Oppure, come si dice dalle mie parti, SINE. Questa volta cinque sono i quesiti referendari dei prossimi 8 e del 9 giugno ai quali bisognerebbe rispondere se non altro per buona educazione.
Ora, non è che l’esito positivo di codesti referendum rivoluzionerà lo statuto dei lavoratori, e men che meno la loro condizione che appare di dì in dì sempre più precaria (per fare la rivoluzione, si sa, serve quell’altra condizione necessaria - ancorché non sufficiente - chiamata coscienza di classe: processo ostico, invero, soprattutto oggi, tempo di decisori incapaci di comprendere la realtà ma convinti di poterla creare con martellanti narrazioni, purtroppo riuscendoci, dacché nulla è più tenace della catena delle illusioni), ma vivaddio si tratta pur sempre di abrogare le peggiori ciofeche legislative che sembrano fatte apposta per coniugare le beffe ai danni del moderno post-proletariato. E non ditemi che la lotta di classe non esiste: è invece viva e vegeta, ed è quella condotta dai ricchi contro i poveri, onde concettualmente si è passati dall’esproprio proletario all’esproprio del proletario (con un rapinoso trasferimento di flussi di cassa, e non solo, dalla base al vertice).
Il solito saputello con il ditino alzato blatererà di “manifestazioni ideologiche” (eh sì, signora mia, aborriscono le ideologie, ma temo soprattutto le idee, tutti presi come sono dal pragmatismo della realpolitik); di “ritorno al passato” (come se la bontà di una legge fosse inversamente proporzionale alla sua vetustà e direttamente alla sua “freschezza”: e l’abbiamo visto con le recentissime, anzi le moderne chicche giuridiche sfornate dal governo attuale e convertite dal parlamento passacarte); e ovviamente dell’immancabile “capitale umano” da “riqualificare” come dio-denaro comanda per andare incontro agli interessi guarda un po’ del capitale finanziario (un esempio per tutti quello della catena – in tutti i sensi - dei subappalti).
Io consiglierei di votare Sì a tutti i cinque referendum, a prescindere da chi ne sia il promotore (ché qui non si tratta della dicotomia destra/sinistra, ma della dualità sopra/sotto) per diversi motivi. Intanto perché un bel po’ di personaggi e interpreti del potere, con stampa del consenso al seguito, a partire dai figuri del governo centrale e per finire a quelli del locale, non vorrebbero manco che ci accostassimo ai seggi elettorali (e questi tentativi più o meno subdoli di boicottaggio non sarebbero già di per sé ottime ragioni per agire in senso opposto ai desiderata dei capi?); per dimostrare che non è ancora del tutto anestetizzata la capacità critica delle classi che di fatto reggono la società, dico quelle del Lavoro; perché l’abrogazione di queste leggi fascistissime sia l’inizio di un processo di defatalizzazione dell’esistente, cioè la scalfittura del pensiero consolidato sull’intrasformabilità del presente; per rintuzzare la natura mentulomorfa del pensiero dominante che professa il neoliberismo come nuova religione monoteistica, considera la nostra Costituzione come un rotolo di carta a doppio velo a non so più quanti piani di morbidezza, la bandiera italiana come un asciugamano “ospite”, e la cultura come un morbo del quale evitare rigorosamente il contagio.
Per favore andiamo tutti a votare. E proviamo a dimostrare che l’Italia è ancora una volta il “bel paese là dove ‘l Sì suona” (Dante Alighieri, Inferno, XXXIII, 80).
Antonio Mellone
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