauneurs edizioni. romanzo generazionale vero come la vita e avvincente. Un inno all’amicizia che scava nelle faglie di una generazione che, dal “muretto” dell’adolescenza, si ritrova alla soglia dei trent’anni, alle prese con la ricerca di sé stessa e delle difficili scelte che ognuno dei protagonisti dovrà affrontare.

Antonella Caputo bresciana per nascita, salentina per natura, insegnante per missione, secondo le sue definizioni, scrive da sempre, molti suoi racconti sono inseriti in antologie ed alcuni hanno conseguito premi a concorsi letterari nazionali. Nel 2017 ha pubblicato il suo primo romanzo "Senza biglietto di ritorno" per Italic Pequod
Dialogano con l'autrice Nico Mauro e  Mariateresa Funtò.

Introduce Davide Miceli Consigliere Comunale delegato alla Cultura

Art Lab Second Light è uno spazio socio-culturale dedicato all'espressione e alla sperimentazione. Il nome “Second Light” riflette l’obiettivo del laboratorio di offrire un fulcro luminoso, sia in senso letterale che figurato, per la comunità, portando nuova linfa al centro storico di Galatina, con il coinvolgimento delle future generazioni.

Emilia Frassanito

 

 
Di Redazione (del 19/02/2023 @ 16:12:34, in Comunicato Stampa, linkato 368 volte)

I volontari del Servizio Civile Universale progetto “In Reading 2020”, in collaborazione con la Biblioteca “P. Siciliani”, saranno impegnati nel 2. appuntamento del Circolo dei Lettori  “Leggere in circolo”.

L’evento vedrà come protagonista il nuovo romanzo del giornalista galatinese Marco De Matteis, “Quattro anni in fumo” edito da Capponi di Ascoli Piceno.

            De Matteis nasce a Galatina nel marzo del 1983, si laurea in Scienze della Comunicazione all’Università degli Studi di Lecce. A Galatina, risiede e lavora come giornalista pubblicista, istruttore di tennis e padel presso il Circolo Tennis Galatina e collaboratore presso Fabula, la libreria di famiglia. È redattore per il giornale online «PugliaIn», con il quale collabora dal 2018, seguendo eventi sportivi, culturali e di approfondimento nella provincia.

Dopo aver pubblicato “Il piano inclinato”, racconto scritto e ambientato nel primo lockdown, e aver partecipato a “Ti ho trovato fra le pagine”, antologia di racconti scritti da 15 librai di tutta Italia, De Matteis torna in libreria con un romanzo ambientato a Lecce, a due passi da Santa Croce, tra i vicoli del centro storico infuocati dal caldo salentino.

            I personaggi del romanzo sono diversi e la loro vita si intreccia con le vicende di Naxos, azienda accusata di inquinare il territorio salentino, tra lo sdegno nell'opinione pubblica locale. Massimo gestisce l’albergo di famiglia; Eva è un avvocato sempre presente in TV e assumerà la difesa dell’azienda nel primo processo in cui i dirigenti verranno accusati di danno ambientale; Paolo è uno dei fondatori di Aria Pulita, un movimento ambientalista che raccoglie tanti leccesi in un’unica battaglia contro l’inquinamento; Ginevra, la compagna di Paolo, è una giovane poliziotta impegnata in prima linea durante i momenti caldi del processo e le relative manifestazioni; ed infine Erina, una ragazza albanese che collabora da poco con Massimo nel suo albergo.

Le vicende, narrate con un doppio salto temporale, si snodano tra la vita privata dei protagonisti e quella pubblica delle dinamiche processuali e le relative ricadute sull’opinione pubblica e sulle reazioni dei cittadini.

            L’incontro, in cui si approfondirà il romanzo alla presenza dell’autore che dialogherà con il giornalista del Quotidiano di Puglia Alessio Quarta e che vedrà la lettura di alcuni passi del libro a cura di Simona Ingrosso, si terrà sabato 25 febbraio alle ore 17:30 presso la Biblioteca “P. Siciliani”. La partecipazione è aperta, anche se, per motivi organizzativi, è gradita la prenotazione al numero 0836/561568.

Gli OV del Servizio Civile Universale

del Comune di Galatina

 

Parliamo di libri questo pomeriggio di fine estate, in questo cortile, luogo del cuore, purtroppo semidiruto, graffiato dall’ira del tempo e dall’abbandono degli uomini. E lo facciamo quasi sottovoce (anche se con il microfono), con delicatezza, come si conviene, per non svegliare i fantasmi del passato, aggrappati alle volte dei secoli.
In questo luogo, appena cinque secoli fa, si sentiva ancora rumore di armi e di guerrieri, di cavalli e cavalieri, di vincitori e vinti.
Al di là di questo muro, tra alberi di aranci, una torre si regge ancora, da settecento e passa anni, come per quotidiano miracolo: è la torre medioevale di Noha, XIV secolo, 1300. Quelle pietre antiche e belle urlano ancora, ci implorano, richiedono il nostro intervento, un “restauro”, il quale sempre dovrebbe rispettare e storia e arte.
Da quella torre, addossata al castello, riecheggiano ancora le voci lontane di famiglie illustri nella vita politica del mezzogiorno d’Italia. Qui abitarono i De Noha, famiglia nobile e illustre che certamente ha avuto commercio con i Castriota Scanderbeg e gli Orsini del Balzo, signori di San Pietro in Galatina (città fortificata chiusa dentro le sue possenti mura), ma anche con Roberto il Guiscardo e forse con il grande Federico II, l’imperatore Puer Apuliae, che nel Salento era di casa. 
Da Noha passava una strada importante, un’arteria che da Lecce portava ad Ugento, un’autostrada, diremmo oggi, che s’incrociava con le altre che conducevano ad Otranto sull’Adriatico o a Gallipoli, sullo Ionio.
Da qui passarono pellegrini diretti a Santa Maria di Leuca e truppe di crociati pronti ad imbarcarsi per la terra santa, alla conquista del Santo Sepolcro…
*
Ma la storia noi stiamo continuando a scriverla; voi potete continuare a scriverla, e non solo nelle pagine di un libro. Solo se diamo corso (come stiamo credendo di fare) ad un nuovo Rinascimento ed ad un nuovo Umanesimo di Noha, daremo una svolta alla nostra vita e alla nostra storia. E alla nostra civiltà. 
*    *    *
Noi ci troviamo dunque in un “praesidium”, un presidio. E Noha era un presidio.
E sapete anche che Noha è, da non molto tempo, invero, “Presidio del libro”.
Ma cosa è un presidio?
Sfogliando un dizionario d’italiano (che dovremmo sempre avere a portata di mano, pronto per la consultazione) al lemma o parola “presidio” troviamo questi significati: 1) presidio = complesso di truppe poste a guardia o a difesa di una località, di un’opera fortificata, di un caposaldo; luogo dove queste truppe risiedono (per esempio si dice “truppe del presidio”);
2) presidio = occupazione di un luogo pubblico a fini di controllo e sorveglianza o anche solo di propaganda (per esempio “presidio sindacale nella piazza”); 
3) presidio = circoscrizione territoriale sottoposta a un’unica autorità militare;
4) presidio = complesso delle strutture tecnico-terapeutiche preposte in un dato territorio all’espletamento del servizio sanitario nazionale (presidi ospedalieri);
5) presidio = difesa, protezione, tutela (essere il presidio delle istituzioni democratiche);
6) presidio = sostanze medicamentose (presidi terapeutici) oppure presidi medici e chirurgici….
Vedete quanti significati può avere la parola “presidio”!
Penso che per il concetto di “Presidio del libro”, tutte queste definizioni, più o meno, calzino bene.
E’ un luogo. E la biblioteca Giona è il cuore di questo presidio.
Ci sono le truppe.
Ma le truppe siamo noi e  le armi sono i libri; i carri armati sono gli scaffali che li contengono.
Le altre armi, invece, quelle da fuoco, le lasciamo agli illetterati, ai vandali, ai mafiosi, a chi non è trasparente, a chi non ha idee, a chi non ama il bello.
Presidio del libro è anche sostanza medicamentosa, terapeutica, contro i mali della società.
Il presidio del libro riuscirà a sovvertire, a sconfiggere quell’altro presidio: il “presidio della mafia”? 
Forse si: se questi libri li apriamo, li sfogliamo. Li annusiamo, anche, e li leggiamo, li prendiamo in prestito, li consigliamo agli altri, li doniamo. Ne incontriamo gli autori, ne parliamo a scuola, in piazza, dal parrucchiere, dall’estetista, al supermercato, al bar, al circolo, fra amici.
Tutti i luoghi sono opportuni per parlare di libri: a volte basta solo un cenno, non c’è bisogno di una conferenza in una sala convegni per parlare di letteratura, di poesia, di storia, di leggenda, di arte...
Ecco allora che “Presidio del libro” diventa “difesa”, “protezione”, “tutela”, “crescita”, rispetto della persona, dei luoghi, dei beni culturali, di Noha tutta. Solo chi legge difende i monumenti, la piazza, la torre, questo castello, la masseria, la casa rossa, la trozza, la vora, il frantoio ipogeo, le casette dei nani… Ma anche i giardini, le terrazze, la campagna, i colori delle case di Noha (che stanno sempre più perdendo il loro colore bianco brillante, quello della calce, per diventare d’arlecchino multicolore, a volte troppo appariscente…). Chi legge difende la civiltà, la democrazia, l’etica, la libertà del pensiero e del giudizio e finanche della critica (costruttiva), e tutela il bello che è integrità, luminosità e proporzione.     
Guardate che la biblioteca o la libreria (che non dovrebbe mai mancare in ogni casa: meglio se questa libreria è ricca, e piena di libri e non contenga solo un’enciclopedia a fascicoli che ti danno in regalo con l’acquisto dei detersivi o con la raccolta dei punti al distributore di benzina); dicevo, la libreria non è solo un deposito o una raccolta di libri. Ma uno strumento di conoscenza ed in certi casi di lavoro.
*
E’ vero: esistono così tanti libri, che spesso non si sa da dove incominciare.
Se soltanto volessimo leggere i “classici”, cioè i libri, diciamo, fondamentali per l’uomo di buona cultura, volendone leggere, ad esempio, uno ogni settimana (che è una ragionevole media), non ci basterebbero 250 anni. Dovremmo vivere almeno 250 anni, per leggere ininterrottamente i libri diciamo più importanti o indispensabili.
Se a questi volessimo aggiungere le collane della Harmony, o i libri di Harry Potter, o quelli degli scrittori minori o locali (come siamo noi), o gli altri che leggiamo per diletto o divertimento, (tutti ottimi! Ma non classici) necessiteremmo almeno del doppio di questi anni, vista permettendo!
Dunque: nessuno può aver letto o leggere tutto (neanche le opere più importanti).
E questo però ci consola.  
Intanto perché possiamo partire a piacere da dove vogliamo.
Ed un altro fatto che ci rassicura è che spesso i libri parlano di altri libri: cioè con la lettura di un libro a volte riusciamo a entrare in altri libri (anche senza aver mai visto questi altri libri): i libri infatti sovente, tra un riferimento e l’altro, si parlano tra loro.
I libri sono come i nostri amici che ci riferiscono come stanno gli altri nostri amici, che magari non vediamo da tempo.
*
Sentite.
Spesso si parla del dovere di leggere.
No! 
Leggere non è un dovere: è un diritto!
Inoltre il lettore ha altri diritti (come dice Daniel Pennac, nel suo libro intitolato Come un romanzo, Feltrinelli, 6 Euro):  e  questi diritti sono i seguenti: primo il diritto di non leggere (ciò che ci impongono); poi, il diritto di saltare le pagine; poi abbiamo il diritto di non finire un libro; il diritto di rileggere (non preoccupatevi: si può essere colti sia avendo letto quindici libri che quindici volte lo stesso libro. Si deve preoccupare invece chi i libri non li legge mai!); il diritto di leggere qualsiasi cosa; c’è poi il diritto di leggere ovunque (non solo a casa, ma al mare, sull’autobus, in villetta, ovunque); il diritto di spizzicare (si da uno sguardo, si legge la bandella della copertina, si apre a caso una pagina, si legge come comincia o come finisce: insomma pian piano un libro si può assorbire anche a “spizzichi e mozzichi”. Chi ce lo impedisce?); ancora il diritto di leggere a voce alta; infine il diritto di tacere: cioè nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa lettura, che è e rimane una cosa intima, esclusivamente nostra.

Leggendo, ragazzi, vedrete, poi, che riuscirete a descrivere qualcuno o qualcosa, utilizzando quelle stesse parole del libro: vi viene quasi automatico. Vi accorgerete di essere stati chiari e non banali; non avrete più il problema di cadere nei silenzi tra una parola e l’altra. Quei silenzi orrendi e imbarazzanti. Come il silenzio nel corso di certe  interrogazioni.
E non abuserete dei “cioè”; vi sentirete soddisfatti di questo, ma soprattutto imparerete a sognare, a volare alto, e difficilmente sarete malinconici.
*
Il nostro scritto prima ancora di iniziare a vivere nel libro, o su un giornale o su una rivista, si può già assaporare nelle parole della gente, con i suoi racconti, le sue esperienze: sentimenti, che lo scrittore ha raccolto e animato.
Ecco lo scrittore cerca di colorare il mondo. Noi abbiamo cercato di dare calore e colore alla nostra storia, alla nostra arte, alle nostre leggende.
P. Francesco D’Acquarica, che ha scritto con me le pagine di questo tomo (è come se avessimo eseguito una suonata a quattro mani e quattro piedi ad un organo a canne) ha compiuto un lavoro lungo decenni, s’è consumato gli occhi, per leggere, interpretare e ritrascrivere i documenti dell’archivio parrocchiale di Noha o quello vescovile di Nardò e numerosi altri documenti. E ha fatto rivivere la storia della gente ed i suoi pensieri (se leggiamo i proverbi che abbiamo posto in appendice, ad esempio, capiremo subito).
Ha risvegliato, ha ridato voce e fiato e vita e colorito ai nostri avi, ai nostri bisnonni, gli antenati. Per questo non finiremo mai di ringraziarlo.
Però il miglior modo di ringraziare uno scrittore è leggerlo.
E’ sfogliare il nostro libro, che abbiamo scritto con tanta passione. Leggerlo, consultarlo, criticarlo (anche), ma prima di tutto studiarlo.
*
Vedete: Noha dopo il nostro libro: “Noha. Storia, arte, leggenda” non è più quella di prima. Anzi quanta più gente legge il nostro libro, tanto di più migliorerà la nostra Noha. Potremmo anche dire che oggi Noha è un po’ migliore, rispetto a ieri. Non dobbiamo aver paura di pensarlo e dirlo.
E sarebbe proprio la città ideale se tutti leggessimo quel libro, fossimo curiosi, ci conoscessimo di più.
Saremmo più gentili. Meno sospettosi. E anche più accoglienti.
*
Abbiamo bisogno a Noha di scrittori, di gente che può cambiare il mondo. Ma prima di tutto abbiamo bisogno di lettori. I lettori sono i primi che possono cambiare il mondo. Se con la lettura si riesce a svagarsi, divertirsi, sognare, imparare a riflettere, allora si capisce meglio il mondo, e non si da retta alle futili mode o tecnologie o alle corbellerie. Ma è così che si cambia il mondo! 
Con la lettura miglioriamo il nostro stile di vita, il nostro equilibrio morale ed anche economico. Non a caso chi legge è anche più ricco, e gode di un più alto tenore di vita.
E, il più delle volte, è anche un po’ più affascinante (o almeno così qualcuna mi dice, lusingandomi)…
*
Democrazia e libri sono sempre andati storicamente a braccetto.
Le librerie e le biblioteche nei paesi liberi sono veri e propri presìdi di democrazia e civiltà. La libreria o la biblioteca è uno spazio amico. Giona è dunque una nostra amica. E certe amicizie vanno frequentate. 
In libreria o in biblioteca c’è la sostanza più potente di tutte: la parola scritta. Tutte le altre sono chiacchiere, parole al vento.
Nella vita di ogni uomo c’è un pugno di libri che lo trasformano radicalmente. Entra in un libro una persona e ne esce un’altra, che vede se stessa ed il mondo in maniera completamente diversa e farà cose diverse.
Un maglione, un’auto, una moto possono rappresentare un uomo ma mai cambiarlo come invece può fare un buon libro.
*
Il libro è un regalo. Un regalo che potete fare innanzitutto a voi stessi ma anche agli altri. E’ un regalo che si può “scartare”, aprire diverse volte e non soltanto una volta sola. E ogni volta la pagina di un libro può riservarci una gradita sorpresa.
Il libro è un capitale, un investimento che produce interessi incalcolabili.
E non c’è libro che costi troppo!
*
Qualcuno mi dirà alla fine di tutta questa pappardella: e il tempo per leggere? Dove lo trovo?
Certamente non abbiamo mai tempo! Presi come siamo dalla diuturna frenesia.
Ma su questo tema del tempo chiudo prendendo in prestito, guarda un po’, le parole di un libro.
E’ quello già citato di Daniel Pennac, il quale a pag. 99, di Come un romanzo, (Feltrinelli, ed. 2005), così si esprime:
<<…Si, ma a quale dei miei impegni rubare quest’ora di lettura quotidiana? Agli amici? Alla Tivù? Agli spostamenti? Alle serate in famiglia? Ai compiti?
Dove trovare il tempo per leggere?
Grave problema.
Che non esiste.
Nel momento in cui mi pongo il problema del tempo per leggere, vuol dire che quel che manca è la voglia. Poiché, a ben vedere, nessuno ha mai tempo per leggere. Né i piccoli, né gli adolescenti, né i grandi. La vita è un perenne ostacolo alla lettura.
“Leggere? Vorrei tanto, ma il lavoro, i bambini, la casa, non ho più tempo…”
“Come la invidio, lei, che ha tempo per leggere!”
E perché questa donna, che lavora, fa la spesa, si occupa dei bambini, guida la macchina, ama tre uomini, frequenta il dentista, trasloca la settimana prossima, trova tempo per leggere e quel casto scapolo che vive di rendita, no?
Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d’altronde, o il tempo per amare.)
Rubato a cosa?
Diciamo al dovere di vivere.
……..
Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.
Se dovessimo considerare l’amore tenendo conto dei nostri impegni, chi si arrischierebbe? Chi ha tempo di essere innamorato? Eppure, si è mai visto un innamorato non avere tempo per amare?
Non ho mai avuto tempo di leggere, eppure nulla, mai, ha potuto impedirmi di finire un romanzo che mi piaceva.
La lettura non ha niente a che fare con l’organizzazione del tempo sociale. La lettura è, come l’amore, un modo di essere.
La questione non è di sapere se ho o non ho tempo per leggere (tempo che nessuno, d’altronde, mi darà), ma se mi concedo o no la gioia di essere lettore>>.

Grazie.


ANTONIO MELLONE
 
Di Redazione (del 11/02/2023 @ 15:56:08, in Comunicato Stampa, linkato 268 volte)

Uscirà il 14 febbraio il secondo romanzo di Marco De Matteis, giornalista galatinese, dal titolo “Quattro anni in fumo”, edito da Capponi, casa editrice di Ascoli Piceno.

Dopo aver pubblicato “Il piano inclinato”, racconto scritto e ambientato nel primo lockdown (Editrice Salentina, 2020), e aver partecipato a “Ti ho trovato fra le pagine”, antologia di racconti scritti da 15 librai di tutta Italia (Las Vegas, 2022), De Matteis torna in libreria con un romanzo ambientato a Lecce, a due passi da Santa Croce, tra i vicoli del centro storico infuocati dal caldo salentino.

I personaggi sono molteplici e tutti legano la loro vita alle vicende di Naxos, azienda accusata di inquinare il territorio salentino, fatto che farà scalpore in città. Massimo gestisce l’albergo di famiglia, Eva è un avvocato sempre presente in TV e assumerà la difesa dell’azienda nel primo processo in cui i dirigenti verranno accusati di danno ambientale, Paolo è uno dei fondatori di Aria Pulita, un movimento ambientalista che raccoglie tanti leccesi in un’unica battaglia contro l’inquinamento, Ginevra, la compagna di Paolo, è una giovane poliziotta impegnata in prima linea durante i momenti caldi del processo e le relative manifestazioni e infine Erina è una ragazza albanese che collabora da poco con Massimo nel suo albergo.

Le vicende, narrate con un doppio salto temporale, si snodano tra la vita privata dei protagonisti e quella pubblica delle dinamiche processuali e le relative ricadute sull’opinione pubblica e sui comportamenti dei cittadini. E se Massimo dovrà districarsi tra la gestione del suo albergo, sotto i riflettori per delle presenze sospette e il soggiorno dell’avvocatessa Eva Giordano, donna di classe e fascino, Erina si troverà, suo malgrado, ad assistere a qualcosa a cui non avrebbe voluto, Paolo e Ginevra dovranno coniugare il loro essere innamorati nella vita, ma avversari sul campo di battaglia delle manifestazioni. Il tutto condito con uno sguardo ampio sulle meraviglie del Salento, sulla sua gente, sui tanti turisti che l’estate invadono le strade e le marine.

La Capponi Editore, editrice del libro, è ormai una realtà consolidata a livello nazionale. Pubblica circa 50 novità ogni anno, selezionando autori esordienti e non esordienti, facendo con ciascuno un percorso di crescita nel mondo bello e complesso dell’editoria italiana. Domenico Capponi, titolare della casa editrice, a riguardo ha dichiarato: “Non è vero che le persone non vogliono leggere, è vero che vogliono legge storie belle. Albert Einstein diceva: Il mondo che abbiamo creato è un nostro pensiero. Non possiamo cambiare il mondo senza cambiare il nostro pensiero. Il nostro obiettivo è introdurre nell’editoria la cultura delle idee. Lo strumento con cui perseguiremo questo scopo è il libro. Tutto cambia molto velocemente, molti rincorrono questo cambiamento dando spesso vita a una rincorsa impossibile. Le idee sono semi sotto la terra, una farfalla dentro al suo bozzolo, sono abissi profondi e vette spaventose. Le idee sono la forza di una parola, la perseveranza nel cercarla, il coraggio di scriverla, tutti i giorni e le ore per sostenerla. Le idee sono il nostro futuro migliore, quello che vorremo, quello che saremo in grado di pensare. Noi siamo un moltiplicatore di idee, i primi a battere le mani, gli ultimi a lasciare la sala, siamo quelli che ci credono contro tutto e tutti se ne vale la pena. Siamo quelli che hanno fatto del sogno un credo, uno stile di vita, siamo quelli che ridono, che cadono, si rialzano e cadono ancora. Siamo il frutto di un’idea, la testimonianza di un modo di vivere, lavorare e condividere le sfide. Le idee sono per noi l’unica vera ricchezza del futuro.”

Il libro è già in pre-ordine presso i principali store on line (ibs, amazon, mondadoristore, feltrinelli, hoepli, e tanti altri) e in tutte le librerie d’Italia.

 
Di Redazione (del 18/02/2017 @ 15:39:10, in Comunicato Stampa, linkato 1760 volte)

Lunedì 20 febbraio alle ore 18,30 presso il Salone De Maria in Corte Taddeo,39, nel centro storico di Galatina, Paolo Farina presenta il suo libro “Trenta giorni in racconti brevi", per l’Edizioni Etet. Esordio nel romanzo per un autore che ha al suo attivo numerosi saggi su vari temi sociali, di politica, di teologia e soprattutto su Simone Weil. In Trenta giorni in racconti brevi, Paolo Farina affronta per la prima volta il romanzo: ogni giorno, un frammento di vita che si fissa sulla pagina e si fa traccia di memoria e condivisione. L’idea, dei trenta racconti nasce dal desiderio, da parte dell’autore, di abituare il lettore a trovare almeno cinque minuti al giorno da dedicare alla lettura. A questo si deve anche aggiungere anche l’intento di salvare dallo scorrere del tempo giorni che, forse, hanno qualcosa da insegnarci o almeno qualcosa hanno lasciato all’autore come il racconto dedicato a Melissa, la ragazza di Mesagne vittima di una bomba fatta esplodere vicino alla propria scuola, o quello dedicato a Ahmed il poliziotto ucciso a Parigi durante l’attentato a Charlie Hebdo.

