giu302025
Prima di inerpicarsi in cima all’osservatorio più centrale di Noha, durante il percorso che porta in cima alla torre, i proprietari di casa, la famiglia Guido, nel marzo 2009, intenti come eravamo nelle ricerche storiche di Noha da immortalare su L’Osservatore Nohano, ci concesse di ammirare le mura affrescate da parte del nostro concittadino Cosimo Presta, già co-fondatore del Circolo Cittadino Juventus nel 1920 e probabile autore della stessa pittura con cui era affrescato il colonnato interno e le mura perimetrali della chiesa matrice, oggi non più visibile in seguito del restauro del 2010.
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Questi tocchi (di classe) si possono notare anche all’esterno della casa, dove ultimamente sono stati rimossi dei particolari del vecchio impianto elettrico, scoprendo così dei brani dell’antica pittura. Dalla sommità esterna della scala, possiamo ammirare a 360 gradi, partendo dalla nostra sinistra, il Vico Pigno che molti di noi ricordano ancora racchiuso come un piccolo anfiteatro con allo sfondo un aranceto e le vecchie cantine che hanno lasciato il posto all’asfalto e a moderni caseggiati. A seguire la torre medievale appartenente al castello dei De Noha, e poi ancora l’aranceto, la nostra perla cremisi, vale a dire Casa Rossa, che l’Assuntina Coluccia ricorda come la casa dei diavoli dove i nobiluomini del palazzo baronale si spartivano la cacciagione, divenuta infine l’archivio per la contabilità del Brandy Galluccio, e oggi circondata da mura private. Da questa fantastica altezza possiamo anche ammirare il complesso del Palazzo Baronale, oggi Nohasì, con la casa dirimpetto che fu sede dell’Universitas di Noha ad angolo con vico Marangia e infine, con un po’ di immaginazione, potremmo vedere in trasparenza sotto l’asfalto di via Castello e le case del Vico Marangia, gli antri dei due antichi frantoi sottostanti congiunti da uno stretto corridoio di 11 metri.
giu272025
Don Vitantonio Greco (1867 + 1932), è stato Arciprete della nostra Chiesa parrocchiale dal 1895 al 1932; gli succedette Don Paolo Tundo. Ne “La Chiesa di Noha e i Vescovi di Nardò” (ricerca pubblicata nel mese di aprile 2017)”, così scrive Padre Francesco D’Acquarica:
“Don Vito Antonio Greco, figlio di Vito e di Vita Maria Luceri era nato a Noha il 3 luglio dell’anno 1867 e fu battezzato il 6 luglio dello stesso anno da don Michele Alessandrelli, essendo padrini Vito Bianco e Grazia Benedetto. Diventa arciprete di Noha a 28 anni e vi resterà per 37 anni. È durante la sua arcipretura che viene rifatta la chiesa madre nel 1901. Morì all’età di 65 anni.”
La sua è sicuramente una fra le famiglie più facoltose di Noha, che, nel corso degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, aveva la sua dimora nell’omonimo palazzo di via Osanna, angolo via Siracusa, che nella mappa del 1880 si chiamava appunto Via Dell’Arciprete. Dall’inventario dei beni appartenenti alla Chiesa parrocchiale di Noha, pubblicato da P. Francesco D’Acquarica sul libro “NOHA - LA SUA STORIA” (edizione 2021 – Arti Grafiche Marino - LE) sappiamo che: “un altro orticello di circa 8 are di terreno per semine e arbusti situato nel feudo di Noha […] confina con il giardino della Corte Baronale e altri confini”. Lo stesso terreno è indicato in una mappa catastale antecedente al 1920 consultabile presso l’archivio storico di Galatina, e vi è indicata quale proprietaria l’“Arcipretura di Noha”. Da tutto ciò si presuppone che la villa cosiddetta “Villa dell’Arciprete Greco”, sia stata fatta costruire su un terreno appartenente all’arcipretura di Noha. Probabilmente, nel periodo in cui è stata costruita era Arciprete di Noha il nostro Don Vitantonio Greco. Infatti prima della attuale proprietà, la villa risulta appartenere aella famiglia di Antonio Greco, fu Pantaleo. Ramo della famiglia a cui apparteneva lo stesso Arciprete Don Vitantonio Greco.
