ago192025
Così come i danni alla salute dell’uomo e dell’habitat si manifestano a distanza di numerosi anni o decenni rispetto all’evento che li ha cagionati, a volte persino molto dopo la dismissione dell’attività inquinante.
Non abbiamo ancora per le mani un documento che ne indichi con precisione la nascita, ma dalle testimonianze pubblicate finora possiamo dire che lo “Stabilimento Brandy Galluccio” è nel compimento del suo secolo di vita, anche se già da tempo lo si vede agonizzante, tecnicamente morto. Sappiamo per certo che importanti eventi contribuirono al commercio locale tra cui la tratta ferroviaria Lecce-Gallipoli che venne inaugurata nel 1881, e la prima centrale elettrica galatinese che venne realizzata Il 21 aprile del 1921. Quelle che nel gergo moderno si chiamano “infrastrutture”. Da alcune informazioni e da qualche foto già pubblicata, si deduce che l’opificio è un vero scrigno di archeologia industriale e, seppur l’abbandono e l’ignavia ne abbiano fracassato l’integrità, con un po’ di curiosità e fantasia specifica si possono ancora ammirare i suoi circuiti idraulici collegati a una sequenza ordinata di vasche e motori elettrici, corredati a loro volta da distributori a manica arrotolata con metodo scientifico, in modo da ottimizzare i processi della lavorazione e gli spazi, insomma un cuore ancora pulsante fatto di caldaia, serpentine, alambicchi e condensatori per trasformare i vapori in liquidi. Oppure seguendo le trasformazioni dell’opificio, tavoli e mani di operaie operose impegnate nella preziosa lavorazione e conservazione di salse e marmellate.
Molto interessanti risultano anche alcuni ricordi di una nostra concittadina Assuntina Coluccia, classe 1936, già pubblicati sul sito Noha.it (https://www.noha.it/NOHA/articolo.asp?articolo=4937):
“Appena buio, nello stabilimento del Brandy Galluccio, aveva inizio il turno di notte. Di giorno lavoravano gli uomini addetti alla fornace e alle bolliture dei pomodori e delle mele cotogne, di notte entrava la squadra delle donne che a mani nude pelavano i pomodori ancora bollenti per sistemarli nei barattoli di vetro. Le donne di giorno dovevano badare ai bambini e governare casa. Per fortuna le cose sono cambiate, e per le donne oggi c’è più rispetto”.
E ancora: “Per superare l’inverno veniva recuperato il fasciame delle botti che si rompevano ancora impregnate di uva, si accendevano facilmente e servivano a scaldare la casa. Nel ’49, dopo la morte del barone, lo stabilimento, passato in mano ai nipoti, non rende più come prima, il lavoro per le operaie inizia a scarseggiare…”
Così scrive nel suo blog il professore Pietro Congedo (1930 - 2019), galatinese, insegnante e cultore di storia locale:
“…Intorno al 1950 numerosi viticoltori, riuniti in cooperativa, costituirono la Cantina Sociale di Galatina in viale Ionio, a ridosso della ferrovia, che nel 1969 “lavorò” oltre 50.000 quintali di uve.
Intanto dopo la prima guerra mondiale anche a Noha, frazione di Galatina, per iniziativa di una delle famiglie Galluccio era sorta un’industria, detta S.A.L.P.A. (Società Anonima per la Lavorazione di Prodotti Agricoli), che lavorava sia le uve che altri prodotti dell’agricoltura: per esempio, con la lavorazione dalle mele cotogne vi si produceva ottima cotognata. Proprio la S.A.L.P.A. in un certo periodo ha prodotto il “brandy Galluccio”.
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Dopo la Prima guerra mondiale, quindi 1920 circa, a Noha si fa largo un grande e promettente opificio, e per farcelo stare, in previsione della nuova strada provinciale che da Galatina porta a Noha, la Via di Noha già via S. Lucia, all’incrocio con l’antica via Soleto, il barone, senza badare neanche ai nostri morti che ancora oggi riposano sotto le mura perimetrali prospicienti la strada, costruisce le grandi muraglie del suo opificio.
Ricordo a tal proposito, che la Sovrintendenza inviò al Comune di Galatina il vincolo di bene culturale delle cosiddette “tombe messapiche”, in parte già devastate per spianare la provinciale ma in parte ancora “vive e vegete” sotto le mura del Brandy Galluccio.
ago262025
Il titolo di questo pezzo ripete quello del libro di p. Gian Luigi Blasi (tipografia Editrice Marra Eugenio, Galatina, 1934, XII). Libro che, se letto con attenzione, e alla luce della realtà che ci circonda, fa scivolare in un mondo, come dire, surreale.