Dialogherà con l’autore la prof.ssa Rita Maria Colazzo.

Paolo Farina insegna lettere e antropologia teologica. È direttore del settimanale Odysseo, navigatori della conoscenza. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui Simone Weil. La ragionevole follia d’amore (Edigrafital 2000), La preghiera tra ascolto e lezione (Rotas 2009), Non ci dimenticate. Diario di un cammino di pace tra Palestina e Israele (EtEt 2009), Dio e il male in Simone Weil (Città Nuova 2010), Dire l’uomo, dire di Dio (EtEt 2014). Questo è il suo primo libro di racconti. Ogni giorno, in aula, mentre compila il registro di classe, uno degli alunni legge un libro ad alta voce: è nata così l’ispirazione di Trenta giorni in racconti brevi.

Emilia Frassanito

 
Di Marcello D'Acquarica (del 10/09/2013 @ 14:35:51, in NohaBlog, linkato 3881 volte)

Oggi, sciroppo nohano, ops... volevo dire scirocco nohano. Quando l’aria si fa irrespirabile e soprattutto alla sera, quando cala la cappa di umidità, arriva il cosiddetto “faugnu”. “C’è cu mmori” si dice dalle nostre parti.  Il caldo torrido di Agosto fa il resto. Ma a questo, per fortuna, ci pensa Qualcun altro, diciamo il più altolocato. Il clima, come anche tante altre cose, non le decidiamo noi.

“Tu sei un fenomeno…” - mi dice Gianluca Misciali, neofita nohano alla ricerca delle sue origini (un altro che non ascolta le prediche nostrane dove viene abiurato il passato, quale testimone dell’antiprogresso) - “…capisco amare una donna, un Santo, il lavoro, ma un paese.”

In effetti, al contrario degli altri anni, quest’anno mi sono sorpreso pensando ad alta voce, “ma chi me lo fa fare!”. Tranquilli. Mi è capitato una sola volta. Forse vinto dalla puzza nauseabonda di cani morti che regna a Noha da qualche tempo. D'altronde, se fosse solo un romanzo, sarebbe tutto normale, così finiscono buona parte dei racconti di storie d’amore: annegati nel tradimento da parte di chi hai sempre amato e rispettato. Per convincermi che sbaglio a pensare questo, provo di nuovo a cercare la meraviglia che da sempre mi riporta in questo meraviglioso paese:

 il silenzio che regna nelle vie, gli orizzonti a portata di mano, i colori del tramonto e il suono delle campane che, anche se impostate da un banale programma di neo-battenti, si ostinano a rammentarci il fascino misterioso di riti antichi e menzadie cadenzate. Cose di un altro mondo.

Guardando le facce beate dei nostri politici (e ci li vide mai? Bisogna cercarli su face-book, o nei “santini” pre-elettorali) sembrerebbe che nulla accada, se non le loro faccende in cui sono affaccendati.

Ho chiesto agli abitanti di via Aradeo, a cosa si deve l’olezzo di cadavere che si sente in giro per il paese, soprattutto nei pressi della grotta della Madonna di Lourdes. Qui la puzza è davvero insopportabile. Vengo così a conoscenza che la signora Maria Rosaria Mariano, contitolare del negozio di ferramenta, con l’aiuto di alcuni cittadini, si è data da fare con una petizione popolare per informare del cattivo odore il sindaco Montagna e gli amministratori de-localizzati altrove (tanto, anche se abitassero a Noha, come i nostri 4 consiglieri eletti, cambierebbe poco o nulla). Dopo alcune cantonate lapalissiane (del tipo: pulire dalle foglie solamente il tombino davanti al negozio di ferramenta, oppure inviare una squadra di tecnici sprovvisti del più banale attrezzo per aprire un tombino), finalmente si è concluso di demandare la questione all’azienda incaricata al completamento dei lavori della fogna bianca (ca puzza cchiui de a nera). Intanto una buona parte di Noha, tutta la zona del Calvario per intenderci, da anni soffre dello stesso problema a causa dell’ennesima vigliaccata perpetrata approfittando della buona fede della gente: la discarica dell’impianto fognario adiacente alla villetta dedicata a Padre Pio. Siamo nel terzo millennio, a Galatina ci si vanta d’essere “Città d’Arte” e traboccante di cultura, ma quando non si sa che fare si ricorre sempre all’aiuto dei Santi. E sarebbe pure una cosa giusta, basterebbe però riconoscere i propri limiti, che nel nostro caso si sciolgono in vaveggianti e perenni indecisioni. Povero Padre Pio. Tutte le disgrazie spettano a lui. E ai cittadini di Noha. Ma che avranno fatto mai per meritarsi tutto questo? Insomma non possiamo dire che a Noha ci si annoi.

Ogni giorno che passa i problemi aumentano e l’ultimo scaccia sempre quelli già esistenti: chiodo scaccia chiodo. A questo punto diciamo che Noha è diventato un paese dove si mangia con la puzza di fogna, ci si lava con la puzza di fogna, si dorme con la puzza di fogna, si vive sempre con la stesa puzza, che importa se l’orologio della piazza - fiore all’occhiello di ogni paese - è una taroccata, se i beni culturali di Noha sembrano quelli che erano sepolti sotto la città di Acaya fino a qualche anno addietro, se la casa Rossa è solo un ricordo sbiadito, se il frantoio ipogeo più originale del Salento diventa una discarica di rifiuti, se le casette di Cosimo Mariano non reggono più nemmeno le luminarie pietose della festa di San Michele, se le pantegane girano indisturbate dentro e fuori del Castello, se la campagna de lu Ronceddhra è un ammasso di pannelli fotovoltaici riparati da pochi scheletrici ulivi trapiantati per nasconderli alla vista, se un faro da 5000 watt acceca gli automobilisti che transitano su quella via, se il viale che porta al cimitero sembra un residuato del dopoguerra, se si spendono milioni di euro in ristrutturazioni di edifici confiscati alla mafia e in vecchie scuole elementari (senza manco pensare all’allaccio elettrico come si deve)…

Se potessi continuare non basterebbe un’enciclopedia, tanti sono i fenomeni nohani dipendenti dalla trascuratezza e dalla dabbenaggine dei nostri rappresentanti (che a questo punto penso rappresentino solo se stessi). Speriamo che il vento cambi al più presto, e la tramontana non ci porti altre sorprese visto che ultimamente sono di moda i cosiddetti “termovalorizzatori” e a pochi passi da Galatina ne abbiamo uno che, forse, non aspetta altro.

Marcello D’Acquarica
 
Di Fabrizio Vincenti (del 17/08/2018 @ 14:27:04, in NohaBlog, linkato 1422 volte)

Ultimamente, prima di scrivere qualcosa, ci penso su molto. So, infatti, che i più, accecati dai loro pregiudizi, non solo non comprendono le mie parole, il che sarebbe anche giustificabile dal fatto che sono io scarso nella scrittura e non loro tardi di comprendonio, ma questi, purtroppo, non sono neanche in grado di capire il senso comune di ciò che li circonda, e questo è auspicabile che non accada. Piuttosto continuino a fraintendere me e non il significato della realtà in cui vivono.

Io, se dovessi scegliere un amico, sceglierei un filosofo: anche se non ha tutte le risposte che mi occorrono, per lo meno riesce a formulare qualche domanda interessante. Tempo fa, infatti, scrissi che non basta (mai detto “non serve”) una laurea in ingegneria per costruire un ponte, in quanto quel pezzo di carta, per quanto sia pregiata la pergamena, non regge quanto un pilone. La maggior parte degli uomini di cui parlo, invece, portentosi internauti dell’universo schermato che si credono dei marco polo alla scoperta del mondo moderno solo perché hanno letto un manuale di decoupage o un romanzo di Hemingway (dubito che tra i due ne colgano le differenze), propinano le loro idee copiando e incollando post facebookiani dei loro idoli politici, i quali si nutrono come porci del tweet, ma non riescono a formulare un’idea di senso compiuto in quanto la realtà non la riassumi in centoquaranta caratteri neanche se ti chiami Dante Alighieri (figuriamoci se il tuo nome è Matteo Renzi: perdona il paragone, caro Dante, ma dovevo citarlo per rendere l’idea del fatto che  essere fiorentini non è garanzia di magnificenza). È per questo che scrivo, perché so che questi figli dell’incompetenza riluttante di un’epoca squallidamente edonistica come la nostra hanno già smesso di leggere dalla seconda riga di questo articolo, poiché già siamo ben oltre i centoquaranta caratteri dei loro sepolcri imbiancati renziniani (non renziani: i renzianiani, badate bene, sono una nuova specie umana, geneticamente modificata), salviniani o dimaiani (i berlusconiani non volevo citarli per decenza). Dunque, da questo momento in poi, certo della mia ignoranza a differenza loro, sarò più tranquillo nello scrivere ciò che penso poiché so che quelle talpe che si credono intellettuali solo perché sanno scavare una buca nel terreno, hanno già smesso di leggere oppure, cosa ancor più grave, pur continuando a leggere non intendono, in quanto per leggere bisogna tenere aperti gli occhi e la mente, mentre gli ottusi sanno aprire solo la bocca. E si sa che, a furia di inzuppare il muso nel loro stesso sterco disseminato qua e là sulla rete (nel mondo reale verrebbero divorati dalle formiche), non sentono neanche più il puzzo della squallida tana in cui vivacchia e starnazza il loro senno rinsecchito. Innaffiatevi come se foste una pianta che rischia di crepare sotto il sole: fatelo almeno per la dignità che si deve ad un uomo qualunque. Riprendetevi il senno, e se lo avete perso, cercate di ritrovarlo. Non vi ostinate ad andare in giro senza quello in quanto, a furia di seminare tweet dei vostri rincoglioniti spauracchi, rischiereste, in un mondo normale, un trattamento sanitario obbligatorio (ma tranquilli, non accadrà mai: i sani hanno scelto di auto-internarsi, e un pazzo non riconosce un altro pazzo).

È crollato un ponte e sono morte decine di persone. Altre centinaia sono rimaste senza casa e molti altri sono in ospedale, feriti. Questa è la notizia, questa è la realtà. I nostri pensieri sono solo flatulenze a confronto (i nostri; quelli dei renziniani, dimaiani e salviniani potremmo anche definirli scorregge – Berlusconi, per fortuna, non pervenuto). Sì perché, checché se ne dica, sappiamo tutti che il pedaggio autostradale in Italia è un furto, un obolo cospicuo messo direttamente nelle tasche di qualcuno che pensa di prenderci per i fondelli dicendoci che una mancia per il caffè da spendere in manutenzioni qualche volta, se è di buon umore, la lascia pure sul tavolo.

Cosa c’è da meravigliarsi? È la realtà. Noi siamo criceti in gabbia che facciamo girare le ruote dell’economia  mentre a noi ci girano solo le palle. E continuiamo a grattare “gratta e vinci”, sadici come siamo, buttando privi di vergogna il futuro nelle casse del tempio dove, senza remora alcuna, si scannano, come vittime sacrificali, i più deboli della società. Cosa c’è da meravigliarsi? È la realtà, dove si parla di sciagura solo per il tempo necessario affinché ne accada un’altra, e poi un’altra ancora, così la colpa è un po’ di tutti, della sinistra di ieri e della Lega di oggi. È di tutti perché non sia di nessuno.

Ciò che vedo tutt’intorno è solo una accozzaglia che passa il tempo, la cosa più preziosa che ha, ad insultare  e denigrare il prossimo,  mentre usa l’altro suo simile solo quando ci si può speculare sopra. Oggi l’immigrazione della destra, domani il caporalato della sinistra mentre voi, ancora, volete farmi credere che siete suscettibili a queste tematiche? Lasciate stare! Tu, qui, sei iscritto al sindacato e poi voti chi, promulgando le ultime leggi sul lavoro, ha strizzato l’occhio a chi sfrutta coloro ai quali viene negato il diritto anche di andare in bagno per non interrompere la raccolta dei pomodori (ai renziniani che insorgeranno come contro la Bastiglia, dico di andarsi a vedere le leggi che depenalizzano chi sfrutta il lavoro irregolare firmato da loro, altro che lotta al caporalato). Quali milioni di posti di lavoro, quali grandi opere, quali Tap o Tav? Qui ci crolla tutto il bagno sotto i piedi mentre siamo seduti sul cesso! È lì la realtà, sotto quel ponte crollato. Lì si dissolvono tutte quelle paroline inglesi renziane coniate per raccontavi un mondo più bello, tutte le polemiche salviniane e le fantasie dimaiane. È questa la realtà, non la Silicon Valley dei sogni di qualche mentecatto.

Cari miei, voi potete anche continuare a credere che quello che avete davanti è un picasso di inestimabile valore, ma fino a quando ci sta bene attaccare il picasso al muro con lo scotch, quello che avete sulla parete non è una fortuna, ma un cumulo di macerie. Il cemento non salverà il mondo, come farfuglia la pagina Facebook di Renzi (lascia che sia la sua pagina a pensare; lui non credo che sia in grado di farlo).

E’ la nostra propensione al bene comune che dovremmo avere tutti, semmai, che riuscirà in qualcosa di buono. Continueranno a cercare di comprare il tuo voto con ottanta centesimi o ottanta  euro perché è l’unica cosa che sanno fare. Qui, invece, occorre qualcuno che abbia il buon senso di progettare qualcosa a lungo termine ma che magari non porterà molti voti. Scrivere oggi il futuro di domani: questo, certamente, reggerà più a lungo di un pilone di cinquant’anni. Dire che una vita umana vale più di un’azione di Atlantia in borsa farà la differenza su ciò che saremo. L’alternativa è correre dietro una cosa che chiamano  spread, capace soltanto  di desacralizzare l’umanità. Cari miei, qualcuno si preoccupa per i tassi di interesse (anch’io mi preoccuperei se avessi, come questo qualcuno, più di un mutuo aperto per qualche milioncino di euro per una villa fiorentina), qualcun altro invece si preoccupa se un bambino muore mentre sta andando in vacanza con sua mamma e suo papà sepolto da tonnellate di cemento armato.  Se la famiglia Benetton ha uno yacht in meno se ne farà una ragione.

Credetemi, io non ho nulla contro i politici e i giornalisti che giornalmente inquinano la scena. Odio solo la stupidità umana, quella che pubblica la foto di una tragedia e sotto vi mette un cuore pulsante e poi, un’ora dopo, getta nel water ogni briciola di senso critico pur di trasformare un uomo in uno dei tanti francobolli sputacchiati e attaccati al culo di qualcuno che forse è anche senatore, stipendiato con quindicimila euro al mese e che solo ieri voleva abolire il Senato. Ma è la realtà, la scellerata imbecillità umana di chi, con lo stesso fazzoletto in cui si è soffiato il naso finora, ci si pulisce le labbra e dice agli altri, pensando di sfotterli,  “buon appetito” (n.d.r. Io non faccio parte né dei primi né dei secondi, ma a differenza loro, ribadisco che sono certo della mia ignoranza).

Fabrizio Vincenti

 
Di Albino Campa (del 15/12/2010 @ 14:23:06, in Il Mangialibri, linkato 3427 volte)

Venerdì 17 Dicembre 2010 alle ore 18:30, presso il Palazzo della Cultura di Galatina si terrà la presentazione del romanzo Il Mangialibri di Michele Stursi.

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Di Albino Campa (del 22/12/2009 @ 14:00:10, in NohaBlog, linkato 4312 volte)

Eccovi di seguito l'n-esimo articolo di Antonio Mellone apparso sulla rivista bimestrale "Il filo di Aracne" nel numero di dicembre 2009. Si tratta della recensione del recente libro "Infanzia Salentina" del nostro amico prof. Gianluca Virgilio

Infanzia Salentina, un esorcismo generazionale

Avevo poco più (o poco meno) di cinque anni.
Quella mattina verso le otto, mentre ero pronto per andare alla scuola materna che frequentavo, non ricordo come (forse mia madre mi ci aveva portato mezzo addormentato all’alba), mi trovavo nella casa della nonna, ad un fischio dalla mia, sempre a Noha.
Quella mattina mia madre prendendomi in disparte mi disse: “Oggi la nonna è andata in cielo”.
Io corsi subito sulla terrazza di quella casa - allora una delle poche abitazioni nohane al primo piano, essendo le altre quasi tutte al piano terra - alzai lo sguardo per scrutare il cielo, cercando di avvistare mia nonna.
Era primavera, il cielo era terso, azzurrissimo. Ma mia nonna non la vidi punto.
Rientrai in casa un po’ confuso. Ci pensò mia madre stessa - che dall’espressione sembrava volermi dire: stupidino! - ad indicarmi in anteprima, cioè prima che iniziassero le visite di parenti e amici per le condoglianze, la mamma di mio padre composta nella sua bara.
Sembrava dormisse, ed io non avevo realizzato ancora che mia nonna (quella brava donna che, prima di chiederti se ne volevi, aveva già preparato la fetta di panetto con pomodoro olio e sale) non c’era più. Non avevo cioè compreso che mia nonna era morta. Tanto che alla scuola materna (mi ci mandò comunque mia madre in quella mattinata di trambusto) le suore chiesero a me ed a mio cugino se la nonna fosse ritornata dall’ospedale.
Mio cugino era all’oscuro delle ultime novità. Infatti mia zia Giovanna, sua madre, non l’aveva reso edotto di “tutto”. E rispose alle suore che nonna Maria Scala (proprio questo era il suo nome, mentre il cognome era Tundo) era ancora in ospedale; io invece che ormai sapevo “tutto” dissi subito che era ritornata, e che l’avevo addirittura vista in carne ed ossa in mattinata. Ma non precisai che l’avevo vista in una bara, né che, come m’era stato riferito, se ne fosse volata in cielo. Non avevo ancora preso coscienza del concetto di bara e soprattutto di un accadimento che, come in seguito capii, era (ed è) cosa molto frequente: la dipartita di una persona.  
Questa è una delle mille storie che mi sono frullate per la testa mentre leggevo il bellissimo affresco di una generazione: “Infanzia Salentina” di Gianluca Virgilio (Edit Santoro, Galatina, 2009, 172 pagg.).
Sì, perché leggere questo volumetto significa pensare a tanti accadimenti, tante coincidenze, tante storie affini od opposte, tanti ricordi.
Come ancora ad esempio il tempo delle vacanze, che Gianluca, figlio di professore, trascorreva a Santa Maria di Leuca, mentre io, figlio di contadino, trascorrevo (lavorando!) in campagna, nel mare del tabacco le cui foglie ed i cui taraletti si aggrappavano alla mia infanzia per non staccarsene più. O come il fatto delle giostre che nel corso della festa di San Michele venivano montate fin nei pressi del portone di casa mia (l’ingresso più utilizzato coincideva e coincide anche oggi con il garage), tanto da consentire appena il nostro accesso pedonale, ma non quello della nostra 500 Bianchina, che rimaneva fuori allo scoperto per i tre giorni della festa. Ma nonostante i borbottii dei miei, io ne ero contento, perché mi trovavo nel centro del paese dei balocchi, ed anche perché i giostrai a volte mi facevano omaggio di qualche gettone per le auto-scontro, forse quale forma di risarcimento per il loro disturbo (che per me non lo era affatto).
O come l’amicizia con la famiglia Papadia: quei Papadia che vantano nel loro albero genealogico messer Baldassarre Papadia, autore delle Memorie storiche della città di Galatina nella Japigia, ma anche la (contemporanea) gentile signora Maria Cristina, custode gelosa della stupenda biblioteca paterna, che ho più volte visitato; questa amica che insieme al consorte Paolo, non più tardi di qualche settimana fa, m’ha invitato nella sua bella e storica dimora (adiacente alla Basilica di Santa Caterina) proprio per farmi esaminare le diverse raccolte di giornali d’epoca, di quaderni, di “Domenica del Corriere”, di libri non ancora catalogati nella suddetta biblioteca. Rovistando ben bene tra quelle carte sono certo che si troverebbe l’emeroteca delle riviste di parole crociate, quelle sulle quali il papà di Cristina, il signor Raffaele, capo dell’ufficio imposte di Gallipoli, si esercitava nel tempo libero delle famose vacanze leucane…      
Il libro di Gianluca Virgilio, come gli altri suoi libri di cui ho avuto modo di parlare altrove, ricorda la svelta forma tipografica dei tascabili dell’editore Sellerio, l’editore dei famosi libri di Andrea Camilleri e Gianrico Carofiglio. Ma qui siamo di fronte ad una casa editrice galatinese e non di Palermo, la Edit Santoro; e poi siamo in presenza di un caro figlio di Galatina, dal quale ormai ci aspettiamo anzi pretendiamo un romanzo!
“Infanzia Salentina” è un libro di storie e sentimenti, di tramonti giallo-oro e di schiamazzi di bambini dalle ginocchia sbucciate, di mamme e di zii, di scuola e di febbre per lo sviluppo, di primi turbamenti amorosi e di amicizie che durano una vita, di bagni domenicali nella vasca verde (la mia, pur sempre di plastica, era azzurra) e di giochi in mezzo alla strada: un libro non soltanto di memoria individuale, ma anche, se vogliamo, di esorcismo generazionale. Un libro che ti fa capire che il bisogno di scrivere ed anche di leggere è un tutt’uno con la vita. E chi legge “Infanzia Salentina” non legge Gianluca Virgilio, legge se stesso.

Antonio Mellone

 
Di P. Francesco D’Acquarica (del 20/02/2018 @ 13:49:16, in La chiesa di Noha e i Vescovi di Nardò, linkato 2141 volte)

In questa puntata, P. Francesco D’Acquarica ci racconta di un periodo difficile della chiesa universale e di riflesso anche particolare (quella di Nardò e dunque anche di Noha). Siamo nel pieno della decadenza dei costumi e della corruzione di papi e curie, il che, insieme ad altre concause, diede vita alla Riforma Protestante. Qui – con le dovute eccezioni - si parla di sbandamento, di ignoranza, di molti vizi e poche virtù. Ma la redenzione e la salvezza non possono non avere inizio che dai “mea culpa”.

La Redazione

 

Tempi difficili per la Diocesi di Nardò 

E’ necessario parlare anche di un periodo poco felice della storia della diocesi di Nardò, ma che è comune un po’ a tutta la Chiesa di quel tempo. E’ il periodo che segue il pontificato di Alessandro VI, papa dal 1942 al 1503, fino al Concilio di Trento.        

            Dal 1517, quando morì il De Caris, fino al 1569 i Pontefici furono:

            Leone X (1475-1521)                                 Papa dal 1513 al 1521

            Adriano VI (1459-1523)                          Papa dal 1522 al 1523

            Clemente VII (1478-1534)                      Papa dal 1523 al 1534

 

         Riforma e Controriforma (1534-1655)

            Paolo III (1468-1549)                             Papa dal 1534 al 1549,

                                                                           che diede inizio al Concilio di  Trento

            Giulio III (1487-1555)                             Papa dal 1550 al 1555

            Marcello II (1501-1555)                         Papa nel 1555

            Paolo IV (1476-1559)                            Papa dal 1555 al 1559

            Pio IV (1499-1565)                                Papa dal 1559 al 1565

 

 

Elenco dei Vescovi di Nardò in questo periodo

 

Luigi d’Aragona (1474-1519)        dal 17 giugno 1517 al 21 gennaio 1519 (amminist. Apost.)

Marco Cornaro (1476-1524)         dal 24 gennaio 1519 al  20 febbraio 1521 (amm. Apost.)

Giacomo Antonio Acquaviva       dal 20 febbraio 1521 al 1531 

(1490 ? - 1568)                                (vescovo eletto e mai consacrato)

Giovanni Domenico De Cupis     dal 15 gennaio 1532 al  22 maggio 1536.