Durante la Seconda guerra mondiale, prima dell’armistizio del 1943, la villa è stata a disposizione dei soldati tedeschi in permanenza nel Salento, e una guarnigione occupò i suoi locali, così scrive Michele Liquori nel suo “Vivere” (Arti Grafiche Marino – 2014)
giu252025
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Pochi mesi addietro, ho fatto un giro accompagnato dall’attuale proprietario del palazzo e della corte e insieme abbiamo percorso a piccoli passi i tragitti che uniscono le singole porte d’accesso di tante abitazioni e dei piccoli laboratori, un tempo brulicanti di vita e di sogni.
Il Palazzo “Gio’ Congedo”, è uno dei tanti beni culturali di Noha, l’antica masseria del 1700 di Giuseppe Congedo, possidente di Noha. Sul Catasto Murattiano del 1811, conservato nell’archivio storico di Lecce, compare la proprietà dei locali in zona l’Acquaro intestati a Giuseppe Congedo, e descritta così: Massaria dell'Aere di Gio’.
Il vecchio fabbricato cosiddetto oggi “de lu Prantera”, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso e fino alla fine del ‘900, è stato abitato da molte famiglie nohane, con annessi laboratori artigianali. Era anche chiamato il “Palazzo delle Marionette”, grazie alla presenza di un vecchio teatro in uno dei locali dello stabile. Il teatro delle marionette di Noha era un’impresa gestita da un certo Peppino di Ortelle, il comico, marito di Iole Surano, una nostra concittadina d’arte, cantante e ballerina del teatro. Il servizio delle marionette veniva offerto da uno zio di Peppino, un certo Rotunno che alla fine dell’esperienza nohana se ne partì alla volta dell’America in cerca di fortuna. Le marionette pare che fossero grandi circa un metro e venivano movimentate con le corde. Durante gli spettacoli, a mo’ di sigla, pare che suonassero un motivetto dal titolo: “Mimma svelta”.
Lo spettacolo più famoso e ricordato da alcune testimonianze è “Guerino Meschino”, tratto da L’Orlando Furioso. Si svolse una volta con la scuola, vi partecipò la 3° elementare della classe 1953. Il cancello di ferro del “foyer” del teatro (adiacente ai locali dell’attuale bar Settebello) era sempre aperto. Entrando, alla sinistra dell’atrio, all’aperto, vi era una buca profonda circa un metro e piena di rifiuti, la discarica di quel tempo. Dentro i saloni che seguivano all’ingresso del teatro, giusto per ottimizzare ogni angolo, pare che ci fossero le fosse del vino, cosiddette pile. Si possono ammirare ancora oggi, dopo l’ultimo restauro eseguito dagli attuali proprietari.
giu232025
La bellezza di un paesaggio o di un’opera d’arte o della storia di una comunità si può percepire anche da una analisi empirica basata sull’osservazione e sul sapere ascoltare il tempo. O anche dal sentirne la mancanza e al bisogno di appartenervi. Per notarla, la bellezza, a volte basta soltanto cambiare punto di vista.
Noha, Noje, Noe, un “alto” punto di vista. Da un antico dialetto greco: vedere lontano.
Noha si affaccia sulla valle dell’Asso a mo' di belvedere, come se fosse un osservatorio. Gode, per dirla in giurisprudenziale, del cosiddetto “diritto al panorama”, cosa ben diversa dal diritto di semplice veduta. Insomma, un posto prestigioso da cui godere della particolare amenità del paesaggio fino a immaginare di sfiorare con mano il mare di Gallipoli, che, allorquando la commistione quasi magica degli eventi atmosferici di alcune giornate particolari, si lascia scoprire leggermente lungo lo scosceso a destra del Monte Sant'Eleuterio, alto 195 s.l.m., uno dei più alti “monti” di tutto il Salento. Ma a noi non occorre andare tanto lontano, restiamo a Noha, scelta dai nostri antenati come avamposto a guardia dai pericoli che un tempo venivano dal mare, e crocevia di due importanti percorsi di comunicazione: la “Strada Reale di Puglia” e la trasversale medievale che in prossimità di Noha corrispondeva all’antica via di Soleto che, unendo alcune nostre masserie all’antico Casale Cristo delle Tabelle e a Fulcignano, lega la sponda di Otranto a quella di Gallipoli. Una posizione strategica. Unica nell’area centrale del Salento.
mag272025
Qualche nohano, libero per un attimo dal tradizionale paraocchi, si sarà accorto che da qualche tempo a questa parte sono in corso dei lavori (ormai non si sa più bene se pubblici o privati) per le strade della cittadina.