Così scrive l'autore alla pagina 9: “Galatina [...] circondata da floridi orti, da pingui vigneti e da verdeggianti uliveti, siede tranquilla la bianca e nitida città, come incastonata nel verde smeraldo”.
Probabilmente il nostro p. Gian Luigi Blasi si riferiva soprattutto a quel polmone di verde che dalle terrazze del Convento di Santa Caterina, di cui fu Superiore dall’anno 1929, si poteva ammirare volgendo lo sguardo a est, in direzione Soleto, così come possiamo immaginare noi osservando la foto allegata. Qualche anziano galatinese potrebbe averne ancora memoria.
Prosegue ancora l'autore nella sua dolcissima iniezione di pace: "Le sue piazze con giovani palme, pini arditi, oleandri e fiori; le sue vie più larghe piantate ai lati di robinie, querce ed altri alberi, le molte e capaci chiese con i loro campanili, i suoi grandi istituti di educazione e di carità le danno un aspetto magnifico e la rendono bella, gentile e piacevole".
Sono molti gli autori d'altri tempi che ci consolano con parole e pensieri di bellezza sulla nostra Galatina: che a dire il vero si fa fatica a immaginarla diversa da come poi è diventata.
Percorrendo la via per Lecce, dall’altezza dell’Hotel Hermitage in poi, osservando l’orizzonte potremmo immaginare di vedere ancora quel "circondata da floridi orti e verdeggianti uliveti". E invece il panorama è ben altro. Sembra un affronto alla memoria, una sciabolata sanguinante sul petto, tanto il nerume sparso nei campi, fumati di nero con i prati deserti di vita e quali superstiti attori le infinite distese di pannelli fotovoltaici, un ennesimo sacrificio per il nostro inarrestabile “progresso”, quello del profitto "costi quel che costi".
Dicono che allunghi la vita media della gente, ma di fatto ultimamente uccide sempre più prematuramente: non si contano più padri e madri che sopravvivono ai figli.
ago302025
Ci siamo quasi. Qualche altro giorno di pazienza e vedrete che il sogno (evidentemente bagnato) del sindaco, e a quanto pare anche del suo assessore ai LL.PP. (acronimo antifrasi di Leccornie Pugliesi), sarà una splendida realtà: ci han lavorato senza requie un bel po’ di maestranze anche a quaranta gradi all’ombra (e poi dicono che non ci sono più i proletari di una volta) al fine di scodellarci un delizioso pacco chiavi in mano nel più breve tempo possibile. Mi riferisco al fast food fotocopia della Mc Donald’s, colato in loco di fronte alla Q8, giusto all’ingresso della prossima ventura città della cultura (soprattutto culinaria), viepiù descritta dallo storytelling degli animatori turistici di palazzo Orsini come un villaggio della Valtur. Già me lo vedo il primo cittadino della mia città, in compagnia di qualche altro uomo-sandwich (su piazza se ne annoverano a bizzeffe) passare tra i tavoli del novello ristorante senza cuoco come lo sposo ai matrimoni.
Finalmente, da una settimana circa, sul relativo piazzale, una M gialla tanta così svetta a mo’ di benvenuto in cima a uno dei menhir salentini 3.0 (vale a dire i pali della pubblicità), mentre il nuovo Quotidiano di Lecce, con un pizzico di pessimismo comico in merito alle tempistiche, ne gongolava sin dal 27 febbraio ’25 titolando: “Il nuovo store dovrebbe essere pronto entro la fine dell’anno, ma l’entusiasmo in città è già palpabile”. Talmente palpabile che fioccano in anteprima le recensioni su Google (ovviamente tutte con cinque stelle), così, sulla fiducia. Prima in assoluto quella di un potenziale cliente che non sta nella pelle, pregustando alla Pavlov il suo viaggio esperenziale nell’Happy Meal Time: “Non vediamo l’ora che apri” [sic], senza segni di interpunzione, ma con tre emoticon, di cui l’ultimo a forma di cuore creato con i due pollici e i due indici. Chissà se gli attentati dinamitardi alla grammatica italiana saranno funzionali all’ottenimento di uno sconto per il McFlurry.
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