(1490 ? - 1553)

Giovanni Battista Acquaviva       dal 22 maggio 1536 al 1569.

 

Non si conosce il nome dell’arciprete di Noha del periodo che va dal 1544 al 1570 circa.

            A partire dalla morte di Antonio De Caris (1517) fino al 1569 con l’elezione a Vescovo del domenicano Ambrogio Salvio, abbiamo a Nardò una serie di “Vescovi” che per motivi diversi poco o nulla ebbero a che fare non solo con Noha ma con tutta la diocesi.

            Periodo triste per la chiesa neretina. Accenno qui brevemente, riportando alcuni tratti di questi Vescovi. Di Noha non si può dire nulla se non quello che si sa della chiesa neretina.

            La chiesa di Nardò rimase ininterrottamente sotto la giurisdizione della famiglia degli Acquaviva*, allora Signori della Città.

* Gli Acquaviva sono stati una famiglia nobile italiana, una delle sette grandi casate del Regno di Napoli. Tra i loro titoli si annoverano quelli di:  duchi di Atri e conti di San Flaviano; poi ancora conti di Conversano e conti, poi duchi di Nardò, per un ramo, e conti e poi principi di Caserta l'altro. Fondatore fu Rinaldo di Acquaviva nel sec. XII. Gli Acquaviva di Nardò sono un ramo cadetto.

 A causa della giovane età di qualcuno di essi, la chiesa di Nardò rimase sotto la tutela di tre cardinali e cioè del D’Aragona, del Cornaro e del De Cupis. E fu un periodo poco florido per la diocesi che invece di essere retta da un Vescovo residenziale fu soggetta ad amministratori o commendatori o titolari, e questo per favorire gli Acquaviva, signori di Nardò.

            La disciplina ecclesiastica ed il culto divino, non soltanto in questa diocesi ma un po’ dappertutto, erano in grandissima decadenza. Gli ordini sacri erano conferiti senza il dovuto intervallo di tempo tra un ordine e l’altro, ed indifferentemente a degni e indegni. Talora i parroci non erano sacerdoti e brillavano per ignoranza (anzi era tanta l’ignoranza diffusa tra il  clero e tra i parroci, che qualcuno non sapeva neppure firmare). Infatti l’arciprete di Melissano al posto della firma in un documento dell’epoca vi appose la croce, accanto alla quale vi è l’annotazione: segno di croce di don Angelo Sciuda, arciprete di Melissano, che non sa scrivere.

            Non per nulla il Concilio di Trento (1545-1563) nella Sessione XXIII decretò l’istituzione dei Seminari per la formazione dei Sacerdoti. Prima i chierici venivano formati presso le singole chiese parrocchiali e la formazione impartita non era soddisfacente e pare che non c’era molta responsabilità nel valutare la vera vocazione sacerdotale.          

            L’arcivescovo di Bari, Decio Caracciolo Rosso, che fece l’ingresso solenne nella sua diocesi il 26 marzo 1607, trovò molti abusi e provò a rimuoverli. Con lettera del 5 settembre dello stesso anno chiese la cooperazione delle autorità civili. In tale lettera, tra l’altro, dice: «Questa città molto numerosa... l’ho ancora ritrovata senza seminario, che dal detto Concilio (tridentino), si conclude, che sia necessario, e che si faccia in ogni città... Ho ultimamente ritrovato un Sacerdozio poco spirituale, mal disciplinato e senza lettere, ed una turma di chiericotti che in luogo di camminare per la via della virtù si indirizza per quella del vizio, onde si mantiene un seminario di persone delinquenti, e totalmente contrarie alla professione clericale, donde nasce l’inquieto, e scandaloso vivere della città; per queste ed altre ragioni che sarei troppo lungo ad assegnare in questo breve foglio, dico alle SS. VV. che han da far pensiero e conclusione insieme che se ritrova ricapito per l’‘obligo ch’hanno, o di pagare le decime debite o almeno dotare le parrocchie necessarie e di fabbricare la casa del Seminario, nel che non andrebbono sette o otto mila ducati di proprietà, o vero da 500 in 600 ducati d’entrata l’anno, che con una minima gabella, che si ponesse ad tempus, si provvederebbe all’una o all’altra secondo l’urgentissima necessità richiede». (Pinto G. , Per la storia della chiesa di Bari nella seconda metà del secolo XVI, in “Archivio Storico Pugliese”, XXIII, 1970, fasc ,I-IV, p.80).

            Veniva violata frequentemente la clausura dei monasteri. Spesso il clero vestiva da secolare e frequentava ritrovi poco onesti. Questo tipo di società era diffuso un po’ dappertutto e tuttavia anche in questo clima si sono avuti  grandi santi. Basti pensare al romanzo di Alessandro Manzoni “I promessi sposi”, dove figura la “monaca Monza” ma anche il Card. Borromeo; c’è don Abbondio ma anche Fra Cristoforo, ecc.

            Eppure, anche nel periodo più buio della storia della Chiesa, quando sul trono di Pietro sedeva un Papa come Alessandro VI, o quando Lutero (1483-1546) decise lo strappo dalla chiesa di Roma, in una società così corrotta, sorsero anche grandi santi. Ne citiamo qualcuno tanto per non essere teorici.

            Pensiamo a San Francesco da Paola (1416-1507) che visse  per i poveri e per la chiesa, venerato in antico anche a Noha.

            Non dimentichiamo i Martiri di Otranto (1480), gli ottocento “testimoni” che preferirono morire decapitati piuttosto che rinnegare la fede.

            San Filippo Neri (1515-1595) detto Pippo, uomo sereno, allegro, giocondo, amante della natura e degli animali, ma anche santo di un forte ascetismo, e con una totale dedizione e affidamento a Dio e impegno per il prossimo.

            Ricordiamo anche S. Rita da Cascia (1381-1457) che fa diventare possibile quello che sembra impossibile. Umiltà e obbedienza furono le vie sulle quali Rita maturò la sua santità.

            S. Bernardino da Siena (1380-1444), grande ed efficace predicatore che venne a sostare per un certo tempo non solo a Nardò ma anche in altri paesi della diocesi. Magari sarà venuto a predicare anche a  Noha.

            S. Luigi Gonzaga (1568-1591), il nobile rampollo primogenito del Signore della città di Mantova, Ferrante Gonzaga, marchese di Castiglione delle Stiviere presso Mantova. Scelse di essere gesuita e volle essere come gli altri, senza privilegi. Martire non della fede, anche se ne aveva tanta, ma della carità, accettando di morire di peste come gli appestati che assisteva.

            S. Pio V (1504-1572), frate domenicano, poi Papa non politico. Uomo del Rosario, che considerava la sintesi del Vangelo, preghiera che egli raccomandò anche con una bolla pontificia nel 1569.

  

 Gli amministratori

della Diocesi di Nardò nel periodo BUIO

 

Il Card. Luigi D’Aragona: fu amministratore della diocesi dal 1517 al 1519. Era nato a Napoli nel 1474, nipote di Ferdinando re di Napoli. Visse nella corte regia. All’età di 18 anni sposò Battistina Cibo, nipote di Innocenzo VIII papa dal 1484 al 1492. Il rito nuziale fu celebrato a Roma nel palazzo pontificio la domenica 3 giugno 1492 alla presenza dello stesso Pontefice, di cardinali e di principi.

            Dopo due anni di matrimonio rimase vedovo; desideroso di quiete, intraprese la carriera ecclesiastica. Il 20 maggio 1494 (aveva solo 20 anni) fu nominato cardinale diacono. Rimasta vacante la sede di Nardò per la morte di Antonio De Caris (1517), quando aveva 42 anni, Leone X, papa dal 1513 al 1521, lo nominò amministratore apostolico di Nardò e poi anche vescovo.

            Si adoperò grandemente per procurare la salute delle anime e per promuovere lo splendore del culto divino. Morì due anni dopo all’età di 44 anni a Roma il 22 gennaio 1519.

 

            Marco Cornaro, Vescovo di Nardò dal 1519 al 1521, discendente della nobile famiglia Cornaro. Era nato a Venezia nel 1476. Suo padre, Giorgio Cornaro era senatore e fratello di Caterina, regina di Cipro. Diventato sacerdote fu nominato protonotario apostolico. Da Alessandro VI, papa dal 1492 al 1503, fu creato cardinale diacono. Morto Alessandro VI, intervenne ai due conclavi dai quali uscirono Pontefici Pio III (ottobre 1503) e Giulio II (novembre 1503).  Fu nominato Vescovo di Padova nel 1517 da Leone X e nel novembre dello stesso anno Vescovo di Verona. Di questa diocesi prese possesso con grande solennità e sfarzo l’anno seguente (1518). Due anni dopo dallo stesso Pontefice fu nominato amministratore perpetuo di Nardò, ma dopo solo tre anni, nel 1521 vi rinunziò. Morì a Venezia nel 1524 a solo 48 anni.

 

            Giacomo Antonio Acquaviva D’Aragona, Vescovo di Nardò dal 1521 al 1532, nel periodo più strano per la diocesi.

            Giacomo nacque a Nardò da Bellisario, primo Duca di questa città, della famiglia Acquaviva e da Sveva, figlia del principe Girolamo di Bisanzio.

            Leone X lo nominò Vescovo di Nardò dopo la rinunzia del Cornaro (1521). Rimase vescovo eletto perchè non fu mai consacrato né Vescovo né sacerdote. Resse la diocesi per 10 anni interi. Sentendosi chiamato al matrimonio nel 1532, due anni prima  che iniziasse il concilio di Trento, prese in moglie Giovanna Spina.

            La rinunzia alla diocesi e le successive nozze con Giovanna Spina furono un colpo durissimo per il padre Bellisario che vedeva deluse tutte le sue speranze sull’avvenire del figlio, che voleva ai supremi gradi della gerarchia ecclesiastica. Dopo il matrimonio si stabilì a Napoli dove visse sino alla fine della sua vita in mezzo all’alta società e all’aristocrazia del suo tempo. Fu sempre correttissimo, amò e praticò profondamente la religione e le opere di carità, specie il soccorso agli indigenti. Morì il 31 dicembre 1568. 

 

            Giovanni Battista Acquaviva, Vescovo di Nardò dal 22 maggio 1536 al 1569, nacque a Nardò nel 1513 dal conte Bellisario, ultimogenito e fratello di Giacomo Antonio che abbiamo appena incontrato.

            Fu educato piamente. Ancora giovane intraprese la via ecclesiastica. Quando aveva solo 23 anni, Paolo III papa dal 1534 al 1549 (è il Papa che nel 1545 convocò il Concilio di Trento) lo nominò amministratore  della diocesi di Nardò con diritto di divenire Vescovo, appena raggiunti i 27 anni.

            Resse la diocesi con diligenza, coadiuvato da cinque vicari generali. Nel 1563 indisse il sinodo diocesano che celebrò solennemente alla presenza del capitolo e del clero cittadino e diocesano. Furono promulgati vari decreti e norme estremamente necessarie in quei tempi. Non conosciamo il nome dell’arciprete di Noha che con molta probabilità partecipò al Sinodo.

            Nel 1568 G.B. Acquaviva, per la sua devozione alla Vergine, si adoperò a far venire a Nardò i monaci Carmelitani che si stabilirono in città e anche nella diocesi. Resse la diocesi fino al 1569. Il 13 agosto 1569, alle 5 del mattino, una malattia mortale gli tolse la vita. Aveva 56 anni. Grande fu il dolore dei neretini per tale perdita.

[continua]         

P. Francesco D’Acquarica

[le immagini a corredo di questo pezzo sono estrapolate dal volume di Mario Mennonna (a cura di Mario Mennonna  Cosimo Rizzo) “Nardò e Gallipoli – Storia delle diocesi in oltre seicento anni – 1937 – 2013”, Congedo Editore, Galatina, 2014].

 
Di Antonio Mellone (del 08/07/2016 @ 13:47:23, in Recensione libro, linkato 2252 volte)

I libri che vale la pena di leggere son quelli che fanno incavolare.

Tutti gli altri, sì, vabbé, potrebbero essere pure interessanti, magari scritti anche bene, ma se non provocano un pizzico di stizza, di tormento interiore, di cruccio o di revisione di un paradigma al quale s’è pur sempre creduto servono a poco.

E questo non dipende dal genere. Anche i romanzi d’amore, per dire, se in qualche loro parte non suscitano forme di sdegno, risentimento o di rabbia potrebbero rischiare di diventare una gran perdita di tempo.

Ma se ci pensate bene non esistono libri che non fanno incavolare.

Anche “I Promessi Sposi”, per esempio, in qualche brano, anzi in più di qualcuno, creano inquietudine, rancore, irritazione (pensiamo alle pagine su don Abbondio, o a quelle su don Rodrigo, o alle figure sinistre del conte Attilio o del dottor Azzeccagarbugli, o il racconto dell’assalto al forno delle grucce e l’arrivo di Antonio Ferrer). Ma il discorso varrebbe anche per “Anna Karenina”, per “I Malavoglia” o per “Il nome della Rosa”…

Di certo uno dei libri che più di tutti m’ha fatto incavolare nel corso di questo solleone (altro che refrigerio nella lettura sotto l’ombrellone) è “Carnefici” di Pino Aprile (Piemme, Milano, 2016). E non si tratta purtroppo di un romanzo d’appendice, ma di un volume di storia patria (patria, si fa per dire) che l’appendicite invece te la fa venire, eccome.  

E’ che uno (come per esempio il sottoscritto) pensava di conoscere la storia dell’Unità d’Italia, quella imparata a memoria dalle elementari in su (anche se a dire il vero qualcosa non mi quadrava neanche allora, ma non riuscivo a capire esattamente cosa), invece poi s’accorge che il film, quello vero, è un altro: e non si tratta della fiction trasmessaci finora a scuole unificate ma di un documentario che finalmente alcune reti, anzi la Rete, e alcuni scrittori come l’Aprile, iniziano a mandare in onda finalmente non più in quantità omeopatiche.

E così, pagina dopo pagina, t’accorgi che il fatterello che t’hanno raccontato a suo tempo se non era una bufala quanto meno mancava di alcuni fatti fondamentali (che nessun professorone universitario s’è preso la briga di ricercare tra gli archivi  - quelli non premeditatamente distrutti, s’intende), come quello per cui i savoiardi occupanti il Sud furono sì fratelli d’Italia, ma quasi tutti di nome Caino.

Ogni pagina di “Carnefici” ti fa salire la pressione arteriosa. Sì, perché l’Unità si fece non con la passeggiata di Garibaldi e di mille lanzichenecchi al soldo di qualcuno, ma con le stragi, le deportazioni, le torture, le decapitazioni, le incarcerazioni, le intimidazioni, gli inganni, gli stupri, le distruzioni di interi villaggi, le esecuzioni sommarie, i saccheggi, i rastrellamenti, i lager, le fucilazioni a tappeto…, tanto che all’appello mancano decine, che dico, centinaia di migliaia di abitanti del regno delle due Sicilie.

Ma non è solo questo. E’ che hanno scordato di dirci tante altre cose, come per esempio che prima dell’Unità d’Italia il 60% di tutti gli studenti italiani erano iscritti a Napoli (quasi il 100%, quelli di Fisica, Chimica e Scienze Naturali), e che le università di Catania e Palermo avevano lo stesso numero di iscritti di Bologna, ma che dopo l’Unità d’Italia i contributi alle università del Sud furono decimati (più o meno come i contadini costretti diventati “briganti”, per opporsi all’invasore).

E’ che hanno ripetuto mille volte la balla della burocrazia del Sud facendola diventare “proverbiale realtà”, quando invece il Regno delle Due Sicilie, con il doppio della popolazione, aveva in realtà la metà dei pubblici dipendenti del Piemonte. Per non parlare della corruzione, dei governi instabili, del trasformismo parlamentare e del debito pubblico, veri e propri princìpi cardine delle architetture politiche sabaude, non di quelle napoletane.

Poi sappiamo quasi tutti com’è andata a finire.

E se non lo sapete, date un’occhiata agli altri libri di Pino Aprile (io li ho divorati di volta in volta in pochi giorni, anzi in poche ore): primo fra tutti “Terroni” (Piemme, Milano, 2010 – c’è anche la versione economica), ma anche “Giù al Sud” (Piemme, 2011), “Mai più Terroni” (Piemme, 2012), “Il Sud Puzza” (Piemme, 2013), e infine “Terroni ‘dernescional” (Piemme, 2014).

V’incazzerete a bestia, volume dopo volume, pagina dopo pagina. Ma almeno capirete finalmente quanto gli storiografi ufficiali siano (stati) tanto falsi quanto bravi.

Quindi molto bravi.

Antonio Mellone

 
Di Redazione (del 09/10/2018 @ 13:45:49, in Comunicato Stampa, linkato 1234 volte)

Scrivere è resistere, al pari di ogni seme parola e storia salvata, travasata e tramandata dalle comunità. Scegliere e riconoscere ciò che ci nutre è un'azione che include i gesti antichi dei nostri contadini e le parole smarrite dei nostri padri. Il laboratorio di scrittura “Carta bianca”, attraverso le tecniche della narrazione orale e il training del narratore è concepito come un’indagine poetica sul campo al fine di generare storie in forma di monologhi orali per la reinterpretazione della memoria collettiva. Le storie che siamo incontrano il metodo narrativo più antico e popolare e recuperano il ruolo sociale del cantore pellegrino. Ogni Altrove teorico, sia esso luogo geografico o dell’anima, diventa materiale di laboratorio e struttura di una drammaturgia trascritta dagli stessi partecipanti in un vero e proprio Diario comunitario che, al termine della ricerca, viene donato alla comunità di Noha e al pubblico di Leverà. Ad ispirare e guidare le attività laboratoriali suddivise in quattro appuntamenti mensili è il gioco di raccontare, riattivare la civiltà de "li cunti" e dello scalino, il cerchio magico delle sedie portate sull'uscio delle case del sud all'imbrunire.

Raccontare una storia, inventare una storia, scambiarsi una storia, è un gesto arcaico che da sempre segna lo spartiacque di ogni civiltà. Siamo le storie che esprimiamo e raccontiamo, ogni essere umano è la sua storia. Le storie di vita raccontate dai partecipanti al laboratorio diventano fiabe del reale, straordinarie cronache in forma di novella, costellazioni di vissuti preziosi per chi ascolta e per chi narra riscoprendo il senso profondo di essere comunità.

Le fasi laboratoriali saranno guidate dalla scrittrice Luisa Ruggio. Il laboratorio “Carta bianca” contiene in nuce la traccia della fase conclusiva del progetto dopo i primi 8 mesi di training, ovvero la teatralizzazione delle storie scritte dai partecipanti, fase in cui i risultati si strutturano per assumere la forma di incontro-evento. Attraverso il confronto con il pubblico, il laboratorio è fare poetico ed emotivo, la scrittura è intesa come azione e camminamento, quasi un puro itinerario in tutto simile a quello che ognuno compie per restare umano insieme agli altri.

 

Info e iscrizioni: 3894250571 | 3891081226

levera.arci@gmail.com

via Bellini 24 - Noha (Galatina)

 

Biografia breve:

Luisa Ruggio (1978), scrittrice giornalista editor blogger, insegna Scrittura e Lettura Creativa nella sezione maschile del Carcere di Lecce dove ha fondato il Collettivo Rosa dei Venti in favore dei lettori detenuti e ha avviato nel 2017 il laboratorio stabile Mondo Scritto che ad oggi rende sede di residenza artistica la biblioteca della Casa Circondariale Borgo San Nicola. Vive e lavora a Lecce e Roma, ha scritto saggi sul Cinema e la Psicoanalisi per i Quaderni Scientifici dell'Università del Salento ("Segni e comprensione", Manni), ha esordito nel 2006 con il pluripremiato romanzo "Afra" edito da Besa. Ha pubblicato i romanzi e le raccolte di racconti: "La nuca" (2008, Controluce), "Senza Storie" (Besa 2010, Menzione Speciale Premio Bodini), "Teresa Manara" (2014, Controluce), "Notturno" (2015, Besa), "Un poco di grazia" (2016, Besa). Suoi racconti, testi e articoli sono apparsi su giornali, quotidiani e riviste letterarie e nelle seguenti antologie: "Come vedi ti penso" (Milella), "Ti porto a Lecce" (Kurumuny), "L'isola di Rina" (Milella), "Apulia Europa Erlesen" (Wieser). Nel 2006 ha creato i blog letterari "dentro Luisa", "Astrolabio Quaderni" (Scarti di vita giornaliera), "Taccuino Onirico" e "Reset". Alle cronache in forma di novella ha dedicato la rubrica giornaliera "Vite di città" pubblicata sulle pagine del giornale "Paese Nuovo" (2011). Dal 2000 al 2011 ha scritto e diretto i seguenti format televisivi: "Boomerang", "Oltretutto", "Separé", "30° all'ombra", "Summertime", "Fatti nostri", "In tempo reale" e ha firmato le pagine della Cultura del Tg8 per l'emittente televisiva Canale 8. Dal 2012 al 2017 ha firmato i documentari di SalentoWeb.Tv. Nel 2012 l'Università del Salento le ha conferito il Premio Skylab per il Giornalismo televisivo. Nel 2017 insieme al Collettivo Rosa dei Venti nella sezione maschile del Carcere di Lecce ha prodotto gli studi "Corpo Scritto" e "Mittente/Destinatario" e "Vide Cor Meum" del Collettivo ed ha ideato e avviato il Festival Invisibile che promuove le arti in carcere ospitando artisti tra le mura. Sta scrivendo il suo quinto romanzo.

 
Di Albino Campa (del 20/11/2010 @ 13:42:20, in Il Mangialibri, linkato 3512 volte)

Il Mangialibri è un libro che divora libri, storie, vite, racconti. Prima pagina, leggo: "A chi non si stanca di cercare"; questo sono io. "A chi ha paura di trovare"; anche questo sono io. "A chi non si ferma mai"; e sono sempre io. Poi "A chi non ha ancora capito che prima o poi, cercando si trova"; sono ancora io. Così sin da subito acquisti la consapevolezza che questo romanzo è dedicato a te, chiunque tu sia; l'importante è che ami la ricerca, che guardi in alto se non hai trovato per terra, se ti emozioni più per una parola che per un fatto.