Pare che si stiano stendendo dei fili - mo’ non chiedetemi se per la fibra ottica o per il 5G (o per il punto G) – che insomma secondo il pensiero comune ci renderanno la vita più facile. Solo che non saprei dire se la ditta incaricata stia seguendo un capitolato, come dire, un po’ abborracciato o se sia invece l’applicazione delle norme (soprattutto di buona creanza) a essere, diciamo così, un tantino elastica.
Ebbene sì, come nella fiaba di Pollicino del Perrault, le maestranze stanno lasciando sul loro sentiero - anche stavolta evidentemente per segnarne il passaggio - non qualche sassolino o delle molliche di pane bensì un bel po’ di fascette di plastica nera, clips di nylon, pezzi di filo tranciato di netto e altra robetta che a essere ottimisti potrebbe impiegare dai 100 ai 1000 anni per degradarsi in natura. Qualcuno, chissà, sta ancora sperando in un bell’acquazzone primaverile in grado di sciacquare lo stradario comunale: purtroppo per lui (e per noi) nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto va a finire nelle vore di Noha.
mag272025
Non è che io abbia avuto l’onore di frequentare quell’opera monumentale dell’asilo di Noha. Sono nato molti anni prima. Anzi nei miei primi anni di vita ho frequentato quello che a quei tempi si diceva “la mescia”; e la mia mescia si chiamava Culumbrina.
Ma il grande arciprete dei miei tempi, don Paolo Tundo, “grande” per la sua vocione potente, ma anche per la statura fisica, morale e politica (durante il periodo fascista era il podestà di Noha, oggi si direbbe il Sindaco, anche se era solo il delegato del Podestà di Galatina: carica religiosa e politica dunque), era giustamente convinto dell’importanza dell’educazione morale dei suoi parrocchiani, anche quando erano ancora in tenera età.
Verso il 1939 fece arrivare una comunità di Suore, le “Oblate di S. Antonio di Padova”, perché si occupassero dell'Asilo Infantile, del doposcuola e all'insegnamento del catechismo e dell’arte del ricamo.
Io feci in tempo a frequentare quella scuola materna solo per l’anno scolastico 1940/41 per due motivi: il primo perché nel mese di ottobre 1941 cominciavo la scuola elementare; il secondo perché le Suore molto presto se ne andarono via da Noha.
Eh sì! Una notte i ladri violarono l'abitazione delle Suore, situata all’inizio di Via Cadorna, per derubarle. Le Suore, nonostante l’offerta di Lire 100 (siamo nel 1941) della Confraternita della Madonna delle Grazie, tremendamente spaventate da quella vicenda, decisero di abbandonare definitivamente il nostro paese.
Per questo motivo alcuni anni più tardi (nel 1955, appunto 70 anni fa), l’Arciprete, che tanto ci teneva all’educazione dei bambini("il domani del paese" - diceva) volle assolutamente che il suo popolo avesse la garanzia di un futuro migliore, preparando i bambini con la prima alfabetizzazione e socializzazione. Tra infinite difficoltà, spendendo i suoi risparmi e bussando alle porte di “chi poteva” riuscì a costruire su un terreno di sua proprietà l’opera monumentale che donò alla Congregazione “Discepole di Gesù Eucaristico” con l’impegno che questa Istituzione restasse per sempre a Noha.
La convenzione tra don Paolo e le Suore “Discepole di Gesù Eucaristico” fu firmata il 29 settembre 1957. Dal 1955 al 1957 l’asilo di Noha fu gestito da alcune donne volontarie.
Erano gli anni della mia formazione nel seminario missionario in provincia di Vercelli; ma quando tornavo a Noha per le vacanze in famiglia, don Paolo chiedeva la mia collaborazione (frequentavo ormai il liceo classico) per preparare le lettere che lui inviava a quelle persone (anche all’estero) che avrebbero potuto aiutarlo per completare la costruzione della scuola materna.
Io ho potuto godere dell’ospitalità e dell’amicizia delle Suore Discepole di Gesù Eucaristico quando già ero lanciato nel mondo per vivere la mia vocazione missionaria.