Il Mangialibri infatti ama le parole, come lo stesso Michele Stursi che ne è l'autore. Le prime due voci che aprono questo romanzo, quasi oserei dire straordinariamente rurale, sono "arrivo" e "abbandono". Si arriva non prima di aver abbandonato qualcosa. Ogni tappa presuppone l'essersi allontanato dalla precedente. Michele Stursi conosce la sofferenza del lasciare e l'emozione del ritrovare, e ce lo racconta con parole che a volte sfiorano la poesia, tramutandosi in versi. A pagina 14 leggi "Seduto nelle ultime file un solo spettatore pagante: il silenzio". Se non è poesia questa, allora si sono stravolti i canoni del buon gusto letterario. Stursi racconta la sua vita, nei panni del protagonista, passata a leggere, a meditare, per poi rendersi conto dell'inutilità del lavoro meccanico della mente che non ha il coraggio di confrontarsi con gli altri. Il Mangialibri coglie in pieno i difetti di questa società: effimera comunicazione. Solo i sentimenti rimangono quelli originali di sempre: amor del vero, nostalgia di casa, amicizia, amore. Il romanzo racconta di Noha, ma leggendo ti accorgi che Noha non è un paese soltanto di case, ma di persone. Noha è le grida di un fruttivendolo, una moglie che chiede al marito la verdura fresca di campagna, un vecchio di fronte casa che cerca di mettere in moto il suo Ape. Noha è le comari che escono dalla porta della Chiesa, il contadino che raccatta gli attrezzi del mestiere, la zitella Carmela che spazza davanti casa.
La descrizione dei luoghi e della natura è accattivante; l'ulivo vive come vivono gli esseri umani. Anche esso è uno dei protagonisti. Vive accanto ad ogni altro personaggio di questo racconto, respira con lui, soffre, suda. Stursi scrive che "l'ulivo per la gente di questi luoghi non è un albero, ma un simbolo". Concordo pienamente con l'autore. Noha vive anche delle sue tradizioni, di suoi simboli, di suoi detti popolari. Noha è autonoma e sovrana per la sua cultura, per la sua tradizione e per le sue storie. I protagonisti del romanzo si guardano intorno e si accorgono di essere circondati dalla natura, immersi in un verde dominante, minacciato spesso dalla solitudine degli animi, dall'oscurità dei pensieri.
Ma Il Mangialibri è anche una storia d'amore difficile non per i protagonisti che la vivono ma per le dinamiche che la supportano. La parola amore, o per lo meno il suo senso e i suoi effetti, sono presenti dovunque. Pasquale, il protagonista, ama Eleonora, una pittrice di ulivi. Le emozioni dei personaggi ti coinvolgono, i loro pensieri ti assillano, le loro speranze ti troncano il fiato. E quando non ti accontenti più del flusso di ciò che è scritto e vorresti sapere ancora e ancora, Michele Stursi ti rimprovera per la tua poco educata curiosità: "Ebbene, che termini qui il racconto di questa indimenticabile notte", leggi a pag. 172.
Sapere è bene ma la fantasia è un'arma a doppio taglio, e non sai mai se il manico del coltello ce l'ha l'autore o il lettore. Se Stursi ti lascia maneggiare la sua fantasia, in un attimo se la può riprendere, catapultandoti nella realtà.
Il romanzo si chiude con una riflessione sulla scrittura, sul suo essere al servizio, sul suo essere dotata di vita propria. "Scrivere è il gesto più umile e innocuo che un uomo possa concepire", leggi a pag 196. Ma Michele Stursi sa bene che la scrittura è una delle conquiste più ardue e coraggiose che l'uomo abbia mai fatto. Ed è per la scrittura che alcuni uomini oggi vivono, come suppongo lo sia anche per questo ragazzo improvvisatosi scrittore. L'esperimento è riuscito: "E' giunto il momento di uscire fuori da qui. Mi sa che devo delle spiegazioni alla mia Noha". Ognuno esca allo scoperto, chiarisca il suo ruolo e spieghi che cosa ha fatto finora per il proprio paese, la propria città, la propria nazione.
Tutto questo e molto altro è "Il Mangialibri" di Michele Stursi.

Fabrizio Vincenti
fonte: www.galatina.it
 

 
Di Antonio Mellone (del 22/02/2016 @ 13:41:36, in Politica, linkato 2562 volte)

No, purtroppo non è la recensione dell’unico romanzo di Emily Brontë (1818 – 1848), bensì un paio di considerazioni in merito al comunicato di revoca delle finte dimissioni di Cosimino Montagna dalla carica di sindaco di Galatina (l’attributo “finto” si riferisce alle dimissioni e non, sfortunatamente, alla loro revoca).

L’annuncio dell’auto-esonero è durato giusto il periodo del Carnevale (quando si dice il destino).  

Martedì grasso, 9 febbraio 2016, termina dunque la carnevalata sindacale, e inizia (per noi) l’ennesimo periodo di Quaresima.

*

Il laconico testo montagnoso con il quale il sindaco di Galatina comunica di sacrificarsi (sempre per noi) inizia con: “Al fine di corrispondere all’invito rivoltomi dal PD e da ogni consigliere comunale del Partito [e fin qui ci siamo: figurarsi se qualcuno del Partito e men che meno i tre urlanti reprobi avrebbero potuto avere un seppur minimo scatto di dignità, ndr.], oltre che dal mondo culturale, sociale ed economico della Città [e chi sarebbero, di grazia, tutte queste decine, che dico, centinaia di esponenti del “mondo culturale, sociale ed economico della Città” che l’avranno convinto a restare? Mistero delle schede (elettorali), ndr.], ritengo di dover revocare le mie dimissioni per proseguire negli impegni rivolti:

  1. al “Risanamento finanziario” del Comune rendendo operative le decisioni assunte nella seduta del Consiglio Comunale del 26 gennaio 2016 [Come no. Sicuro al 100%. Magari partendo immediatamente con l’adesione alla campagna “M’illumino di meno”, così i nohani non romperanno più le scatole per la cabina elettrica di ‘sto benedetto Centro Polivalente, ndr.].
  2. ad assicurare la prescritta “rivisitazione” del Documento Unico di Programmazione (DUP) [e io, ingenuo, che pensavo che DUP fosse l’acronimo di: Dumamu ‘U Polivalente – accendiamo il Polivalente – e non invece Disperati Umiliano Politica, ovvero Difendimuni ‘U Postu, ndr.] quale sede per coniugare l’azione amministrativa con la nuova politica di coesione, riservando rinnovata attenzione alle frazioni [e qui inizio a preoccuparmi. Cosa avrà mai voluto dire, Mimino nostro, con la locuzione: “rinnovata attenzione alle frazioni”? Forse che d’ora in poi, vivaddio, non mancherà nemmeno a una delle processioni solenni bardato come un cavallo in fiera con tanto di fascia tricolore? Oppure che raddoppierà la spesa in opere pubbliche fin qui riservata alle frazioni? (Tanto che gli costa? Due per zero fa sempre zero). Ma è probabile che come al solito abbia capito male io: probabilmente avrà voluto dire rinnovata attenzione non alle frazioni ma alle fazioni (del partito). Ndr.].
  3. all’attivazione di ogni utile iniziativa rivolta al riconoscimento del ruolo del “Santa Caterina Novella”, quale ospedale di primo livello, in adesione al deliberato del Consiglio Comunale monotematico del 12 gennaio u.s. [Così tuonava Montagna anche il 19/2/2016 con tanto di titolone su galatina.it: “Pronto a marciare in difesa dell’ospedale”. Forse in quel marciare la seconda a è di troppo. Senza quel refuso sarebbe, più realisticamente, marcire. Ndr.].
  4. ad impegnare le strutture dirigenziali per procedere nella definizione del “Rapporto di fine mandato” anche al fine di presentare il primo “progress” entro il prossimo mese di aprile ai partiti di maggioranza [questa è arte pura, questo è Manzoni!  Piero, dico, non Alessandro. (cfr. Piero Manzoni - opere) Ndr.].  

Per quanto innanzi col presente atto, ritiro formalmente e ad ogni effetto di legge le dimissioni [lo fa per la Città. Si spende (ancora una volta) per noi. E senza badare a spese. Ndr.] dalla carica di Sindaco del Comune di Galatina presentate in data 26 gennaio 2016. - F.to Cosimo Montagna"

*

In tutto questo bailamme, l’unico a cadere dal pero è il solito gggiornalista del Nuovo Quodidiano di Puglia, che, sempre il 9 febbraio 2016, parla infatti di: Colpo a sorpresa [chi lo avrebbe mai detto, infatti, che Mimino avrebbe ritirato le dimissioni irrevocabili? Giacché, il suddetto scriba avrebbe anche potuto aggiungere (a proposito di Tempesta) “come fulmine a ciel sereno”, tanto un luogo comune vale l’altro. Ndr.] il sindaco di Galatina Cosimo Montagna ritira le dimissioni. La comunicazione della revoca delle dimissioni è giunta questa mattina al segretario comunale. Tutto nei tempi [ma pensa te: poteva revocare le dimissioni un paio di giorni dopo la scadenza, quel birichino. Invece niente. Un tiro mancino dietro l’altro (l’unica cosa di sinistra residua a Galatina e dintorni). Ndr.] a sei giorni dei venti giorni previsti dalla legge per il ritiro delle dimissioni [dunque davvero “tutto nei tempi”, ndr.]. A “convincere” il primo cittadino a rivedere le proprie posizioni sarebbe stata l'intera coalizione di centrosinistra [secondo me anche qualche esponente del centro destra, tanto cosa cambia tra gli uni e gli altri? Ndr.]; determinante l'intervento del coordinatore provinciale del Partito Democratico, Salvatore Piconese che, a quanto pare, in un incontro tenutosi qualche giorno fa con il gruppo di consiglieri dissidenti [“dissidenti”, è una parola grossa. Ndr.] del Pd Daniela Sindaco, Piero Lagna e Teresa Spagna nel Circolo del Pd di Noha [in campo neutro, non si sa mai. Ndr.] avrebbe raggiunto un preliminare di accordo, una sorta di compromesso [il famoso compromesso storico: su cosa, non è dato di sapere. Del resto la destra non sa quel che fa il centrodestra. Figurarsi la cosiddetta carta stampata locale, e i suoi subalterni. Ndr.].

*

Sappiamo, invece, da fonti certe quello che ha esclamato il coordinatore provinciale del PD, il Piconese di cui sopra, all’uscita dal circolo di Noha, mentre alzava lo sguardo al quadrante dell’orologio svettante nella pubblica piazza indicante le undici meno dieci, anzi per la precisione le 22.50: “Caspita, s’è fatta una certa! Come passa il tempo qui a Noha [per scendere a compromessi, Ndr.]”.

Nessuno degli astanti ha avuto il coraggio di replicargli che erano appena le 20.30 e che la riunione era iniziata una mezzoretta prima, non di più.

*

E pensare che tutta questa Tempesta di rabbia, anzi in un bicchier d’acqua, è nata dalla nomina del successore del quondam Andrea Coccioli (sanu me toccu) alla carica di assessore ai lavori pubici.

Quando si dice PD: Pantomima Dimissioni.

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 14/07/2011 @ 13:28:38, in Letture estive, linkato 3124 volte)

La ragazza con l’orecchino di perla, Tracy Chevalier, BEAT, pp. 240, € 9,00

Tempo di lettura: 2-4 giorni

I colori dell’Amore finalmente stemperati su una tela

Se ora con molta superficialità provassi a sbarazzarmi di voi biascicando qualcosa come “La ragazza con l’orecchino di perla è una semplice storia d’amore”, vi pregherei di non prendermi in seria considerazione. Non scherzo, mi conosco abbastanza da supporre che in tal caso sarei ancora vittima di quello strano effetto anestetizzante, ottenebrante che puntuale segue la lettura di un libro superbo. Pur non volendo, sarei costretto quindi a mentirvi, a nascondere ciò che in realtà rende unico questo scritto, ovvero il contesto storico, culturale e artistico e il connubio tra arte e passione, senza il quale probabilmente il romanzo della Chevalier non avrebbe alcun senso.

 

Approfitto quindi di questo rapido momento di lucidità per confessarvi che il contesto storico in questo romanzo è essenziale, imprescindibile: Ieggendo queste pagine indosserete gli abiti del tempo – siamo nel XVII secolo in Olanda – e vi capiterà di passeggiare insieme alla giovane Griet per le strade di Delft, di ascoltare le grida dei macellai nel Mercato delle Carni, di sentire l’odore nauseabondo del sangue addosso al giovane Peter, di preparare insieme a lei i colori per il signore e poi di posare per lui con le lacrime agli occhi. E solo a questo punto, specchiandovi insieme a Griet nello sguardo contemplativo del pittore, comprenderete l’unicità di quest’amore e sarete inevitabilmente colpiti e atterrati da una calda sensazione di piacere mista a stupore.

 

Una scrittura molto semplice, in uno stile poco ricercato, ma di sicuro in grado di condurre il lettore per mano attraverso la storia ed avvolgerlo al punto da rischiare il soffocamento per eccessiva immedesimazione. Bisognerà pertanto procedere lentamente, pagina dopo pagina, con il fiato sospeso, e non sarà facile per il lettore prevedere le reazioni della giovane Griet alle continue lamentele e alle ingiuste accuse che le vengono rivolte dalla gelosa padrona, al lavoro estenuante che è costretta a svolgere in casa e alle continue schermaglie della piccola Cornelia. Ma a dare alla giovane serva la forza di andare avanti sarà soprattutto il lavoro privilegiato di pulizia dell’atelier del suo padrone, il pittore olandese Vermeer, che prima la inizierà ai segreti della pittura e di lì sino a sfiorare gli effimeri e quanto mai deliziosi lineamenti di un amore purtroppo impossibile.

       
Michele Stursi
 
Di Redazione (del 26/05/2022 @ 13:14:43, in Comunicato Stampa, linkato 408 volte)

Domenica 29 maggio alle ore 19,30 presso la sede dell'Associazione Arci Levèra di Noha, avrò il piacere di presentare il libro "I Re dell'Africa" di Giuseppe Resta.  
Parleremo di territorio, ambiente, inquinamento, civicità... e nemesi.
E dei tanti uomini e donne sbruffoni, simpatici, malandrini, delinquenti, repellenti, eroici, rusticani, affascinanti protagonisti dell'amara commedia raccontata in questo romanzo.

Arci Levèra

 
Di Redazione (del 16/03/2023 @ 13:12:11, in Comunicato Stampa, linkato 321 volte)

Terzo appuntamento del Circolo dei Lettori “Leggere in circolo” presso la Biblioteca “P. Siciliani” di Galatina

I volontari del Servizio Civile Universale progetto “In Reading 2020”, in collaborazione con la Biblioteca “P. Siciliani”, saranno impegnati nel terzo appuntamento del Circolo dei Lettori “Leggere in circolo”.

L’evento vedrà come protagonista il romanzo di Silvia De Lorenzis dal titolo “Non è mai troppo tardi per cambiare la rotta”, edito da Kamerik.

Silvia De Lorenzis nasce a Galatina, il 29 settembre del 1981. Consegue la laurea triennale in Servizio sociale, la laurea magistrale in Progettazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali e un master in Valutazione delle politiche e dei servizi sociali, presso l’Università del Salento. Lavora come assistente sociale presso il Comune di Melendugno, l’Ufficio di Piano del Comune di Martano (LE) e il Comune di Soleto (LE).

Dopo il romanzo d'esordio “Il cuore è il mio bagaglio a mano” del 2021, sempre per la casa editrice siciliana, l'autrice galatinese torna con una storia di dolore, ma anche di amore, di rinascita e di speranza, confermando la sua sensibilità nel toccare le corde più profonde dell'animo umano e dei suoi sentimenti.

L’incontro, in cui si approfondirà il romanzo alla presenza dell’autrice, si terrà il 18 Marzo alle ore 17:30 presso la Biblioteca “P. Siciliani”.

Gli OV del Servizio Civile Universale
del Comune di Galatina

 
Di Redazione (del 25/10/2018 @ 13:06:38, in Comunicato Stampa, linkato 1202 volte)

"Ho molto affetto per gli onesti libri di viaggio. Essi posseggono la virtù di offrire un altrove teorico e plausibile al nostro dove imprescindibile e massiccio". Queste frasi di Antonio Tabucchi ispirano "L'idea di partenza| Laboratorio di Scrittura sul viaggio" guidato dalla scrittrice e giornalista Luisa Ruggio, a cura della Libreria Fiordilibro. Il Laboratorio suddiviso in tre giornate, ogni pomeriggio da Venerdì 26 a Domenica 28 Ottobre (dalle ore 17.00 alle ore 20.00), sarà ospitato negli spazi di Palazzo Di Lorenzo in via Mory n.3 a Galatina. Il viaggio è il tema del nuovo appuntamento laboratoriale, "Le parole lontano, antico e simili sono poetiche e piacevoli perché destano idee vaste e indefinite...", scriveva Leopardi nello "Zibaldone".  Del resto, i mari e le isole di Conrad e di Melville, alla stregua del viaggio della piccola Dorothy verso il regno di Oz, sono sconfinamenti, così come tutti gli itinerari che rendono avventuroso e appassionante l'atto stesso di raccontare una favola e scrivere una storia, un diario, una lettera da un luogo remoto o solo immaginario. Questi paesaggi narrativi diventano sempre specchi interiori che digradano rapidi o lenti verso la tentazione metafisica e da sempre spingono i raccontastorie a scrivere pagine che cantano di lontananze. I veri viaggi appartengono all'essere più che allo spazio e al tempo. Così, ogni viaggio è un'Odissea, poiché ogni vita con i suoi approdi ed i suoi naufragi, le sue false partenze ed i suoi ritorni, le attese e le terre promesse, i paradisi perduti e i giardini segreti, la geografia del corpo e il mare magnum della pagina bianca, ha per scenario il campo magnetico e le analogie potenti delle parole.

 

Luisa Ruggio

 (1978), scrittrice giornalista editor blogger, insegna Scrittura e Lettura Creativa nella sezione maschile del Carcere di Lecce dove ha fondato il Collettivo Rosa dei Venti in favore dei lettori detenuti e ha avviato nel 2017 il laboratorio stabile Mondo Scritto che ad oggi rende sede di residenza artistica la biblioteca della Casa Circondariale Borgo San Nicola. Vive e lavora a Lecce e Roma, ha scritto saggi sul Cinema e la Psicoanalisi per i Quaderni Scientifici dell'Università del Salento ("Segni e comprensione", Manni), ha esordito nel 2006 con il pluripremiato romanzo "Afra" edito da Besa. Ha pubblicato i romanzi e le raccolte di racconti: "La nuca" (2008, Controluce), "Senza Storie" (Besa 2010, Menzione Speciale Premio Bodini), "Teresa Manara" (2014, Controluce), "Notturno" (2015, Besa), "Un poco di grazia" (2016, Besa). Suoi racconti, testi e articoli sono apparsi su giornali, quotidiani e riviste letterarie e nelle seguenti antologie: "Come vedi ti penso" (Milella), "Ti porto a Lecce" (Kurumuny), "L'isola di Rina" (Milella), "Apulia Europa Erlesen" (Wieser). Nel 2006 ha creato i blog letterari "dentro Luisa", "Astrolabio Quaderni" (Scarti di vita giornaliera), "Taccuino Onirico" e "Reset". Alle cronache in forma di novella ha dedicato la rubrica giornaliera "Vite di città" pubblicata sulle pagine del giornale "Paese Nuovo" (2011). Dal 2000 al 2011 ha scritto e diretto i seguenti format televisivi: "Boomerang", "Oltretutto", "Separé", "30° all'ombra", "Summertime", "Fatti nostri", "In tempo reale" e ha firmato le pagine della Cultura del Tg8 per l'emittente televisiva Canale 8. Dal 2012 al 2017 ha firmato i documentari di SalentoWeb.Tv. Nel 2012 l'Università del Salento le ha conferito il Premio Skylab per il Giornalismo televisivo. Nel 2017 insieme al Collettivo Rosa dei Venti nella sezione maschile del Carcere di Lecce ha prodotto gli studi "Corpo Scritto" e "Mittente/Destinatario" e "Vide Cor Meum" del Collettivo ed ha ideato e avviato il Festival Invisibile che promuove le arti in carcere ospitando artisti tra le mura. Sta scrivendo il suo quinto romanzo.  

Emilia Frassanito

 
Di Antonio Mellone (del 20/05/2017 @ 12:38:18, in NohaBlog, linkato 3710 volte)

Ebbene, sì: ammetto di aver visto tutti i trentasette e passa minuti di video della cosiddetta conferenza stampa tenuta da Sindaco Daniela Sindaco, quelli in cui la reproba cacciata su due piedi dal PD (Partito Disturbato) vuota il sacco colmo (immaginate di cosa), con tanto di piagnisteo incorporato e sceneggiata napoletana (anzi nohana) della strappata delle tessere del PD.

Confesso anche il particolare di averli visti sul mio tablet mentre ero in bagno (sì, signori, non bisogna mai sottrarre del tempo prezioso allo studio, in questo caso di un fenomeno antropologico). Devo ammettere che l’effetto più che rilassante è stato lassativo: roba che il Guttalax, al confronto, sarebbe Enterogermina Adulti.

Orbene, tra una frase sibillina e l’altra, tra un detto e un non-detto, tra un avvertimento, un’allusione pseudo-intimidatoria e un messaggio in codice, cioè in politichese puro (oddio, “puro” è una parola grossa ma vabbè), la candidata nostrana ripercorre dieci anni della sua brillante carriera a Palazzo Orsini, facendo arguire come nel corso delle legislature sia riuscita a superare tutti quanti in retromarcia, essendo stata trattata a pesci in faccia da dirigenti e presunti compagni del suo ormai ex-partito (e di conseguenza come siano stati bistrattati anche i suoi elettori: lo afferma con enfasi la stessa protagonista con questa asserzione cubitale: “LA MIA STORIA E’ LA VOSTRA STORIA”. Ecco, fossi iscritto al PD di Noha mi sarei offeso a bestia).  

In qualche brano di questo filmato da teche Rai, s’ode la candidata proferire solennemente la fatidica frase: “Io faccio nomi e cognomi”. Ovviamente di “nomi e cognomi” nemmeno l’ombra (tranne quello di tal Antonio De Matteis, o quello del coordinatore dei circoli, ovvero dei circhi di Noha e Galatina: dunque stiamo parlando del nulla). Gli altri personaggi e interpreti citati, orsù, dall’avvocata nostra, o te li immagini o conosci a menadito tutte le beghe intestine al partito (“intestino”, in entrambi i sensi: letterario e letterale), o sei tagliato fuori dal discorso.   

Nel florilegio di invettive ermetiche e catilinarie asintotiche al grottesco, a tratti con toni che farebbero impallidire Vanna Marchi, si ripete più volte un beffardo “cara amica” [e chi sarebbe costei? Ndr.]; si parla inoltre di una “manipolatrice” [avrà un nome questa manipolatrice? E poi, cosa manipolerebbe questa manipolatrice di Sapri? Ndr.]; si viene a conoscenza di “mail inviate direttamente dall’ospedale per la costituzione di un gruppo consiliare” [evidentemente da qualcuno che vi lavora. E, di grazia, a proposito di “nomi e cognomi”, chi sarebbe l’estensore di codeste mail? E da quale ospedale sarebbero partite le missive? Ndr.]; e ancora “[ho ricevuto] ricatti e minacce telefoniche e personali per ritirarmi e starmene buona” [e qui, premessa tutta la mia solidarietà del caso, domando: chi ti avrebbe ricattato e minacciato telefonicamente e personalmente? Forse l’Innominato di manzoniana memoria? Ndr.]; si sente, tra gli altri, un altro avvertimento: “qualcuno dovrebbe abbassare la cresta” [e ‘ntorna: quale galletto o gallina dovrebbe abbassare ‘sta benedetta cresta? Ndr.]; e infine si blatera di fantomatici “ticket da donna a donna” [sarebbe possibile, per favore, sapere il nome di codeste donne? Ndr.].

Insomma frasi così. Tanto che a volte, quando la conferenziera visibilmente incavolata guarda dritta nell’obiettivo della telecamera – e quindi di rimando al telespettatore – inveendo a cento decibel con frasari del tipo: “MA COME TI PERMETTI? VERGOGNATI”, hai un sussulto dalla sedia, anzi dal water, e pensi: vuoi vedere che ce l’ha con me?     

Ma il video non è tutto invettive, filippiche e apostrofi: ci sono anche tratti in cui la Daniela Sindaco ha ragione da vendere (tipo in tema di primarie che il partito non ha voluto celebrare, né moi né mai, dimostrando quanto l’aggettivo “democratico” affibbiato al lemma partito in questo caso sia del tutto fuori luogo), o quando asserisce di aver dovuto ingoiare rospi e di essere stata considerata come l’ultima ruota del carro, e quando afferma solennissimamente: “la mia persona non è in vendita” [infatti ha accettato a gratis tutte le angherie partitocratiche, ndr.].

Per fortuna nel filmato, per rinfrancar lo spirito, ci sono anche dei momenti esilaranti anzichenò (giuro che non ridevo così dai tempi di Stanlio e Ollio), come nel tratto in cui la candidata si autodefinisce “giurista”.

Ora mi son chiesto: se Daniela nostra è una giurista, la Lorenza Carlassare cos’è?

Ma quando si riuscirà a far capire una buona volta che un laureato in Filosofia non è automaticamente un filosofo, così come un laureato in Economia non è necessariamente un economista, e parimenti non tutti i laureati in Giurisprudenza sono dei giuristi? Temo al tempo delle calende greche.  

Stendiamo un velo pietoso, ovviamente, su quegli interminabili secondi di filmato in cui la nostra sindaco in nuce cita a sproposito anche il povero Giovanni De Benedetto, il quale, mancandoci ormai da qualche anno, non può più ribattere. Tant’è vero che la famiglia s’è sentita in dovere di diramare agli organi di informazione una comunicazione scritta a tutela della memoria del proprio Caro.

***

Ma l’apoteosi del comunicato-stampa sindacale sta tutta negli ultimi secondi del film.

Il video infatti (osservate bene) termina con il bacio e l’abbraccio di un “giornalista” locale che è rimasto tutto il tempo, zitto e mosca, ad ascoltare il monologo, e alla fine, già che c’era, s’è guardato bene dal porre una domanda una all’oratore politico. Non un chiarimento. Non un dubbio. Non una spiegazione. Niente di niente. Solo baci, abbracci e occhi lucidi da pesci lessi.   

E io - che scemo - pensavo che a scuola di giornalismo insegnassero piuttosto a porre domande (cosa, quando, perché, dove, e soprattutto chi), e a insistere in caso di elusione da parte dell’intervistato, ad incalzarlo anche, a fare le pulci al potere, ad approfondire, a cercare risposte, e - se non lo fanno gli altri - a criticare.

Invece elettroencefalogrammatica piatto.

Ecco perché qui da noi la dialettica è morta, la politica è moribonda, e anche il giornalismo non si sente tanto bene.

Poi uno si chiede come mai più che in un romanzo di Kafka qui siamo proprio nella cacca.

Antonio Mellone

 

 
Di Albino Campa (del 28/07/2011 @ 11:47:02, in Letture estive, linkato 3045 volte)
Ogni volta che leggo un romanzo o racconto di Stefano Benni un pensiero mi schiocca rumorosamente in testa e puntualmente sono tentato di uscire per strada e chiedere alla gente che passa: “scusi, sa dirmi quanto pesa la Fantasia?”. Da qualche parte ho letto che la Fantasia non ha limiti, ma di sicuro avrà un peso, altrimenti non riesco a spiegarmi cosa diavolo toccavo con mano mentre leggevo La compagnia dei Celestini. Quindi posso affermare che è dalla lettura di questo libro che ho subitaneamente (è orrendo questo termine, lo so, ma è adatto al contesto filosofico che si sta creando) dedotto che la Fantasia esiste e che molto probabilmente è fatta di fili che si intrecciano intorno al nostro mondo, tanti fili colorati che pendono dal soffitto della nostra camera, che fuoriescono dalla tazza del water, che imbottiscono i nostri vestiti, foderano gli oggetti che ci trasciniamo dietro tutti i giorni.

È un peccato che voi non riusciate più né a vederli né tanto meno a toccarli. Io un rimedio a questa strana malattia, forse pandemia, ce l’avrei pure, ma non fa per tutti. Bisogna essere consapevoli di quello che state per fare – ricordo a coloro che si sono distratti che state per toccare la Fantasia! -, dovreste lasciarvi alle spalle una miriade di pregiudizi, disfare ogni perbenismo che tormenta il vostro viver sociale e non essere particolarmente inclini al “Mussolardismo”. Altri requisiti? Beh, non guasterebbe se per l’occasione lasciaste il vostro cervello libero di scodinzolare fuori dal cortile in cui vi siete murati.

Perché tutte queste raccomandazioni? Non fate domande e statemi a leggere. La compagnia dei Celestini è il rimedio che fa per voi, in quanto questo testo è l’incarnazione della Fantasia. Sconvolti? Io pure. Ma come si potrebbe non affermare ciò per un testo colmo di lessici inventati, personaggi strambi, discorsi surreali, ambienti che sembrano esser stati progettati dalla Fantasia in persona, il tutto a contorno di una storia semplicemente e meravigliosamente assurda. Non è facile rendere con la parola scritta l’incredibile lavoro di costruzione letteraria di Benni, la fusione perfettamente riuscita tra il nostro mondo e quello parallelo della Fantasia che gli permette di non essere mai banale e allo stesso tempo di portare avanti, pur nella semplicità della narrazione, un monito contro le ingiustizie del mondo reale.

Difatti come non riconoscere nell’Egoarca Mussalardi, l’uomo più ricco e potente di Gladonia, e nel giornalista Fimicoli una pungente critica contro una politica squallida e un’informazione corrotta? Come non prestare attenzione agli ambienti in cui scorazzano i piccoli orfani protagonisti di questo romanzo e quindi ignorare la protesta di Benni contro l’inesorabile devastazione del nostro paesaggio? Oppure come si fa a non riconoscere nel comportamento del re dei “famburger” Barbablù un sottile dissenso contro l’invasione dei cibi da fast food?

Ah dimenticavo, bisogna avere anche un bel fiato per stare dietro a questi piccoli orfani che fuggono dall’orfanotrofio di Santa Celestina, retto dei Padri Zopiloti, in cui sono rinchiusi per andare a disputare il Campionato Mondiale di Pallastrada, organizzato dal Grande Bastardo in persona!

Michele Stursi

La Compagnia dei Celestini, Stefano Benni, Universale Economica Feltrinelli, pp. 288, € 7,50

 

Il nuovo romanzo ” E adesso tutto cambia… ” colpirà chiunque lo leggerà, perchè tratta argomenti scottanti come il rapporto coniugale nei matrimoni misti, la libertà personale di ogni individuo che deve esprimersi come ognuno propriamente sente ed infine il sesso raccontato senza inibizioni, tanto che l’editore ha pubblicato una nota che avverte che i temi trattati nel romanzo sono rivolti ad un pubblico adulto. Dopo il successo della prima nazionale a Lecce, seconda tappa dell'ultimo lavoro di Giovanni Piero Paladini sbarca a Galatina, martedi 4 febbraio alle ore 18.30, nel salone adornato di marmi del nuovo fantastico B&B palazzo Taddeo, ex palazzo notaio Cascione, nella centralissima via Vittorio Emanuele al n. 18 di fronte alla celebre pasticceria Ascalone ed accanto al comando dei vigili urbani di Galatina. Il romanzo affascina fin dall’inizio con la protagonista già infante alle prese con i primi turbamenti sessuali, che con l’età crescono fino ad esplodere in adolescenza. Poi la protagonista del romanzo, una donna leccese realmente esistente incontra ed ama un iraniano e qui esplode con il matrimonio misto quello che è il leit-motiv presente anche nel titolo, una volta sposati si chiude la porta …E adesso tutto cambia. Nel romanzo vengono affrontate tematiche come il rapporto coniugale nel matrimonio islamico, inquadrato nel più complesso rapporto che si instaura tra un uomo ed una donna nell’islam, già condizionato da presunti principi religiosi, che sono però frutto di ignoranza dei più e fonte di potere dell’élite, che si consuma nel privato e specialmente all’interno della famiglia. Qui assume, quasi sempre, proporzioni drammatiche nei cosiddetti matrimoni misti, quelli cioè celebrati tra coniugi di diverse religioni o addirittura come succede nel romanzo tra un uomo religioso come Mansoor musulmano e un’atea la leccese Rosetta. Parlando con l’autore mi spiega come ogni giorno si consumano dei drammi in queste famiglie a danno delle donne, nella completa a volte inconsapevole indifferenza della collettività. Diventa inaccettabile in una società come la nostra che si vanta di essere paladina di libertà e di difesa dei più elementari diritti delle donne che nessuno ne parli. Essendo tratta da una storia vera, romanzata con maestria, non si può certo accusare Paladini di parzialità visto la sua conversione all’Islam, anzi penso che lui stesso sia consapevole che avrà molte critiche feroci nel campo islamico che non in quello occidentale. Il romanzo è frutto di un esperienza diretta e profonda ed una conoscenza delle dinamiche sociali in essere nei Paesi di origine dell’islam. Il contrasto netto tra quanto affermato nel Corano, a proposito di tali rapporti, e quanto concretamente praticato, emerge evidente nella narrazione, la necessità di denuncia di tutto questo è netta al fine di eliminare ogni alibi per comportamenti che nulla hanno di religioso ma che attengono esclusivamente a situazioni di sottocultura e ignoranza o, peggio, a precisa e inaccettabile volontà maschilista di tenere in uno stato di sottomissione la donna. Tutti siamo sottomessi, uomini e donne nella stessa misura, ma solo a Dio, e mai è giustificata nel Corano la sottomissione di un essere umano ad altro essere umano in quanto di fronte a Dio siamo tutti uguali. La seconda ragione consiste nella circostanza che le problematiche sono trattate senza alcun velo e ipocrisia. I fatti vengono narrati per quelli che sono, crudi, violenti e drammatici, perché provochino in chi legge il giusto sdegno per lo schifo che ogni giorno ci viene propinato (la storia raccontata è solo una infinitesima parte del tutto), adombrato da neo-legittimità inesistenti, nella totale e generale indifferenza, figlia di un materialismo imperante che tutto riconduce a oggetti e merci e nulla più concede all’anima.  La protagonista della vicenda è proprio così, così si è raccontata…. chi ero io ci dice l’autore per raccontarla in maniera differente, per negare emozioni, sentimenti e passioni che, nel contesto drammatico della narrazione, hanno una loro collocazione ben precisa, non fine a se stessa, chiarificatrice e determinante nello svilupparsi del rapporto con un coniuge che non accetta, e non per ragioni religiose, il diritto di essere libera per come si è realmente.

 

Giovanni Piero Paladini, nato nel 1957 a Magliano in provincia di Lecce, laureato in giurisprudenza, esperto di relazioni internazionali. Opera da anni nell’area MENA acronimo di Middle East and North Africa quindi in Algeria, Bahrain, Djibouti, Egitto, Iran, Iraq, Israele, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Malta, Marocco, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Palestina, Yemen, Western Sahara, Mauritania, Sudan, Turchia, Somalia. Presidente CONFIME – Confederazione Imprese Mediterranee di cui è anche fondatore. Convertito all’Islam nel 2013 col nome “Khaled”, è stato promotore della prima Università Islamica in Italia di cui è attualmente Presidente. E’ alla sua quarta produzione letteraria dopo la trilogia dedicata all’Avv. Marco Latini, composta da “L’onore Perso”, “Il decimo cerchio”, “Il giuramento del falco”.

Insomma un romanzo che lascerà tracce indelebili sulla cultura del nostro tempo. Prenotatelo adesso su Amazon ed un corriere ve lo porterà direttamente a casa.

Raimondo Rodia

 

Lunedì 10 luglio, nell’ambito della rassegna letteraria estiva, la libreria Fiordilibro presenta  presso il Chiostro del Palazzo della Cultura di Galatina, alle ore 19,30 Caterina Soffici, giornalista italiana che vive e lavora a Londra  con il suo primo romanzo Non Fermarmi edito da Feltrinelli .

Dialogherà con l’autrice Paola Bisconti.

Bartolomeo e Florence i due protagonisti di Nessuno può fermarmi, l’uno stralunato e gentile studente di filosofia l’altra, una magnifica vecchia signora inglese  che frequentava i suoi nonni a Little Italy,il quartiere degli immigrati italiani a Londra. Dal loro viaggio intrapreso insieme alla ricerca della vera storia famigliare del giovane, emergerà un episodio caduto nell’oblio: il naufragio dell’Arandora Star, carica di internati italiani e silurata dai tedeschi. Nella tragedia del 2 luglio 1940 annegano in 446, civili deportati dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini all’Inghilterra, vittime innocenti del sospetto e della xenofobia. Bartolomeo e Florence sottraggono al silenzio le storie di quelle vite spezzate, e avanzano stretti l’uno all’altra - un ragazzo che si fa uomo e una vecchia che ritrova la tenacia della giovinezza- verso l’ultima incredibile rivelazione. Una grande storia, che Caterina Soffici racconta con la potenza di un romanzo popolare civile. Un romanzo sull’amore e l’amicizia, sull’emigrazione e la paura dell’altro, la sopravvivenza e il passato cha ritorna.

Caterina Soffici vive a Londra. Scrive per “ Il Fatto Quotidiano”, “ Vanity Fair”, Il “ Venerdi di Repubblica”. Collabora con il Ministry of Stories il laboratorio di East London, dove insegna a bambini e ragazzi l’importanza della creatività, del racconto e della memoria. Non Fermarmi è il suo primo romanzo.

Emilia Frassanito

 
Di Albino Campa (del 21/03/2009 @ 11:17:15, in I Dialoghi di Noha, linkato 6671 volte)


I dialoghi di Noha vanno avanti. Eccovi il testo e le immagini del commento e della recita del canto V dell'Inferno di Dante Alighieri che ha avuto luogo il 28 febbraio 2009 a cura di Antonio Mellone nello stupendo scenario dello studio d'Arte di Paola Rizzo.

I DIALOGHI DI NOHA

DANTE ALIGHIERI: IL CANTO V DELL’INFERNO


Vi dico subito come è strutturata questa lectura Dantis.

Cercheremo brevemente d’inquadrare il canto V nel girone dell’Inferno. Il secondo per la precisione. Spiegherò chi sono i personaggi. E poi prima del vero e proprio canto V (che proverò a recitare a memoria) commenteremo le singole terzine. Come saprete, i livelli di lettura della Comedia sono molteplici. Noi cercheremo una chiave di lettura: la più semplice possibile.

* * *

Adesso farò girare delle fotocopie sulla struttura dell’oltretomba dantesco. Ed in particolare sull’Inferno.

* * *

L’Inferno è come una grande vora, diciamo una voragine a forma di imbuto il cui termine, o il cui punto di minimo, si trova al centro della terra. Dunque un imbuto o un cono rovesciato enorme (come potete vedere dalle fotocopie). Un burrone che si apre sotto Gerusalemme causato dalla caduta di Lucifero (l’angelo, il più bello fra tutti, che si era ribellato a Dio) quando fu scaraventato dal Paradiso sulla Terra in seguito alla battaglia condotta e vinta dal nostro Arcangelo San Michele e dai suoi angeli.

La terra dunque in seguito a questa caduta si ritira, per paura, per ripugnanza, per schifo… per ricomparire dall’altra parte dell’emisfero terracqueo come una enorme montagna: la montagna del Purgatorio.

L’Inferno è diviso in nove cerchi concentrici che si rimpiccioliscono man mano che si scende, man mano che si va al centro della terra, per terminare nel lago di Cocito, lago ghiacciato a causa del vento (un vento freddissimo, diremmo di tramontana) prodotto dalle ali (enormi e senza piume, come quelle dei pipistrelli), ali di Lucifero, a sua volta immerso nel ghiaccio. Lucifero ha tre teste ed in ogni bocca sgranocchia anzi maciulla coi denti un peccatore. I tre traditori rosi dal diavolo sono Bruto, Cassio (entrambi responsabili della congiura contro Cesare) ed ovviamente Giuda (traditore di Gesù).

Vediamo ancora un attimo insieme la struttura dell’Inferno per vedere dove ci troviamo con questo canto quinto. Siamo nel II cerchio. Vedete? Subito dopo il primo cerchio che contiene il Limbo, che è quello in cui si trovano le anime di coloro che non furono battezzati. Ma prima ancora c’è la famosa porta dell’Inferno sulla quale c’è scritto (recito): Per me si va nella città dolente/ per me si va nell’eterno dolore / per me si va tra la perduta gente./Giustizia mosse il mio alto fattore/fecemi la divina potestate/la somma sapienza e il primo amore./ Dinanzi a me non fuor cose create/se non etterne ed io etterno duro/ lasciate ogni speranza voi ch’intrate.

Poi c’è l’Antinferno, dove ci sono gli Ignavi, quelli che non si schierarono mai, quelli che vissero sanza infamia e sanza lode, di cui lo stesso Virgilio dice a Dante: non ti curar di lor ma guarda e passa. Fanno così ribrezzo che non li vuole manco l’Inferno! Dunque c’è la necessità di schierarci.

Il terzo cerchio è quello dei Golosi, il IV quello degli Avari e Prodighi, nel V troviamo gli Iracondi e gli Accidiosi; il sesto cerchio è quello dove sono puniti gli Eresiarchi (o Eretici).

Il settimo cerchio è quello dei Violenti. Questo cerchio a sua volta è diviso in tre gironi: il primo dei violenti contro il prossimo e le sue cose; il secondo dei violenti contro se stessi e le proprie opere; il terzo dei violenti contro Dio e le sue cose.

Dopo una ripa scoscesa si va all’ottavo cerchio: quello dei violenti contro chi non si fida. L’ottavo cerchio è diviso in dieci bolge: 1) Seduttori; 2) Adulatori; 3) Simoniaci; 4) Indovini; 5) Barattieri; 6) Ipocriti; 7) Ladri; 8) Consiglieri Fraudolenti; 9) Seminatori di discordia; 10) Falsari.

Dopo c’è il pozzo dei giganti. Ed infine si arriva al nono cerchio (dove sono puniti i violenti contro chi si fida: cioè i traditori). Il nono cerchio è diviso in quattro zone: la prima dei traditori dei parenti (la cosiddetta Caina. Nel canto di questa sera vedremo che Francesca farà riferimento a questa zona del nono cerchio), la seconda dei traditori della patria, la terza dei traditori degli amici, la quarta dei traditori dei benefattori. In fondo c’è Lucifero, come detto sopra.

Ora ritorniamo sopra, al secondo cerchio e vediamo un po’ di focalizzarci su alcuni personaggi che Dante incontra nel suo viaggio.

* * *


La storiella dei due amanti che Dante incontra è questa.

Per sedare antichi rancori, due potenti famiglie di Romagna (i Polenta da Ravenna e i Malatesta da Rimini) pensano di pacificarsi combinando un matrimonio. Gli sposi sono Francesca da Polenta, bellissima, e Giovanni Malatesta detto Gianciotto, brutto e sciancato.

Per evitare un rifiuto secco da parte della giovane, le famiglie decidono di celebrare il matrimonio per procura. Questo fatto rappresenterà un altro raggiro, in quanto Francesca per un attimo pensa che lo sposo promesso sia l’ambasciatore o meglio il procuratore: Paolo Malatesta, uomo bellissimo, fratello di Giovanni, lo zoppo.

Ma così non è.

Francesca capirà subito chi sarà il vero marito e, sottomessa com’è, si sottopone al vincolo coniugale.

Però la scintilla era scoppiata. A sua volta a Paolo piacque subito Francesca, così come a Francesca piacque subito Paolo. Vedremo anche questo concetto: amor che a nullo amato amar perdona.

Ed una sera di maggio, in una loggia panoramica del castello di Gradara (che è bellissimo: v’invito a visitarlo come ho fatto io tempo fa) basterà la lettura a due della pagina di un famoso romanzo cavalleresco, in cui si raccontano gli inizi di una vicenda extraconiugale, perché i due cognati si bacino finalmente non riuscendo più ad andare avanti. Qui pare che irrompesse il marito (Gianciotto, cioè Giovanni Malatesta, lo zoppo) sorprendendo i due in flagranza di adulterio (un bacio!) e infilzandoli con una spada o una lancia in un’unica stoccata.

Tra l’altro a quanto pare questo duplice omicidio non sembra aver sciupato la vantaggiosa alleanza per le due famiglie che anzi viene rinsaldata con questa specie di patto di sangue.

* * *

Ora iniziamo a commentare il canto (prima di cercare di recitarlo tutto intero a memoria). Il canto è quello in cui Dante incontra i due amanti appunto in questo secondo girone dell’Inferno.

Dante con Virgilio discendono dal primo cerchio giù nel secondo, che ha una circonferenza più piccola, ma che contiene più dolore che spinge al lamento (che punge a guaio).

Piantato nell’entrata sta Minosse, giudice dell’inferno, che giudica e manda secondo ch’avvinghia. Ovviamente il giudizio è sempre inappellabile e soprattutto qui si parla di ergastolo. Qui la pena ed il carcere è vita. O meglio a vita eterna.

Dunque, quando l’anima mal nata (nata alla propria dannazione) gli capita davanti, confessa tutti i suoi peccati. E Minosse individua il comparto dell’Inferno che fa per lei e glielo comunica o glielo notifica secondo ch’avvinghia: cioè avvolgendosi nella coda un numero di volte pari all’ordine del grado o cerchio in cui l’anima deve precipitare. Per esempio quattro giri di coda, quarto cerchio; otto giri di coda, ottavo cerchio, e così via.

Il flusso delle anime è incessante: a turno vanno al giudizio, si confessano, ascoltano la sentenza, e poi sono scaraventate di sotto a capofitto.

Come vede Dante, Minosse s’accorge che non si tratta di un’anima ma di un uomo in carne ed ossa (in quanto Dante proietta un’ombra) e subito interrompendo l’atto di cotanto uffizio, gli urla: Tu che vieni in questo ospizio di dannati, stai attendo a dove ti stai cacciando. Non t’inganni l’ampiezza dell’entrata.

E Virgilio (compagno di viaggio di Dante) gli ribatte: Perché pur gride? Non tagliargli la strada. Vuolsi così colà dove si può (puote) ciò che si vuole e più non chiedere (dimandare).

Poi Dante viene al nocciolo del racconto. Or incomincian le dolenti note (il suono del dolore) a farmisi sentire, or son venuto là dove molto pianto mi percuote (mi investe e mi turba).

Io venni in loco d’ogne luce muto, cioè nel buio, silenzioso di luce, che mugghia come fa mare in tempesta quando è schiaffeggiato dai venti.

La bufera infernale che mai non s’arresta, e tormenta le anime dei dannati nella sua rapina sbattendole di qua, di là, di su, di giù.

Quando giungono davanti alla ruina si scatena un coro stonato di strida, singhiozzi, lamenti e bestemmie.

A questo punto Virgilio dice a Dante che i dannati sottoposti a quella pena sono i peccator carnali che la ragion sommettono al talento, cioè che subordinano l’ordine della ragione ai disordini del desiderio. Cioè sottomettono la ragione alla passione: sono in una parola i lussuriosi.

Ecco la legge del contrappasso: sbattuti dal vento delle passioni da vivi, questi peccator carnali saranno allora strapazzati dalla bufera infernale nei secoli dei secoli, amen.

Ecco allora due similitudini (ce ne stanno molte nella Divina Commedia).

La prima. Gli spiriti di questo cerchio, la massa dei lussuriosi, sono paragonati allo stormo largo e pieno degli storni (un tipo di uccelli) che in massa turbinano alla rinfusa.

La seconda. Le ombre travolte dalla medesima tormenta (de la detta briga) striano gemendo, come gru che disposte in lunga riga van cantando lor lai (cioè si lamentano). Dunque sono gru lamentose queste anime selezionate, ch’amor di nostra vita dipartille, cioè che han perso la vita a causa dell’amore.

Dante domanda: chi sono queste anime-gru?

Risponde Virgilio. La prima è Semiramide, la leggendaria imperatrice, che succeduta al marito Nino, regnò sulla terra che il Soldan corregge, cioè la città che oggi è retta dal sultano d’Egitto. Questa Semiramis, Semiramide, fu donna talmente depravata che per abrogare l’ignominia a cui s’era ridotta, decretò la liceità di ogni sfrenatezza: libito fe’ licito in sua legge. Insomma si fece una legge ad personam. Le leggi ad personam evidentemente non sono un’invenzione di questi nostri giorni!

La seconda delle anime in riga è colei che s’uccise per amore, dopo aver rotto il patto di fedeltà giurato sulle ceneri del marito Sicheo: si tratta della vedova Didone, regina di Cartagine: la quale folle di Enea (quando questi partì) si lanciò tra le fiamme.

Segue Cleopatra lussuriosa: Cleopatra amante di Cesare e Antonio e di molti altri (si suicidò morsa da un aspide).