La prima volta fu in occasione della festa per la celebrazione della mia prima Messa a Noha: 64 anni fa.
3 aprile 1961: fu un giorno di grande emozioni per me, e sono convinto anche per don Paolo. Chiesa parrocchiale gremitissima: concelebranti il mio arciprete don Paolo e poi don Donato Mellone, don Gerardo Rizzo, il Padre Predicatore quaresimale di quell'anno, e poi tanti fedeli, oltre ai miei parenti. Mi onorarono della loro presenza anche l’on. Beniamino De Maria e il Prof. Donato Moro. Dopo la celebrazione in chiesa fummo ospiti nella scuola materna di Noha per il ricevimento e per il pranzo.
mag222025
Ora si chiama “Scuola dell’infanzia”, prima ancora “Scuola materna”, ai miei tempi (anni ‘70/’80 del secolo scorso) semplicemente “Asilo” - e in siffatto modo continuerò ad appellarlo in queste righe.
Insomma poco tempo fa insieme ad Albino (lo facciamo periodicamente immortalando scorci, personaggi o momenti significativi del nostro paesello) pubblicammo quale immagine di copertina di Nohaweb l’ingresso principale dell’Asilo di Noha, quello di via Carso numero 34. Iniziarono immediatamente a fioccare i “mi piace”, e contemporaneamente i commenti di alcuni internauti. E così Maurizio: “Quanti bei ricordi”, Nunzia: “La nostra infanzia, la nostra fanciullezza”, Claudia: “Le recite”, Patrizia (evidentemente un’insegnante del tempo che fu): “Che bei ricordi, preparare tutti quei bimbi per una meravigliosa festa. Sono stati il mio orgoglio. Sono passati 30 anni”, Francesco: “Sono trascorsi cinquant’anni da quando ci andavo”, Stefania: “Cresciuta dalle suore, suor Serafina e suor Giovina”, Fernando: “Per me sono passati 60 anni”, Gianna: “Scuola dell’infanzia e Azione Cattolica”, Carmine: “50 anni fa. Quante ne ho combinate insieme ai miei coetanei, con suor Ginesia la superiora, e la piccola suor Evangelina che ci preparava la mensa”, Simona: “Passati 37 anni, suor Felicina e maestra Maria Rosaria”, Sofia: “Sono passati 22 anni, caro ricordo della mia infanzia con suor Lucia, suor Pierangela, suor Croficissa, maestra Bernardetta”, Rossana: “Scuola Materna e poi Catechismo […] però che ricordi belli”. Tra gli emoticon non si contano i cuori di ogni dimensione: in effetti l’etimologia del vocabolo “ricordo” è proprio cor cordis, vale a dire cuore, ritenuto dagli antichi anche la sede della memoria.
Sono certo che se si interpellassero le ormai migliaia di “studenti” passati dall’Asilo nohano, tutti (tranne la solita eccezione che dunque conferma la regola) avrebbero qualcosa da raccontare, foto da postare, innocenti segreti da confessare, e sarebbero concordi nel considerare il periodo delle prime “alfabetizzazione e socializzazione” vissuto in quegli ambienti sani e genuini come il più sereno di tutta la propria vita, privo di drammi e ansie, ricco di profumi e sapori, fecondo di prove individuali e collettive, dalla scrittura al canto, dalla recitazione al disegno, dal gioco di squadra all’abilità manuale (chi non ricorda la plastilina o l’argilla che poi divenne il Das con cui scolpivamo pezzi d’“arte contemporanea” che non sfigurerebbero al Maxxi).
La permanenza in quella scuola che in tanti considerano idilliaca, a tratti fiabesca, al presente viepiù onirica, era arricchita dal carisma delle suore “Discepole di Gesù Eucaristico”, pedagogiste notoriamente tra le più preparate, a volte con specializzazione nei campi più svariati, dalle lettere alla musica, dalla matematica alla teologia, e anche nelle lingue straniere (ultimamente provenendo dai cinque continenti son quasi tutte poliglotte), nonché dalla professionalità dei precettori laici che da qualche decennio le affiancano.
D’altronde, checché se ne possa dire, la scuola più importante per la formazione di una persona non è affatto l’università (o il dottorato di ricerca o il master post-laurea o il corso di perfezionamento), ma appunto l’Asilo infantile: istituzione che accoglie fanciulli dai tre ai sei anni, età molto delicata (ma quale in fondo non lo è) della crescita.