Segue ancora Elena, per cui tanto reo tempo si volse, (dieci anni della guerra greco-troiana)

Vedi Parìs: vedi Paride, amante di Elena, e vedi Tristano (quello che preleva la bella Isotta in Irlanda per tradurla sposa a suo zio Marco, re di Cornovaglia: poi i due bevono una pozione, un filtro d’amore. Ma poi Marco mette a morte il nipote… Ma questa è un’altra storia).

L’elenco dei sette morti lussuriosi, completato da mille altri nomi di donne antiche e cavalieri, sgomenta Dante e pietà lo coglie.

Quando ecco che qualcosa, sconvolgendolo ancor di più, cattura la sua attenzione. E si rivolge a Virgilio e gli dice: poeta, mi piacerebbe parlare con quei due che volano insieme e sembrano essere così leggeri al vento. Ed il maestro gli risponde: non ti preoccupare, quando saranno più vicini a noi, pregali in nome dell’amore che li sbatte a destra e a manca e vedrai che verranno.

E così Dante, non appena il vento sembra rallentare un attimo, si rivolge a loro dicendo: oh anime affannate, venite a parlare a noi, se altri (se Dio, cioè) non lo vieta.

Dalla riga di gru, come due colombi, si staccano due anime, tratte dalla forza dell’appello affettuoso. Ma inizia a parlare solo lei. Lui (Paolo) non parlerà mai in questo canto. Piange in silenzio.

Francesca si dice allora disposta a dire tutto quello che Dante, quella creatura vivente vorrà sapere. Mentre che il vento come fa ci tace.

Francesca per designare la sua città, si dichiara nata sulla marina dove sfocia il Po per aver pace con i suoi affluenti. Ed aggiunge che se qualche udienza lei e Paolo potessero ottenere (ma mai l’otterranno) nei cieli, pace pregherebbero per il pellegrino commosso dalla loro pena. Pace e niente altro: pace che altro non è che la disperata aspirazione di questa signora che, con l’amante, tinse il mondo di sanguigno, e ora gira e rigira furiosamente nell’aere perso del secondo cerchio dell’Inferno.

Amor, che in un cuore nobile attecchisce subito, prese questo Paolo del bel corpo di cui sono stata privata, ed il modo ancor m’offende. Può significare: la smodatezza della passione di Paolo mi tiene ancora in sua balìa; oppure: il modo dell’omicidio continua ad offendermi.

Amor gentile. Amor cortese. Dolce stil novo: quello che sublima la donna, vista come un angelo. Non vi posso a questo punto non recitare la bella poesia di Dante: Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia…[recita].

Tanto gentile e tanta onesta pare

La donna mia quand’ella altrui saluta

Ch’ogne lingua devien tremando muta,

E gli occhi no l’ardiscono di guardare

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per gli occhi una dolcezza al core

che ‘ntender no lo può chi non la pruova

e par che de la sua labbia si mova

uno spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: sospira.

* * *


Amor che a nullo amato amar perdona.

Amore che non esonera nessuna persona amata dall’amare a sua volta, prese me della bellezza di quest’uomo, e con tanta forza che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amore ci coinvolse in un’unica morte. La Caina, cioè quel cerchio dei traditori dei parenti (che abbiamo visto anche sulle fotocopie) che è la zona del lago di ghiaccio che chiude il cratere infernale, la Caina – dicevo – attende chi a vita ci spense: cioè mio marito che ci uccise.

* * *

Ora apro una breve parentesi su quel verso 103 ormai famosissimo: Amor, ch’a nullo amato amar perdona.

Secondo questa specie di teorema si può affermare che sempre, fulmineamente, senza appello, chiunque s’innamori di una persona automaticamente non può che esserne corrisposto. Dunque c’è reciprocità d’amore. Istantanea e perfetta.

C’è chi dice invece che questo funziona solo con l’amore di Dio per cui amare Dio ed essere amati è un’unica cosa. Ma senza approfondire questi concetti ché si sconfinerebbe in altri campi (teologici, morali, psicologici, filosofici…) diciamo che nel tempo altri poeti pensarono invece che non esiste questa corrispondenza d’amorosi sensi.

Per esempio nel seicento ci fu una suora di lingua spagnola, Suor Juana Ines de la Crux, di Città del Messico che scrisse questa poesia molto bella che ora vi recito: “L’ingrato che mi lascia cerco amante”… [recita].

Chiusa la parentesi.

L’ingrato che mi lascia, cerco amante

L’amante che mi segue, lascio ingrata;

costante adoro chi il mio amor maltratta

maltratto chi il mio amor cerca costante.

Chi tratto con amor, per me è diamante,

e son diamante a chi in amor mi tratta;

voglio veder trionfante chi mi ammazza,

e ammazzo chi mi vuol veder trionfante.

Soffre il mio desiderio, se ad uno cedo;

se l’altro imploro, il mio puntiglio oltraggio:

in ambi i modi infelice io mi vedo.

Ma per mio buon profitto ognor m’ingaggio

A esser, di chi non amo, schivo arredo

E mai, di chi non mi ama, vile ostaggio.

Ecco: in questa poesia si evidenzia molto bene non la simmetria ma la asimmetria degli amorosi sensi…

* * *

Ma torniamo al nostro canto V.

Dopo aver ascoltato quelle anime offense, Dante abbassa gli occhi e tanto li tiene bassi, finché Virgilio gli chiede: che pensi? Cosa ti passa per la testa?

E Dante risponde dopo un po’: Ahimè, quanti dolci pensier, quanto desìo menò costoro al doloroso passo.

Poi si rivolge a Francesca dicendole: Francesca, le tue pene, il tuo dolore mi impietosiscono fino alle lacrime. E poi le chiede, quasi morbosamente curioso: ma dimmi, per quali indizi ed in quali circostanze vi ha consentito Amore di conoscere i vostri titubanti e mutui desideri?

E Francesca: Nessun maggior dolor …premesso che nulla fa più male che ricordarsi del tempo felice nella miseria, dirò come colui che piange e dice: dirò come direbbe chi piangendo dicesse.

E continua: un giorno, per svago, senza essere insospettiti da alcun presentimento, lei e Paolo leggevano insieme un romanzo francese, dove era raccontata la storia d’amore di Lancillotto e Ginevra, moglie di re Artù (qualcuno ricorda il film con Richard Gere e Sean Connery, su questa storia. ecc.).

Più di una volta la lettura costrinse i loro sguardi ad incrociarsi, ed i loro visi a sbiancare. Ma a sopraffarli fu una pagina: proprio quella. Quando lessero il desiderato sorriso di donna Ginevra essere baciato da cosiffatto amante, questi che mai da me non fia, non sia, diviso la bocca mi baciò tutto tremante.

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, quel giorno più non vi leggemmo avanti.

Il Galeotto di cui si parla è il siniscalco Galehaut, che nel romanzo francese istiga il leale Lancillotto a dichiarare il suo amore a Ginevra; e sotto i suoi occhi, Ginevra prende Lancillotto e lo bacia.

Dunque: Galeotto fu il libro: il libro o meglio il suo autore, ci ha fatto da mezzano.

Quel giorno più non vi leggemmo avante…

Questa frase di Francesca ha dato luogo a diverse interpretazioni. Può significare che la lettura, interrotta dal bacio, sarebbe stata immediatamente e definitivamente troncata dall’irruzione del marito zoppo e quindi dal doppio omicidio.

L’altra interpretazione forse più plausibile, benché più piccante, è quella per cui da quel giorno, i due abbiano accantonano le perlustrazioni letterarie sul tema dell’amor cortese, per abbandonarsi alla passione.

Il canto finisce con Dante che sviene cadendo come corpo morto cade.


Eccovi dunque la recita integrale del canto V dell’Inferno.

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.

Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.

«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,

«guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».

«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.

Ell' è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.

L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».

Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov' è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.

«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

 
Parole, delirio, follia, musica, performance live, "Quello che le donne non dicono". Un viaggio introspettivo alla scoperta di personaggi e band con le domande piccanti di Paola Rizzo per carpire i trucchi e i segreti dei professionisti della musica live.

In diretta live mercoledì 19 dicembre dallo Skatashow di Aradeo dalle ore 21.30, ospite d'eccezione NANDU POPU, voce storica dei Sud Sound System, che si metterà in gioco rispondendo alle domande piccanti che in genere non si chiedono mai nelle solite interviste, nella puntata ci sarà anche uno spazio dedicato alla presentazione del suo primo romanzo "Salento Fuoco e Fumo" - editori Laterza

Il programma andrà in onda su System network in fm e su radioinondazioni sul web dove ci sarà una chat aperta per intervenire in tempo reale durante la trasmissione.

COLLEGATEVI qui per ascoltare la diretta:
http://www.galatina2000.it/RadioInondazioni/quellocheledonnenondicono-con-paola-rizzo.html

 
Di Antonio Mellone (del 20/01/2019 @ 11:12:40, in NohaBlog, linkato 2463 volte)

“Il bar non porta i ricordi, ma i ricordi portano inevitabilmente al bar”, dice Vinicio Capossela.

Questa volta il bar è quello della Liliana.

Sì, certo, l’insegna riporta la denominazione ‘Bar Castello’, ma a Noha e dintorni si utilizza volentieri il genitivo sassone, quel particolare costrutto usato per indicare un esercizio commerciale omettendo il nome comune del locale posseduto (restaurant, shop, office, church, e quindi bar) ma indicandone il titolare, sicché per noi nohani la locuzione “Faccio un salto dalla Liliana” potrebbe significare “Vado a prendere un caffè al bar Castello”, ovvero “A leggervi il giornale”, oppure  “A guardare Novantesimo minuto” [non so nemmeno se esista ancora codesta trasmissione calcistica: di certo, se anche l’avessero soppressa, secondo me dalla Liliana continuano a trasmetterla imperterriti, ndr.]. Insomma.

Peccato però che da qualche giorno Liliana’s (v. sopra il concetto) ha chiuso definitivamente i battenti dopo sessanta, che dico, quasi settanta anni di onorato servizio: pertanto molti verbi è d’uopo d’ora in poi coniugarli all’imperfetto.

Qualcun altro, prima di me, ha vergato righe sul caffè e l’ottima limonina del  bar, non tralasciando la pasta di mandorle (rigorosamente baresi, non americane) che le mani d’oro della Liliana trasformavano in Paste Secche e, quando il caso, in Pecurieddhri pasquali. Vorrei aggiungere, tra le specialità/ricordi, pure il caffè freddo conservato in frigo nelle bottiglie di vetro verde scuro, dico quelle per la salsa, con il tappo di sughero: caffè che doveva essere agitato bene prima dell’uso o, per dirla alla barman anzi alla bar-tender acrobatico, shakerato.

Non potrei non menzionare qui (ma poi, giuro, mi fermo per davvero) anche la bontà delle sue zeppole: le più morbide e vellutate che io abbia mai mangiato. Liliana ne approntava a bizzeffe per il giorno di San Giuseppe. Si alzava di notte per farle, molto prima del solito orario cioè le cinque (sissignore, una vita intera a vincere la gara con l’aurora). Con l’aiuto della sua povera mamma, rompeva le uova, cartoni interi di uova fresche, e preparava l’impasto amalgamando gli ingredienti in un grosso recipiente di rame con l’utilizzo di un attrezzo in legno. Non vi dico poi la bontà della crema pasticciera con cui venivano guarniti questi grandi bignè fritti o al forno culminanti con un ciuffo di budino al cioccolato amaro. Altro che creme e Nutelle industriali. Il 19 marzo le incartate di zeppole prenotate riempivano ogni angolo del bar, dal bancone ai tavolini, dalle sedie al bellissimo biliardo in legno massiccio ubicato nella seconda sala, anche questa, come la prima, con volta a botte.

Bisogna ricordare infine che presso la Liliana era installato il centralino telefonico di Noha. Prima della diffusione dei cellulari - e ancor prima dei telefoni fissi che pian piano arrivarono nelle case nohane sul calare degli anni ’80 del secolo scorso - dalla Liliana potevi fruire del collegamento telefonico in una bella cabina insonorizzata, discreta, seminascosta alla vista dei più. Quante volte da ragazzo ho utilizzato il telefono della Sip, quello grigio attaccato al muro con il disco dei numeri, per telefonare alla morosa di turno conosciuta al mare d’estate e poi, a fine vacanza, ritornata in patria in qualche altra parte d’Italia diversa dal Salento. Nel passarmi la linea, scuotendo un po’ la testa, ma con saggio compatimento, la Liliana sembrava dirmi: “Figlio mio, gli amori a distanza sono croce e delizia: all’inizio di più croce, poi man mano di più delizia”. Ovviamente aveva ragione lei. Chissà che non per antica dimestichezza con la materia.

Forse non tutti sanno che Liliana, con lo pseudonimo di Liana, è anche uno dei protagonisti dello stupendo “Il Mangialibri” di Michele Stursi (L’Osservatore Nohano Editore, 2010), il primo romanzo ambientato a Noha, di cui riconsiglio la lettura; ma di certo tutti concordano sul fatto che Liliana nostra è ormai una delle pagine più belle della Storia di Noha. Questo non solo per il lavoro diuturno, le sue leccornie dolciarie, il gran cuore e le sue proverbiali accoglienza e disponibilità, ma anche (soprattutto) per la pazienza e la diciamo capacità di ascolto di ipotesi, tesi, antitesi, purtroppo quasi mai sintesi, di molti avventori del suo locale.

Mentre i novelli retori si esibivano nelle loro interminabili elucubrazioni sugli argomenti più disparati, con molte probabilità la Liliana avrà pensato tra sé e sé: “Ma cos’hanno il mio e gli altri bar italiani per far diventare opinionisti tutti o quasi quelli che ci entrano? E come faranno quando chiuderò il bar?”.

Tranquilla, Liliana: molti hanno trovato casa su Facebook. Altri addirittura in politica.

Antonio Mellone

 
Di Redazione (del 06/07/2016 @ 10:21:06, in Comunicato Stampa, linkato 1819 volte)

Catena Fiorello, la nostra ambasciatrice del Salento, il 6 luglio alle ore 19,30 presso il Chiostro del Palazzo della Cultura di Galatina presenta il suo ultimo libro L'amore a due passi edito da Giunti.

La scrittrice siciliana che é stata già ospite della libreria Fiordilibro, nel 2013 per -Dacci oggi il nostro pane quotidiano - e nel 2014 per  -Un padre è un padre- editi entrambi da Rizzoli, ora torna per condividere con noi le emozioni del suo ultimo romanzo  -L’amore a due passi-

 E sarà ancora di più un piacere ascoltarla, questa volta ci parlerà della nostra terra,il Salento che lei ama tanto quanto la sua terra natale la Sicilia e dell’amore quello vero che non ha età. 

Il libro è una commedia divertente, romantica e a tratti commovente, uno dei protagonisti - Orlando Giglio il “ Gendarme “ del condominio di via Mancini n.8 a Roma, studia le abitudini dell’altra protagonista, la sua dolce ossessione, Marilena Moretti nota in gioventù come la “Brigantessa”. Sono entrambi vedovi con figli e lui la segue nel breve tragitto tra il portone e l’ascensore aspettando il momento buono. Dovranno scattare due allarmi in piena notte, in una delle estate più calde degli ultimi anni, per far sbiadire i fantasmi del passato e del presente e perché Marilena accetti l’invito di Orlando a partire per un’avventurosa vacanza alla conquista del Salento.
L’incontro  è organizzato dalla libreria Fiordilibro con il patrocinio del Comune di Galatina, introduce il giornalista Francesco Rella.

 
Di Albino Campa (del 18/07/2011 @ 10:06:22, in Letture estive, linkato 2494 volte)

Le perfezioni provvisorie è l’ultimo episodio – parlare di “indagine” forse è eccessivamente iperbolico - della fortunata serie che vede protagonista l’avvocato Guerrieri. Nel momento in cui mi accingo a scrivere queste poche righe a scopo recensorio purtroppo un’involontaria, amara e nostalgica constatazione mi attanaglia: mi spiace ammetterlo ma non c’è, no, non esiste una storia in quest’ultimo romanzo di Carofiglio. La scomparsa della giovane studentessa Manuela sembra essere solo un appiglio per scarabocchiare i tre quarti del romanzo – permettetemi la misura matematica su una materia concettualmente indivisibile - con un’unica parola: Guerrieri, Guerrieri e ancora Guerrieri (o forse Carofiglio, Carofiglio e ancora Carofiglio). Difatti, nei primi tre romanzi (Testimone inconsapevole, 2002; Ad occhi chiusi, 2003 e Ragionevoli dubbi, 2006), i pensieri e i ricordi, le abitudini e gli amori, le passioni e i gusti, le serate per le vie e i locali di Bari del giovane avvocato erano un ottimo e piacevole diversivo dall’indagine – quelle sì che erano degne dell’accezione del termine - per far riprendere fiato al lettore, senza mai tediarlo. Ora invece le piacevoli pause si sono trasformate in ingombranti monologhi dell’avvocato Guerrieri, che non si limita più a dire la propria su tutto, ma arriva al punto di elevarsi a giudice saccente e in taluni casi arrogante.  No, non mi piace questo nuovo Guerrieri, non mi va a genio la sua eccessiva invadenza, il disgustoso egocentrismo e quel dito puntato su tutto e tutti che non si limita più ad indicare, ma arriva a selezionare. Non mi sta bene che il lettore sia preso in giro, che illuso dal successo dei precedenti romanzi acquisti il nuovo caso dell’avvocato Guerrieri e poi si ritrovi in mano le sue memorie. Non che io abbia nulla in contrario con questo genere letterario, ma di certo il Carofiglio de “Le perfezioni provvisorie” non ne è all’altezza per contenuti e stile. Quindi se l’ultimo romanzo dello scrittore barese non è il legal thriller che ci aspettavamo, ma nemmeno un buon diario dell’avvocato Guerrieri, come lo si potrebbe classificare? Come il sopruso di uno scrittore verso i suoi lettori, mi verrebbe da dire.

Michele Stursi

Le perfezioni provvisorie, Gianrico Carofiglio, Sellerio editore Palermo, pp. 336, € 14,00

Tempo di lettura: 2-3 giorni

 
Di Albino Campa (del 08/11/2010 @ 09:54:39, in Il Mangialibri, linkato 3922 volte)

Paola Rizzo inimitabile pittrice d'ulivi

Don Francesco Coluccia direttore del Laboratorio Culturale Benedetto XVI - Noha

Paola Congedo della Biblioteca Giona

Denise D'Amato amica dell'autore

Antonio Mellone dell'Osservatore Nohano

Martina Chittani

Michele Stursi autore de "Il Mangialibri"

Il brindisi finale

 

Baudolino “maestro” dell’arte della parola e dell’affabulazione

E’ eticamente lecito travisare la realtà dei fatti, provando fanciullescamente, a nascondere i limiti della propria azione e di quella di tutta l’amministrazione Vergine?

Sia in Consiglio Comunale, il Sindaco Vergine, che oggi sugli organi di stampa, l’assessore ai LLPP Perrone, anziché dare risposte chiare ai cittadini parlando con gli atti e i fatti, si arrampicano sugli specchi illustrando un mondo che non c’è fatto di illazioni, opinioni e promesse di buone intenzioni.

Non scomoderò illustri uomini o donne dell’antichità per dimostrare l’inconsistenza di questa amministrazione, come fatto dall’assessore Perrone che mi paragona a Catone pensando di offendermi, perché forse gli sfugge che era si considerato “Censore” ma nell’accezione positiva è ricordato anche come “Sapiente”. Un politico che ha fatto della moralità e della disciplina i suoi principi di vita e che riteneva “la vita pubblica come la disciplina dei molti”. Grazie per l’accostamento.

Non scomoderò nemmeno Freud per invitare Sindaco ed Assessore alla riflessione rileggendo le teorie sulla personalità (singola, doppia o tripla che sia) considerata il risultato dei propri conflitti interni nel confronto con le richieste provenienti dall’esterno. Rassicuro chiunque nutra dubbio, non soffro di alcun disturbo della personalità, io. Quel che mi rammarica sottolineare il metodo di interloquire che ritengo sia in totale sfregio e senza alcun rispetto per l’istituzione che si rappresentano, ancor più quando si elaborano atti pubblici (tali sono le risposte scritte alle interrogazioni consiliari) impregnandoli offese personali e talvolta tendenti al sessismo, per il solo motivo di non essere in grado di dare risposte concrete alle legittime e formalmente “educate” domande che un consigliere comunale pone nel pieno diritto del suo mandato.

Leggendo e rileggendo comunicati e risposte alle mie interrogazioni oltre all’amarezza per i toni usati riesco solo a percepire un amaro sorriso, perché altro che Catone e Freud, il pensiero scorre verso un romanzo di Umberto Eco, “Baudolino” maestro dell’arte della parola e dell’affabulazione.

Nella mia interrogazione sullo stato dei fatti relativi alla palestra di Collemeto, io chiedo:

- se è a conoscenza delle motivazioni per le quali si è fatto colpevolmente trascorrere oltre cinque mesi per richiedere il certificato antincendio che di fatto ha impedito ai ragazzi della scuola di Collemeto di poter disporre della struttura sportiva già nei primi mesi dell’anno scolastico 2022/2023;

- se ad oggi l’amministrazione è in possesso del certificato antincendio per la Palestra di Collemeto;

- se l’amministrazione, dopo aver fatto trascorrere vanamente molti mesi dalla relazione del RUP di conclusione lavori, ritiene di poter prendere impegno a rendere fruibile la palestra ai cittadini galatinesi tutti ma principalmente ai ragazzi di Collemeto nel più breve tempo possibile e comunque in tempi utili per il suo utilizzo prima dell’inizio del prossimo anno scolastico;

-  se l’amministrazione non ritiene di dover prestare la massima attenzione a questo importante presidio sportivo e di socialità attivandosi per garantire almeno l’ordinaria manutenzione nell’area esterna;

la risposta scritta e letta in Consiglio Comunale del Signor Sindaco del Comune di Galatina, Dott. Fabio Vergine, è stata:

- “…. in questo momento la struttura non può essere consegnata all’istituto scolastico ed alla comunità di Collemeto in quanto priva di certificato di agibilità”

-  “…. che per l’emissione del certificato di agibilità sia necessario il “certificato di collaudo statico” che viene rilasciato dall’ufficio provinciale di Edilizia Sismica” per il quale è stata inoltrata richiesta l’ 8 luglio 2022.

Le chiedevo proprio questo Signor Sindaco: come mai dal 19 luglio 2022 (data in cui il direttore dei lavori consegnava il certificato di regolare esecuzione dei lavori) si è atteso 3 mesi (14 ottobre) per sollecitare la consegna della documentazione da inoltrare ai VVFF, inviato poi il 23 novembre 2022 a distanza di un altro mese?   se a distanza di 8 mesi siamo in possesso del certificato di collaudo statico? Qualcuno ha contattato l’ufficio provinciale di Edilizia Sismica? Abbiamo indicazioni per poter capire se nel prossimo anno scolastico Collemeto avrà disponibile la sua palestra?

Domande legittime, senza alcuna offesa personale alle quali sono seguite Sue poche righe per non dare nessuna risposta in merito alla questione posta.

Come oramai consuetudine il Signor Sindaco usa rispondere alle interrogazioni, che ritiene probabilmente atti di “lesa maestà”, attaccando ed offendendo l’interlocutore magari immaginando e illustrando situazioni al limite della falsità. Lo fa nel tentativo, vano, di screditare l’attività di chi lo ha preceduto, citando una nota interna.

Vi risulta che la palestra di Collemeto sia stata “politicamente inaugurata”?

Vi risulta che la palestra di Collemeto sia stata “consegnata e fatta utilizzare a qualcuno”?

No, non può risultare, perché abbiamo sempre anteposto l’interesse e la sicurezza collettiva ad un nostro ipotetico interesse di parte, noi. La palestra era ed è rimasta chiusa, anzi purtroppo lo è ancora e non si sa per quanto tempo, ma su questo il Sindaco Vergine non sa o non da risposte.

Tutto qui? Saremmo ancora nel lecito di una dialettica politica di contrapposizione dove una parte, com’è normale che sia, non condivide il modus operandi dell’altra. Purtroppo no.

Dimenticando il ruolo che si riveste e l’istituzione che si rappresenta, nella sua risposta (che allego integralmente così come la mia interrogazione) il Dott. Vergine, Sindaco protempore di Galatina, si inoltra nel suo solito sproloquio fuori luogo: ironizza su una mia doppia personalità, velatamente minaccia denunce all’autorità giudiziaria (che puntualmente non fa mai), mi taccia di “ansia da prestazione”, paventa miei problemi “psicologici” per chiudere riconfermando la tesi di una mia doppia personalità.

Ai galatinesi lascio ogni considerazione su quanto sopra.

INTERROGAZIONE PALESTRA COLLEMETO:

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RIPOSTA INTERROGAZIONE PALESTRA COLLEMETO:

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Loredana Tundo
Consigliere Comunale CON

 

Per riscaldare l'inverno 2023 Raimondo Rodia vuole proporre un talk show con grandi personaggi noti del Salento trattando argomenti di attualità. Così nascono i 6 eventi che tra la fine di gennaio ed il 23 febbraio illumineranno le Gallerie Tartaro a Galatina, in via Principe di Piemonte al centro della città.

  • Iniziamo con Mino De Santis il 25 gennaio, così lo descrive suo fratello Giuseppe che ben lo conosce : "E' un sognatore ingenuo e intellettualmente onesto. Insofferente a qualsiasi regola, non scenderebbe mai a compromessi, ha l’anima libera e resta anarchico anche quando non sarebbe il caso… ha una singolare genialità, un'autentica vena artistica che differisce da qualsiasi accomodante musicalità “popolare” oggi cosi volgarmente e insopportabilmente stereotipata ". Con lui si parlerà di un tema altamente spirituale : alchimia, esoterismo, un tuffo nel mondo reale ed irreale dove contano i sentimenti, il nostro mondo interiore e molto altro.
  • Il 2 febbraio 2023 data unica fissata alle ore 18 la presentazione del secondo romanzo di Fernando Blasi in arte Nandu Popu dei Sud Sound System dal titolo " Li Menati ". Li menati in Salento sono i reietti, letteralmente gente da buttare, da evitare. Raramente però finiscono in discarica e anzi, affondano le loro radici nel territorio rendendolo marcio e inospitale. Molti dei menati che Fernando Blasi, in arte Nandu Popu, racconta in questo suo secondo libro, subiscono una metamorfosi profonda e irrefrenabile tanto da diventare boss della Sacra Corona Unita. Una metamorfosi che riguarda tutti, non solo i menati. Riguarda chi la incoraggia, chi sta a guardare, chi si rende invisibile lasciando il territorio alla loro mercè. Nandu Popu regala al lettore un racconto che attraversa il tempo e le vite di chi ha vissuto la Puglia soprattutto in determinati anni. Uno squarcio sul passato di una parte del territorio salentino, Casalabate in particolare, e sui trascorsi autobiografici dell'autore. Un continuo cammino tra passato e presente, tra credenze e storia, un atto d'amore nei confronti della propria terra e un avvertimento alle nuove generazioni affinché imparino a non restare a guardare e a intervenire, per cambiare le cose senza subirle. 

    Giovanni Piero Paladini, salentino di 65 anni, laureato in Giurisprudenza e Presidente della CONFIME-Confederazione Imprese Mediterranee. Esperto in relazioni internazionali e geopolica, ha acquisito pluriennale esperienza nel campo dell’internazionalizzazione delle imprese e della cooperazione accademica con particolare riguardo all’Area MENA. Da circa quindici anni ha dato concretezza alla sua passione, cioè la narrativa, attraverso la quale racconta le proprie esperienze, sensazioni ed emozioni vissute nei tanti viaggi in giro per il mondo. Ne sono nati cinque romanzi tra cui ultimo ‘Jihad’. In precedenza la trilogia dedicata all’affarista internazionale Marco Latini, comprendente ‘L’onore perso’, ‘Il decimo cerchio’ e ‘Il giuramento del falco’ ed infine ‘…e adesso tutto cambia’.

    Jihad è la storia di un giovane immigrato tunisino, aristocratico e ricco, Mohamed, scappato dal suo Paese a seguito della persecuzione del presidente Ben Ali nei confronti del partito Ennadha, di cui faceva parte il padre. Giunto in Sicilia, accolto dagli amici del padre, scopre di essere stato destinato a un futuro di leader della Jihad e manager di una compagnia finanziaria che, grazie a complicità mafiose locali e poteri forti internazionali, è dedita al malaffare, al traffico di armi e droga e al finanziamento del terrorismo islamico. Le contraddizioni personali, tra principi religiosi e vita sentimentale, lo travolgono trasportandolo in un vortice di dolore, angoscia e sensi di colpa.

  • Il terzo ospite sarà Giampiero Khaled Paladini che presenterà il suo ultimo romanzo " Jihad " l'8 febbraio, un tema molto in voga in questo momento in cui c'è bisogno di trovare un compromesso tra occidente ed oriente tra ricchi e poveri in un mondo sempre più globalizzato.

    La millenaria civiltà contadina; una civiltà che nei centri rurali del Salento aveva realizzato, pur in un quadro diffuso di povertà, sfruttamento ed ingiustizia, straordinari risultati di risposta ai bisogni collettivi, di socialità ed identità culturale. Le piazze di quei paesi, che negli ultimi anni sono state oggetto di importanti rifacimenti strutturali ed estetici dagli effetti spesso scenografici, perduta ogni funzione economica e sociale, oggi si presentano come spazi vuoti di presenza umana, freddi, senza storia, senza anima e memoria e ormai da decenni attendono nuova linfa e nuova vita, che sarà, se mai, del tutto diversa da quella di un passato leggendario ed irripetibile. L’ottava rima, con la musica e le cadenze sue proprie, poggia sulla strepitosa padronanza di una lingua che, già grande di suo, si è strutturata nei secoli con scambi, arricchimenti i più diversi, consentendo al popolo del Salento straordinarie capacità espressive, comunicative e creative; lingua che nel poema è strumento formidabile per il disegno di quadri, situazioni e personaggi, lo sviluppo del pensiero e del racconto, il dipanarsi di nostalgiche ricostruzioni e di ironiche, ma spesso amare e desolate invettive, tutte giocate tra il semiserio rimpianto del passato e la icastica condanna del presente.

    Fabrizio Romano Camilli imprenditore e politico, sarà l'ospite di mercoledi 15 febbraio nel corso della sua carriera politica è stato assessore ai trasporti, vie di comunicazione e demanio marittimo della regione Puglia, Presidente del comitato regionale Protezione Civile e componente della Commissione regionale antimafia. Dal 2004 autore di romanzi autobiografici e narrativa politica in genere aprirà una sua pagina come autore nel giugno 2020 con lo pseudonimo di Faro Milli. Con lui divagheremo del mondo politico di ieri e di oggi.

  • Il quarto ospite venerdi 10 febbraio sarà il prof. Giovanni Leuzzi, da sempre impegnato con progetti nel campo culturale e sociale, con lui il 15 febbraio con un tema ad ambedue molto caro dal titolo " Salentinità " tutto ciò che caratterizza e ci rende orgogliosi di essere nati nel tacco d'Italia.
  • Infine giovedi 23 febbraio 2023 alle ore 18 il cantautore P40- Il progetto P40 nasce nel 2002 dall’idea del musicista Pasquale G. Quaranta, personaggio emergente ed estroso della grande fucina di artisti salentini, subito balzato agli occhi del pubblico della sua terra natía per l’originalità della sua opera e il carisma del personaggio. Alla base del lavoro di P40 c’è l’osservazione attenta e critica del suo tempo che l’artista cerca di ri-significare nei suoi spettacoli, attraverso un repertorio di brani inediti composto dallo stesso. Incarnando un incontro tra la figura del cantautore e quella dell’attore, che insieme convivono sul palco portando in scena una rappresentazione quasi teatrale, essenziale, a tratti geniale ma nello stesso tempo ricca di improvvisazioni che giocano sugli equivoci e sulle sensazioni del pubblico. 

 

Le serate si svolgeranno nell'arco di un mese circa presso le gallerie Tartaro via Principe di Piemonte Galatina alle ore 18.00 e saranno riprese dalla Web TV :  TV Sud Tele Galatina e rimarranno archiviate sul canale Youtube dell'emittente.

Raimondo Rodia

 
Di Redazione (del 30/11/2015 @ 07:37:21, in Comunicato Stampa, linkato 2015 volte)

Lunedi 30 novembre alle ore 18,30, presso l’Auditorium “G. Martinez” dell’omonimo  Liceo Artistico  di Galatina, sarà presentato in prima nazionale Salento Rock Andato via senza salutare per i tipi di Kurumuny,  il primo libro di Francesca Malerba.

L’incontro è promosso ed organizzato dalla Libreria Fiordilibro, con il patrocinio del Comune di Galatina, l’IISS “P. Colonna” e la collaborazione di Inondazioni.it.

Interverranno il Sindaco Dott. Cosimo Montagna, l’Ass. re alla Cultura prof.ssa Daniela Vantaggiato, la Dirigente dell’IISS prof.ssa Maria Rita Meleleo, il dott. Livio Romano scrittore e il dott. Antonio Liguori corrispondente della Gazzetta del Mezzogiorno. 

Salento Rock. Andati via senza salutare ricorda un passato recente della storia di Galatina.     

Il romanzo è basato su fatti realmente accaduti in Salento tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ’90. La vicenda ha luogo principalmente a Galatina, scossa, come altri piccoli centri, dal rapido aumento della tossicodipendenza. A causa dell’elevato consumo di eroina per via endovenosa, nei primi anni ’90 scoppiò
nel paese un'epidemia di AIDS, con oltre duecento sieropositivi registrati dalla USL, e numerosi decessi, che
si andavano a sommare a quelli dei giovani morti per droga. Già dal 1987, grazie a un cospicuo

finanziamento della Cassa del Mezzogiorno, l’ospedale “Santa Caterina Novella” era stato dotato di un

reparto infettivi all’avanguardia, non ancora attivato a causa di ostacoli amministrativi. I malati di AIDS

venivano curati in un'ala dell’ospedale seminterrata, con posti letto insufficienti e in condizioni igieniche e

sanitarie inadeguate.

Attorno alle difficili esistenze dei malati e dei tossicodipendenti, il paese reagiva in due modi opposti: da

una parte l'indifferenza e addirittura il rifiuto e l'emarginazione, dall'altra la volontà di denunciare la

situazione e di lottare per ottenere attenzione e diritti. Prezioso fu l’attivismo di alcuni ragazzi del paese e

del centro da loro fondato.

Incentrato sulla voce narrante di un'adolescente che prende pian piano coscienza dei fatti, fino a esserne

travolta personalmente, Salento Rock è un mosaico di differenti vicende di vita e rappresenta uno scorcio

della società dei tempi: i giovani, la musica, la droga, la disoccupazione, lo scarto generazionale tra genitori

e figli. Tra doloroso romanzo di formazione e reportage sociale (basato su testimonianze reali e approfondite ricerche d'archivio), Salento Rock ripercorre, se pur liberamente, una parte della recente storia di Galatina e vuole essere uno spunto di riflessione sui temi attuali della tossicodipendenza, dell’AIDS, del disagio giovanile. Grazie alla scrittura semplice e immediata, si rivolge a un pubblico eterogeneo: da chi è stato testimone delle vicende narrate, agli adolescenti in preda agli attuali problemi e nodi esistenziali. 

Francesca Malerba  Nata a Galatina (LE) nel 1977, ha trascorso gli anni universitari a Bologna e dal 2002 vive a Roma, dove lavora nell’Istituto di Neuroscienze fondato da Rita Levi-Montalcini. Appassionata di danza, musica e letteratura, cerca di applicare a questi settori creativi tutta la sua attitudine da ricercatrice scientifica.

 

Libreria Fiordilibro

 

Leonardo Palmisano, scrittore e sociologo, tra i più importanti esperti in Italia di mafie e caporalato, e già autore autore di “Ghetto Italia” - con il quale ha vinto il premio Livatino contro le Mafie - e “Mafia Caporale” - inchiesta sul mondo del lavoro sommerso - ritorna con un nuovo racconto. Si tratta della prima indagine del bandito Mazzacani con cui inaugura l’esordio alla narrativa giallistica di uno dei giornalisti d’inchiesta più talentuosi.

Dialoga con l'autore la giornalista Tiziana Colluto.

Maria, l’adorata nipotina del boss di Bari Nino De Giudice, detto ‘Zi Nino, è stata rapita. Un solo uomo può ritrovarla, uno a cui non è rimasto niente da perdere perché ha già perso tutto, un fantasma. Mazzacani è un bandito, un cane sciolto, uno che non si è mai affiliato alla Sacra Corona Unita, e per questo è stato punito. La sua banda è stata massacrata e lui è fuori dal giro. Sulle tracce della bambina, c’è anche un losco commissario che tiene in scacco Mazzacani e che lo costringe a lavorare per lui come prezzo per la sua scomoda libertà. Ad affiancare Mazzacani nella sua ricerca, un membro della sua vecchia banda, il Gigante, e una giovane pm che nella storia vuole vederci chiaro, a costo di scontrarsi con pezzi deviati della giustizia. probabilmente finita nelle maglie del traffico pedopornografico. Durante la lunga ricerca, il bandito incrocia e scappa da pezzi interi della criminalità organizzata del sud Italia – la Sacra corona unita, la Camorra, la ‘ndrangheta, la mafia albanese e l’anonima sequestri, incontra le cosche in guerra che si spartiscono il territorio con la connivenza dei politici e gli affari, soprattutto quelli legati alla legalizzazione della marijuana. 
Mazzacani non è un eroe, non è un giusto, e per questo riuscirà a portare il lettore dove nessun commissario lo ha mai portato prima.

Un ringraziamento speciale per la collaborazione a Libreria Viva Athena - Mondadori Galatina grazie alla quale ci sarà la possibilità di acquistare il romanzo.

Arci Levèra Noha

 
Di Antonio Mellone (del 23/06/2017 @ 07:34:44, in I Beni Culturali, linkato 3761 volte)

Egregi Signori,

vista la pletora di sbadati urbani che bazzica un po’ovunque con il prosciutto sugli occhi, son costretto a rivolgermi a voi signori Vigili e non invece al Commissario prefettizio che sta per terminare il suo mandato - e senza attendere l’elezione del nuovo sindaco (tanto il terrore che questi sia addirittura peggio di un commissario prefettizio) - per chiedervi se per caso vi fosse caduto l’occhio su di un cantiere ubicato a Noha nella centralissima via Castello, proprio di fronte alla locale farmacia, coperto da un’impalcatura di non meno di venti o trenta metri di lunghezza,  invadente tutto il marciapiede del lato del Palazzo Baronale (e, salvo errori, con filo elettrico volante da un lato all’altro della strada).

Non vorrei sembrare fuori tempo massimo, ma è da cinque e passa mesi che avrei voluto scrivervi in merito a questo “palcoscenico”; ma non mi è stato possibile per via dell’impegno profuso nel vergare pezzi possibilmente critici (a volte per sopperire alle lacune della  “stampa” che sembra non conoscere codesto suo fondamentale dovere) in merito a coalizioni e candidati protagonisti dell’orripilante campagna elettorale ancora in corso. Vabbè, sono quasi certo che anche questo intervento verrà considerato “a orologeria”, ma non ci posso far nulla.

Orbene, il sipario del suddetto palcoscenico occlude la vista di quel che rimane delle “Casiceddhre”, bene culturale molto caro ai nohani - evidentemente un po’ meno ai proprietari che si sono succeduti nel tempo - censito nel catalogo del FAI (Fondo Ambiente Italiano) e oggetto, per la cronaca, di racconti, storie, foto-gallery, vignette, reportage televisivi, e addirittura un bellissimo romanzo.

Ultimamente sono state rivolte al sottoscritto delle richieste di informazioni da parte di qualche viaggiatore d’oltre regione [chi viene a visitare le “Casiceddhre” non può essere considerato un “turista”, magari grasso sudato e inebetito in cerca di movida ma, appunto, un viaggiatore delicato, ndr.] sui tempi ed eventualmente la tipologia dei lavori in corso su codesto angolo antico e bello di Noha: domande alle quali purtroppo non sono stato in grado di dare una risposta.

Sì, perché, come potreste constatare di persona, sul catafalco di cui sto parlando – sempre salvo errori o omissioni da parte mia – non è mai stato installato (o, se lo fosse, non è assolutamente visibile) il cartello di identificazione dei lavori - mi pare, obbligatorio per legge.

Ecco: il sottoscritto, e altri concittadini (veramente anche qualche viaggiatore, come detto sopra) avrebbero il bisogno di avere notizie più dettagliate (più per preoccupazione, invero, che per mera curiosità) riguardo all’impresa esecutrice dei lavori, al tipo di opere da realizzare, alle modalità di esecuzione delle opere, all’eventuale richiesta di permessi e/o pareri alla Soprintendenza, e giacché anche agli estremi dell’autorizzazione o eventuale facoltà di costruire; e poi ancora la stazione appaltante, l’impresa, il nome del direttore di cantiere o quello di eventuali altri soggetti responsabili (anche nel caso in cui durante lo svolgimento delle attività di fabbrica dovessero derivare danni a terzi), e altre informazioni pubbliche, come credo siano richieste anche dai regolamenti comunali.  

Un cartello di cantiere è importante e può (dovrebbe) esser preso in visione non solo dagli organi di vigilanza, ma anche (soprattutto) dalla popolazione che intende capire come verrà modificato il suo territorio, e quale impatto l’intervento potrebbe avere sulle proprie abitudini, sull’ambiente circostante, e, non ultimo, sull’arte e la storia locali (che per definizione non son più da considerarsi di serie B o C, ma storia e arte tout court).

Vi ringrazio dell’attenzione, e nell’attesa di qualche risposta possibilmente “verbale”, volta magari a ridurre la stucchevole (e talvolta abusiva) cartellonistica elettorale in favore di quella (evidentemente obbligatoria) dei cantieri, porgo cordiali saluti.

Antonio Mellone

 
Di Antonio Mellone (del 01/03/2012 @ 07:00:00, in NohaBlog, linkato 3833 volte)

Tra le tante novità storiche introdotte dalla buonanima dell’Osservatore Nohano non si può non menzionare quella delle vignette satiriche. Si badi bene: qui non si sta dicendo che codeste scenette umoristiche illustrate fossero cosa ignota ai nohani; si sta invece ribadendo il fatto che vignette satiriche a contenuto glocal (ma soprattutto local con personaggi e situazioni nohan-galatinesi) siano comparse per la prima volta nella storia della nostra comunità su quel giornalino che fu ciclone benemerito per alcuni, iattura per altri. E questo proprio grazie all’arte e al genio enciclopedico di Marcello D’Acquarica, maestro d’amore per Noha.

Le vignette di Marcello si contano ormai nell’ordine delle centinaia di unità (se non proprio delle migliaia) e da un po’ di tempo a questa parte abbiamo la fortuna di goderne via web quasi quotidianamente - così come si fa con la tazzina del caffé mattutino - ammirandole nella sua rubrica “Una vignetta al giorno”, regolarmente aggiornata  dall’Albino Campa, patron di questo sito.

Confesso che, tranne qualche rarissima eccezione, mi piacciono le vignette di Marcello; le trovo esteticamente belle, originali, e poi ancora sagaci e mordaci al punto giusto. Certo, è capitato anche a me di dissentire da qualche sua striscia satirica, diciamo così, poco felice o poco azzeccata. Ed ho anche espresso codesto mio disappunto, scrivendone liberamente sul sito di Noha. Ma una cosa è dir questo (di una vignetta), un’altra è indire le crociate contro una persona (vi assicuro mitissima) che fa dell’arte e della libertà del pensiero il suo modo di essere e di fare.

Non è mia intenzione fare qui il panegirico di Marcello D’Acquarica, non essendone né il suo avvocato difensore (credo non ne abbia il bisogno) né il suo sanctificetur. A me interessa invece spendere qualche parola in più sulla satira, inclusa quella nostrana.       

L’obiettivo della satira è esprimere un punto di vista in modo divertente. Divertente per chi la fa, s’intende. E ogni risata dell’autore contiene una piccola verità umana (che a volte fa male). Se poi il pubblico ride, tanto meglio, ma non è un criterio per giudicare la satira. Certo la satira mica può piacere a tutti: i suoi bersagli, ad esempio, non ridono.

Insomma, bisogna togliersi dalla testa l’equivoco secondo cui la satira debba per forza far ridere, perché a volte deve far piangere. Anzi talvolta la satira più riuscita, la più tagliente e corrosiva, è quella che fa scoppiare di rabbia (per la verità, soprattutto i bacchettoni). E il disagio che aumenta è solo quello dei parrucconi (gli spiriti liberi, invece, riescono perfino a ridere di se stessi). 

Non ricordo più dove ho avuto modo di leggere che la satira distrugge ciò che è vecchio in funzione della generazione del nuovo, e che essa “è la festa di una comunità che vive”. Che bello! Io mi rifiuto di pensare che a Noha siamo regrediti a tal punto che la gente debba addirittura essere rieducata alla libertà del pensiero, di cui la satira, con il suo potere a volte dissacrante, è uno dei sapori.

Purtroppo, a volte, si è costretti ad osservare reazioni sproporzionate o scomposte, divieti o condanne senza se e senza ma, e, ahinoi, anche tentativi di emarginazione da parte di alcuni censori (che forse non sanno nemmeno di esserlo, e che scordano che a volte è la censura che della satira certifica il valore). 

Invero, il potere è sempre soggetto alla tentazione di svolgere il suo oppressivo mestiere, infastidito non tanto dalla vignetta o dallo scritto in sé, quanto dalla scalfittura del “pensiero unico” e soprattutto dall’apprezzamento di un’idea controcorrente da parte di un crescente numero di estimatori.

A volte nasce il dubbio che certe reazioni smisurate, da “apriti cielo!”, siano una forma di disperazione. Chi è in pace con se stesso, infatti, non darebbe importanza né a vignette, né ad articoli, né ad altro, visto che chi scrive o disegna o chiosa è una “parte minoritaria, piccolissima, insignificante della comunità”.

Questo non implica che non si possa criticare, o ribattere ad un articolo o ad una vignetta. Ci mancherebbe altro. Solo che la reazione, secondo me, dovrebbe essere, diciamo così, proporzionata. Si dice che ogni difesa dovrebbe essere commisurata all’offesa (eventuale). Non è che se uno ti tira uno schiaffo tu controbatti con una archibugiata o con una pugnalata alle spalle o con il lancio di una bomba nucleare (con il rischio di un automatico, gratuito e ridanciano cupio dissolvi).

Io credo che nell’arte (e la satira di Marcello D’Acquarica è una forma d’arte) l’unica censura ammissibile sia lo sbadiglio, l’indifferenza, e non la scomunica fulminata in diretta coram populo (che mutatis mutandis ricorda un po’ le minacce terroristiche di alcuni fanatici islamici quale reazione alle vignette su Maometto, o la condanna a morte per bestemmia di Salman Rushdie per il suo romanzo “I versi satanici” scagliatagli contro dall’ayatollah Khomeyni). Che bello sarebbe ritornare a vivere quel che dai pulpiti un tempo si insegnava (prima a se stessi e poi agli altri): l’evangelico concetto del porgere l’altra guancia.