A Noha abbiamo dunque codesto Asilo da 70 anni suonati proprio nel corso di quest’anno giubilare 2025: ci aveva pensato monsignor Paolo Tundo, arciprete dal 1933 al 1962 [mio prozio, fratello di nonna Maria Scala, ndr.] a costruirlo su un suolo di sua proprietà, affrontando mille difficoltà, spendendo i suoi risparmi, e bussando alle porte di “chi poteva”, più che a quelle dei suoi poveri concittadini che comunque non lo lasciarono mai solo. Il risultato fu ed è ancor oggi un’opera monumentale, dotata di aule scolastiche, servizi, cappella, teatro, uffici, sala mensa, appartamenti per le suore al primo piano, ampie terrazze panoramiche, e un bel giardino che dà su via Vittorio Veneto, ingresso dal civico 29.
Quell’Asilo ha sfornato ometti (nel senso di bambini giudiziosi, di ambo i sessi) che hanno successivamente intrapreso le carriere più disparate: dal contadino al professore universitario, dal medico all’artigiano, dal sacerdote (o dalla monaca) all’imprenditore, dal musicista al militare, dal manager al libero professionista, dall’ingegnere allo scienziato, dallo stilista all’operaio, dal filosofo all’impiegato…
E giacché pure quell’inqualificabile scavezzacollo che risponde al nome del sottoscritto.
Antonio Mellone
mag212025
mag192025
Ore 18.08 dell’8 maggio quando dal comignolo della Cappella Sistina arriva la fumata bianca, anch’io sto guardando la TV.
Noto subito fibrillazione, urla di gioia, espressioni di grande attesa. I giornalisti rimasti in Sala Stampa si precipitano fuori, verso la piazza. Via della Conciliazione è un fiume di gente che arriva trafelata, quasi di corsa. Giovanni, 34 anni, manager romano, dice che è “incredibile. Questo è un momento storico”. Quando la Chiesa sembra nascosta, soprattutto in Europa, è bello vedere tutta questa gente che arriva a Roma. Sì, è proprio così: il cristianesimo è stato dichiarato morto tante volte e invece è più vivo che mai, perché fondato sulla fede di un Dio che sa come uscire dal sepolcro.
Un gruppo di pellegrini spagnoli che stava per entrare in piazza per varcare la Porta Santa viene invitato a fermarsi. Alcuni bambini diretti a una festa in maschera arrivano con gli abiti d’occasione: festa annullata; c’è da attendere il nuovo Papa. In meno di un’ora in piazza San Pietro si trovano centocinquantamila persone.
Quell’ “Habemus Papam” preannunciato dalla fumata bianca con il protagonismo della famigliola dei gabbiani della Cappella Sistina, ormai famosi in tutto il mondo, mi incolla lì alla mia poltrona. Aspetto di sapere chi è il nuovo successore di Pietro e quale nome ha scelto. Seguo con attenzione ed emozione: “qui sibi nomen imposuit Leonem XIV...” “ha scelto di chiamarsi Leone XIV”. Una sorpresa. Nome bellissimo.
A quel punto, come m’accade spesso, ho cominciato a pensare anche a Noha.
Sì, nel 1400 a Noha i nostri antenati hanno venerato e celebrato San Leone: il nome che ha scelto il nostro nuovo Papa.
Tutti ormai dovreste sapere che a Noha c’erano 13 chiese; alcune ci sono ancora, di tante s’è persa la memoria, ma di qualcuna esiste tuttora qualche indicazione: della chiesa di San Leone (o San Leo) è rimasto il nome. Ebbene sì, nella mappa a corredo di queste note, si osserva oltre all’espansione del territorio della nostra cittadina anche il toponimo di San Leo o San Leone.
Da documenti certi sappiamo che tutte quelle chiese erano affidate alla cura pastorale dell’arciprete di quel tempo che si chiamava don Giovanni, definito quale arciprete della Terra di Noha. Insieme all’arciprete ci sono altri sacerdoti, come per esempio don Francesco di Noha, don Nicola Canozuri, ma c’è anche don Leone, o meglio papa Leone secondo la nostra antica cultura greco-bizantina.
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