Daniele Luttazzi, censurato insieme a Biagi e Santoro (indovinate da chi) scrive sul suo “La guerra civile fredda” (Feltrinelli, Milano, 2009), libro che vivamente consiglio: “La satira è innanzitutto arte: in quanto tale, agisce sulla storia offrendo all’umanità uno sguardo rinnovato sul mondo; per questo, sin dal tempo di Aristofane, la satira è contro il potere, di cui riesce ad annullare la natura mortifera mantenendo viva nel nostro immaginario quella sana oscillazione tra sacro e profano che chiamiamo dubbio. L’effetto concreto della satira è quello della liberazione dell’individuo dai pregiudizi inculcati in lui dai marketing politici, culturali, economici, religiosi. Il potere s’accorge che questo va contro i suoi interessi e ti tappa la bocca. La satira dà fastidio perché esprime un giudizio sui fatti, addossando responsabilità. E’ sempre stato così ed è un ottimo motivo per continuare a farla. Dove possibile”.

Bè, auguriamoci davvero che a Noha sia sempre possibile fare un po’ satira. Anche attraverso i (tutt’altro che satanici) fumetti di Marcello.

Antonio Mellone
 
Di Redazione (del 26/05/2015 @ 00:24:14, in NohaBlog, linkato 2865 volte)
Lunedì 25 maggio 2015, presso l'Istituto Scolastico di via degli Astronauti, sono stati consegnati in dono agli alunni della scuola elementare e media di Noha oltre 200 volumi del "Noha - storia, arte e leggenda" di P. Francesco D'Acquarica e Antonio Mellone (che ne è anche il curatore). 
Alla dirigente scolastica, dott.ssa Elenora Longo è stato regalato un classico: "Il Mangialibri" di Michele Stursi, il primo romanzo ambientato a Noha. 

Eccovi di seguito la lettera di Antonio Mellone indirizzata ai ragazzi di Noha, e la fotogallery a cura di Federica Mellone (che si ringrazia per la collaborazione).

Noha.it

 

Cari Alunni delle Scuole di Noha,

è con vero piacere che vi offro in dono codesto “Noha – storia, arte, leggenda”, volume da me curato e scritto a quattro mani con padre Francesco D’Acquarica.

Questo libro, forse, non avrebbe mai visto la luce dieci anni orsono senza l’interessamento ed il contributo del compianto Michele Tarantino, la cui famiglia - nel suo ricordo - gioisce oggi insieme a me per questo omaggio.

Sì, cari ragazzi, è bello fare regali: direi anche che è molto più bello (e divertente) dare che ricevere, a condizione che si doni con letizia e senza tornaconti.

Vi prego allora di accettare questo volume, frutto di tanto lavoro e altrettanta passione da parte di padre Francesco, storico nohano, da oltre mezzo secolo alla continua ricerca dei segni della storia della nostra piccola patria, del sottoscritto osservatore di fatti di ieri e di oggi (e ove possibile anche di domani), dei maestri Pignatelli esperti nell’arte della fotografia, e di tanti altri che in un modo o nell’altro ci hanno aiutato nel lavoro di ricerca, redazione e pubblicazione di questo testo.

Prendete nelle vostre mani questo deposito di cronache, illustrazioni e reportage, sfogliatelo, leggetene una pagina e vedrete spuntare pensieri, storie e ricordi. Non frugate in questo libro come un cercatore dentro una miniera per estrarre una cosa sola, ma come uno che percorre un campo (o s’immerge in mare) per meravigliarsi del brulichio delle specie viventi.

Partendo da questa “bozza” son sicuro che scoprirete dell’altro, vi entusiasmerete nella ricerca (ma questo avviene con ogni libro), e in qualche modo anche a voi capiterà di scrivere nuove deliziose pagine di storia, arte e leggenda (e non solo nohane). Anche così potrete essere protagonisti di una comunità sempre più bella, accogliente, sana, colta, pulita e curata, solidale, responsabile, onesta e laboriosa, antica ma giovane d’animo, più attenta all’essere che all’avere, più interessata al noi che all’io, più impegnata nel pubblico che nel privato, premurosa dei suoi “spazi condominiali” e della natura che ancora la circonda; una comunità mai vinta e pronta a sperimentare la gioia della lotta per le grandi idee, propensa a valorizzare il suo capitale sociale e umano, e partigiana, sì, partigiana dei suoi beni culturali (il più importante dei quali non è l’antica torre medievale, non il frantoio ipogeo, non il castello, né la casa rossa, e nemmeno uno degli altari barocchi della chiesa madre: ma la Scuola, questa Scuola).

Cari ragazzi, il mondo non si cambia con le chiacchiere, ma con i sogni e le utopie. E io vi auguro di sognare molto. Ma sappiate che i veri sognatori dormono poco o niente.

Cordialmente Vostro.

Antonio Mellone

 

 

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Di Albino Campa (del 02/08/2011 @ 00:00:00, in Letture estive, linkato 3168 volte)

Vi suggeriamo di seguito altri tre libri per l'estate, così, tanto per mantenere svegli i neuroni superstiti

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, Einaudi, Torino, 2003

E’ un libro donatomi da Michele Stursi, quindi non so dirvi quanto costa.

Questo libro m’ha ricordato un altro, letto molti anni fa, Il giovane Golden di Salinger, ma soltanto per lo stile. A dire il vero questo ha una sintassi a modo, semplice ma perfetta, mentre quell’altro sembrava voler sconvolgere come un Martinetti qualsiasi, anni ed anni di grammatica, di arte del bello scrivere e di punteggiatura.

Questa è la storia commovente e divertente di un quindicenne, Christofer Boone, affetto da una forma di autismo che lo porta a vivere in un mondo tutto suo, ma con molti stupefacenti punti di contatto con quello circostante. Christofer ha una mente matematica, e i suoi ragionamenti sono così rigorosi che a volte sfuggono a noi altri normali.

Il suo mondo però è in continua espansione in seguito al ritrovamento del cane della vicina ucciso infilzato da un forcone. Il giovane detective, nonostante i suoi mille limiti, scoprirà la verità.  

 

Costruire il nemico di Umberto Eco, Saggi Bompiani, Milano, 2011, Euro 18,50.

 

Umberto Eco si diverte proprio a scrivere del più e del meno. E fa divertire anche noi altri nel leggerlo, anche se, qui non siamo di fronte ad un romanzo ma ad una raccolta di saggi originalissimi in cui si discetta di “assoluto e relativo”, di “andar per tesori” (cioè per incredibili reliquie e reliquiari sparpagliati in tutto il mondo: e tra le tante incontra il cranio di Giovanni Battista bambino, e due (due!) corpi di San Bartolomeo: uno a Roma e l’altro a Benevento), di come crearsi un nemico (in Italia, e anche a Noha siamo diventati bravissimi in quest’arte), di embrioni (se hanno o meno l’anima), di giornali, informazione e veline, di astronomie immaginarie, e di Wikileaks.

Un libro per tutti?

Beh, Umberto Eco (ma anche altri scrittori) si apprezzano se si ha già avuto un minimo di commercio d’amorosi sensi con le lettere, la filosofia, e gli altri libri. Del resto, chi sa di diverte; chi non sa, poveretto, deve accontentarsi delle stupidaggini. 

 

Tutti Santi – me compreso di Luciano De Crescenzo, Mondadori, Milano, 2011, Euro 17

 

Ogni tanto, per rinfrancar lo spirito, si può leggere qualcosa di leggero (ma non banale) scaturito dall’infaticabile penna di Luciano De Crescenzo, ingegnere convertito alla filosofia da scodellare con semplicità e da rendere masticabile e digeribile anche da chi non ha tanto commercio d’amorosi sensi con i paradigmi dei pensatori più o meno astrusi.

Questa volta il simpatico scrittore napoletano racconta la vita dei santi più significativi e spera di “non incontrare un giorno in paradiso proprio quelli di cui mi sono dimenticato”.

Dalle sante donne ai santi patroni, dai santi filosofi ai predicatori, dai pionieri ai martiri ed agli eremiti, De Crescenzo scherza quasi con ironia con i santi che ci hanno preceduto togliendo l’aura dei santini per renderli più “umani” e vicini a noi.

Un cenno a parte merita San Gennaro. Una quarantina d’anni fa la Chiesa di Roma fece capire che non credeva troppo all’esistenza stessa di San Gennaro, tanto che fu quasi eliminato dal calendario “universale”, riconoscendo il suo culto solo a livello locale. E’ come se San Gennaro fosse stato declassato a santo di serie B.

Stupenda la reazione dei napoletani che fecero apparire sui muri delle scritte del tenore: “San Gennà, futtatenne”.

 

Antonio Mellone

 
Di Albino Campa (del 03/08/2011 @ 00:00:00, in Letture estive, linkato 3216 volte)
Sapeva che baciando quella ragazza, incatenando per sempre le proprie visioni inesprimibili all’alito perituro di lei, la sua mente non avrebbe più spaziato come la mente di Dio”. Basterebbe questa frase per dare un’idea della materia letteraria plasmata con armoniosa cura tra le righe di questo breve ma intenso romanzo. Una frase a caso, poiché mi risulterebbe alquanto arduo fare una scelta: ogni parola qui ha un peso, ogni lemma sembra essere stato scelto con maniacale attenzione per apportare un fondamentale e univoco contributo alla costruzione della storia, al delineamento dei caratteri dei personaggi. Ammetto pertanto che dinanzi a classici di questa grandezza si è in un certo qual modo vincolati nell’esprimere giudizi incondizionati, ma cercherò comunque di essere il più possibile imparziale.

Senz’ombra di dubbio non si può non dire che la capacità di scrittura e di comunicazione di Fitzgerald è fuori dal comune: un linguaggio ricercato colmo di figure retoriche per nulla scontate, che contribuiscono in maniera essenziale alla riuscita della narrazione intercalandosi al momento giusto nel tessuto della storia. Quindi caro il mio lettore ci tengo ad avvisarti che, data la complessità dello stile, la lettura potrebbe risultare a tratti difficile e tortuosa la comprensione del testo. È una sensazione spiacevole, ma permettimi di consigliarti di non lasciarti assalire dallo sconforto, di andare comunque avanti, sorseggiando con gusto la bellezza della lingua e lasciando per il momento da parte il filo della storia.

Difatti la storia non è complessa, non si corre il rischio di perdere dei particolari per strada. Al lettore viene svelata lentamente l’ambigua figura del giovane Gatsby per bocca del vicino di casa, il quale non si limita a riportare i fatti ma li commenta fornendoci le sue impressioni, le sue emozioni. La storia non è nemmeno banale se si pensa che “Il grande Gatsby” è diventato l’emblema dell’America degli anni venti: la vicenda difatti è calata in un contesto storico ben delineato, con una geografia del territorio riscontrabile e riferimenti letterari e musicali attendibili.

Non voglio svelarti niente di più riguardo la trama, poiché così facendo correrei il rischio di intaccare lo stratagemma tecnico di narrazione dell’autore e quindi di annullare quella piacevole sensazione di pienezza che segue la conclusione di questo romanzo. Ti lascio con una seconda citazione e rinnovando l’esortazione a portarti sino all’ultima pagina godendoti il vero piacere della lettura. “Parlò molto del passato, e ne dedussi che cercava di ritrovare qualcosa, forse un concetto di se stesso che era scomparso nell’amore per Daisy”.

Michele Stursi

Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald, Einaudi, pp. 162, € 8,50

 
Di Albino Campa (del 06/08/2011 @ 00:00:00, in Letture estive, linkato 3210 volte)
Mettiamo subito in chiaro che la presente non vale come sollecito alla lettura del libro che intendo presentarvi. Sarebbe una grande responsabilità da parte mia, che sinceramente, chiamatemi pure vigliacco, non ho il coraggio di addossarmi. C’è da dire, però, che La metà di niente è uno di quei titoli niente male che per un periodo relativamente lungo ti ronzano di continuo nelle orecchie, poi ne senti parlare qua e là in maniera sporadica, infine svaniscono nel nulla e un bel giorno, magari nel frattempo sono passati anche degli anni e l’autrice ha appena pubblicato il suo nuovo romanzo, ti ritrovi come un fesso a sfogliare in una libreria, rimuginando un “ne ho sentito parlare… ma bene o male?”. E allora commetti l’imprudenza di acquistarlo. Forse ammaliato dallo sconto del 30% offerto dalla casa editrice.

Sta di fatto che, alla fine di questa lettura, di sicuro poco divertente, si sperimenta la frizzantina sensazione di trovarsi effettivamente con La metà di niente in mano. Mai titolo fu così azzeccato dall’editoria italiana, che si diverte come al solito a stravolgere i titoli originali (In the Beginnine era il nome di battesimo del romanzo della Dunne). Questa volta, però, il risultato della “metamorfosi da traduzione” si rileva essere un premuroso monito per lo sventurato lettore di turno.

 

Non volendo ora disseminare il testo di commenti sgarbati, rischiando così di scoraggiare anche i lettori più temerari, mi sono più volte ripromesso di non spendere una sola parola sulla “trama” (le virgolette sono d’obbligo perché di trama se ne intravede solo il riverbero sulle pagine) e sullo stile letterario. Vi basti sapere a riguardo che si tratta della cronaca di un comune divorzio, che prende forma attraverso le pagine del diario di Rose (moglie di un marito traditore bastardo che un bel giorno se ne scappa in vacanza con un’altra donna scordandosi di lei e dei suoi tre figli) alternate a pagine in cui sembra intervenire l’autrice a fare luce sul passato della coppia.

 

Niente di eccezionale, o meglio… la metà di niente. Ciò non toglie che a qualcuno possa particolarmente piacere. Se quindi siate amanti della lettura d’azzardo, questa è un’occasione da non perdere!

Michele Stursi

La metà di niente, Catherine Dunne, TEA, pp. 292, € 8,60

 
Di Antonio Mellone (del 05/06/2012 @ 00:00:00, in Un'altra chiesa, linkato 3129 volte)

Quando scrissi il mio romanzo «Habemus papam. La leggenda del Papa che abolì il Vaticano» che esce in questi giorni nelle librerie, non potevo immaginare la concomitanza con quanto sta succedendo in quel lupanare che si chiama Vaticano, ma conoscendo alcuni restroscena, ho tenuto in conto il contesto di delinquenza semplice e organizzata che lo circonda e lo alimenta.

Il Vaticano è sempre stato un covo di vipere e di faccendieri senza scrupoli, uomini (le donne lì sono pleonastiche o funzionali solo in senso sessuale, per il resto non esistono) malati di carrierismo e mondanità che per riuscire nel loro intento sono disposti a vendersi anche gratis. Da quando c’è Bertone a capo della Segreteria di Stato, il livello della nefandezza si è abbassato fino a sprofondare negli inferi perché l’uomo è un senza Dio, pieno di sé e tronfio nella sua vuotezza.

Sono certo che a lui pensasse Sant’Antonio da Padova quando tuonava nel sec. XII con parole di fuoco contro la curia e i curiali corrotti che pretendono di rappresentare Dio, mentre invece rappresentano solo abiezione, delinquenza, misfatti, orrori, immoralità e prostituzione:
«Nelle curie dei vescovi i birboni fanno risuonare la legge di Giustiniano [leggi: Diritto Canonico, ndr] e non quella di Cristo: fanno grandi chiacchiere, ma non secondo la tua legge, o Signore, che ormai è abbandonata e presa in odio”. “Se un vescovo o un prelato della Chiesa fa qualcosa contro una decretale di Alessandro, o di Innocenzo, o di qualche altro papa, viene subito accusato, l’accusato viene convocato, il convocato viene convinto del suo crimine, e dopo essere stato convinto viene deposto. Se invece commette qualcosa di grave contro il vangelo di Gesù Cristo, che è tenuto ad osservare sopra tutte le cose, non c’è nessuno che lo accusi, nessuno che lo riprenda».
Il pomposo abbigliamento religioso con il quale gli ecclesiastici incedono «tronfi e impettiti, a pancia in fuori», per sottolineare la sacralità della propria persona e distinguersi dai comuni mortali, non impressiona il santo, che anzi così li ridicolizza:
«Che cosa dirò degli effeminati prelati del nostro tempo, che si agghindano come donne destinate alle nozze, si rivestono di pelli varie, e le cui intemperanze si consumano in lettighe variopinte, in bardature e sproni di cavalli, che rosseggiano del sangue di Cristo?».

Antonio è spietato nella sua denuncia. Non trova alcuna attenuante o virtù nei prelati: vescovi e preti non sono pastori, ma lupi rapaci che «predicano per denaro», mentre i chierici, «molli, effeminati e corrotti, si presentano per denaro nei tribunali e nelle curie, come le prostitute». Per Antonio prelati e chierici sono i «predoni del nostro tempo», che eccellono solo nella loro insaziabile ingordigia: «Non c’è in essi alcuna forma di virtù, non c’è onestà di costumi, ma solo marciume di peccati; fa eccezione la formazione delle unghie, con le quali arraffano i beni dei poveri… questi indegni prelati della Chiesa non hanno alcuna energia nella mente, non essendo capaci di resistere alle tentazioni del diavolo: ma tutta la forza l’hanno nelle braccia e nei fianchi, forza di rapina e di lussuria».

Mentre Cristo «da ricco che era si è fatto povero» [2Cor 8,9], i suoi immaginari rappresentanti si arricchiscono impoverendo il popolo: «Il prelato della Chiesa è un leone che rugge con la sua superbia, un orso affamato con le sue rapine, che spoglia il misero popolo». «Ecco a chi viene affidata oggi la sposa di Cristo, il quale fu avvolto in panni e adagiato in una mangiatoia, mentre essi si rivestono di pelli e si abbandonano alla lussuria in letti di avorio».
Quando lessi la lista degli ultimi cardinali, fatti da Benedetto XVI, un senso di frustrazione mi colpì al cuore perché mi resi subito conto che lo sfacelo aveva superato il livello di guardia e non si poteva più tornare indietro, ma si poteva solo andare verso l’abisso, come i fatti di oggi stanno dimostrando.

Il 24 ottobre 2010, su la Repubblica(edizione ligure, p. XIX) scrissi: «La nomina del genovese Mauro Piacenza a prefetto della congregazione vaticana del clero, nominato
cardinale fresco di giornata è un brutto segno espressione di un pontificato disperato.

Come prete dovrei dipendere dal nuovo prefetto, ma non ne ho alcuna intenzione e dichiaro pubblicamente che in quanto prete non riconosco a Mauro Piacenza alcuna autorità su di me né morale né dottrinale e sono pronto a renderne ragione in qualsiasi sede competente. Con Piacenza fa carriera anche il suo pupillo Marco Simeon, già indagato a Perugia per lo scandalo di Propaganda Fide. Dell’uno e dell’altro, purtroppo, sentiremo parlare ancora e presto».

Conosco Piacenza, conosco Bertone e le loro carriere. Mauro Piacenza ha impiegato 25 anni di leccaggine e di asservimento a uno o più padroni e di padrone in padrone, finalmente è arrivato al club esclusivo che può eleggere il papa. Egli è il padrino di Marco Simeon, la cui figura è semplicemente orripilante. Egli andò via da Genova nel 1987, pochi giorni dopo l’arrivo del card. Giovanni Canestri che egli giudicava «di sinistra» (risate e applausi convinti!). Si trasferì a Roma e qui cominciò il lento pellegrinaggio di tessitura silenziosa e proficua: un giorno ti vendi a questo, un giorno fai il servo a quello, fai vedere che sei affidabile, offri i tuoi servigi senza riserva, metti da parte la coscienza, proteggi gli uomini giusti come Marco Simeon, stai a cuccia sulla soglia delle porte giuste, se necessario in quell’ambiente non si disdice neanche il letto profumato d’incenso, e alla fine ti ritrovi cardinale senza nemmeno accorgerti come ci sei arrivato.

Come possono costoro condannare gli omosessuali se poi li custodiscono e li usano nel segreto delle mura vaticane che esonda di travestiti? Almeno stessero zitti! Se, però, condannano, devono guardarsi prima allo specchio e solo dopo avere tolto la trave dal loro occhio, solo dopo, potrebbero pretendere, chiedendo permesso, di togliere la pagliuzza nell’occhio degli altri. Come possono presumere di dettare legge in campo sessuale, se poi sono loro stessi gli utilizzatori concomitanti e finali della pederastia, della devianza e di ogni perversione? La via sessuale è una via maestra per fare carriera e dentro il Vaticano vi è il mercato delle vacche con buona pace per la dignità della persona.

Una Chiesa sana e discepola di Cristo non avrebbe nemmeno preso in considerazione un individuo scellerato come Piacenza, così come avrebbe mandato alla Caienna il Tarcisio Bertone, uomo che non doveva nemmeno diventare prete perché è solo l’incarnazione della vacuità e del potere fine a se stesso. I cardinali Tarcisio Bertone e Mauro Piacenza con i loro affiliati e scherani, vere bande di malaffare, sono una sciagura per la Chiesa sia da un punto di vista teologico che umano. La colpa esclusiva ricade sul papa che li ha scelti o se li è lasciarti imporre da una cricca che vuole condizionare anche lo Spirito Santo.
Oggi il cardinale Mauro Piacenza, l’uomo più retrivo che io conosca, più fondamentalista dei lefebvriani, nemico acerrimo del Vaticano II, che egli ha subito come un oltraggio alla Chiesa e a cui non si è mai rassegnato. Quest’uomo, insieme a Bertone, è al centro dello scandalo che colpisce il Vaticano. Sua creatura e discepolo è il neo patriarca di Venezia: la tela del ragno clericale nefasto avanza, ma si frantumerà davanti alla Chiesa del popolo di Dio e del Vaticnao II che non cederà.

Questa Chiesa, quella delle manovre e della corruzione, può stare allegra: con questa gente non andrà lontana, ma toccherà il fondo della sentina come stiamo vedendo in questi giorni.
Si dice che il papa non governi. Per forza! Gli uomini di cui si è circondato li ha scelti lui e non un altro. Ha voluto contro la Chiesa del Vaticano II togliere la scomunica ai lefebvriani e fargli ponti d’oro? Ha voluto minimizzare le orrende immoralità dei Legionari di Cristo? Ha voluto tacere omertosamente la piaga purulenta della pedofilia? Ora non pianga e non si triste, perché è lui il vero colpevole di questo disfacimento ecclesiale. E’ lui che ha lasciato spazio alle bande, colpendo chi difendeva il Concilio e innalzando e onorando chi lo denigrava e ostacolava.

Ha voluto circondarsi di uomini sicuri, di servi attenti e premurosi e questi fanno sul serio: si cercano lo spazio per realizzare la «loro» Chiesa che non è di certo quella di Cristo, il quale in questo frangente se n’è andato alle isole Cayman per avere un alibi di ferro: non essere stato presente sulla scena del crimine nella notte del pontificato del Pastore Tedesco.
Lo yacht lo mise a disposizione il Celeste Formigoni, a cui lo ha prestato Daccò che paga di tasca sua, ma ad insaputa di tutti.
A costoro non riconosco alcuna autorità. Insegnano che lo Spirito Santo guida la Chiesa e che anche il papa è eletto per ispirazione dello Spirito Santo.
Se fosse vero quello che insegnano non si darebbero così da fare per manovrare a fare eleggere questo o quello o per condizionare il conclave a «papa ancora vivo». Costoro sono miscredenti che usano Dio e lo Spirito come un elastico per adattarlo alle loro nefandezze che ha un solo Dio: il potere, cioè la frenesia di volere imporre una chiesa a loro immagine e somiglianza di uomini falliti e per questo presuntuosi: si credono Gesù Cristo e ne sono anche convinti.
Essi sono solo la banda della Magliana con cittadinanza vaticana, ma le loro colpe non verranno mai alla luce direttamente, perché il loro ambiente naturale è il buio. Quando Giuda pensava di tradire il Maestro per appena 30 denari, l’evangelista Giovanni annota la tragedia con sole tre parole: «Ed era notte!» (Gv 13,30).

Don Paolo Farinella - parrocchia San Torpete – Genova, 31 maggio 2012

Note-
* Cfr. ALBERTO MAGGI, Le cipolle di Marta (profili evangelici), Cittadella Editrice, Assisi (2002)
* Le citazioni sono tratte da SANT’ANTONIO DI PADOVA, Sermones Dominicales (I Sermoni, edizione italiana a cura di G.Tollardo), Padova, EMP, 1996

 

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