Di Marcello D'Acquarica (del 01/11/2021 @ 15:33:02, in NohaBlog, linkato 1076 volte)

E’ tempo di vendemmia e Lino, un carissimo amico di Noha, mi invita a rivedere le procedure per la preparazione del vino, di cui qualcuno dice: uno dei tanti doni di Dio per la gioia degli uomini (e anche delle donne).

Quindi fra una prima rimessa di rosato, un rimescolamento del mosto e una spremitura ci scappa una specie di assolo musicale: il suono metallico del torchio che pressa a forza di vite, in questo caso senza fine. Sono sensazioni che fanno parte del profondo di ognuno di noi, indescrivibili.

Sono tante le storie che passo dopo passo emergono come suppellettili da un Titanic affondato.

E’ l’esercizio della memoria, quella cosa che diventa storia per cui se non la esercitiamo non impariamo mai la lezione.

Rosina, la zia del mio amico, è una protagonista importante di questa piccola storia, perché porta con sé le gioie del suo tempo e abbandona il resto, costringendo il tutto in un bel bicchiere di vincotto che ci prepara con gioia e condividiamo per l’occasione: una pagina di ricordi anche questa, del vincotto, straboccante di cose semplici.

Ed è grazie a Rosina che spunta fuori come da un cilindro magico una bellissima testimonianza: una foto di venti splendide ragazze di Noha, appartenenti al gruppo di Azione Cattolica del 1950, e alle loro spalle a fare da sfondo, la maestosa cupola della chiesa madre di San Michele Arcangelo. Dalle scarne informazioni raccolte e dal cartello tenuto in mano dalle due ragazze centrali, pare si trattasse dei festeggiamenti per l’elezione di Giovanni XXIII, il Papa buono, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, eletto vescovo di Roma il 28 ottobre del 1958 e incoronato 261° pontefice il successivo 4 novembre. 

Mi vengono subito alla mente certe lettere di Don Paolo, l’Arciprete Curato di Noha di quegli anni. Una strana sequela di lettere e comunicati fra Don Paolo e gli enti pubblici, che descrivono le peripezie della nostra bellissima cupola. Pare che con i suoi spicchi di vetro e maioliche riflettesse la luce del sole in mille frammenti luminosi tanto da sembrare una stella. Qualcuno volle vedere in quei bagliori i riverberi provenienti dai paesi lontani, dove molti figli nohani dovettero anche allora andare in cerca di fortuna.

Il 15 dicembre del 1936, per esempio, il nostro Don Paolo deve sollecitare ancora una volta un intervento urgente riguardante la stabilità della cupola, e difatti così scrive:

 
Di Antonio Mellone (del 20/11/2021 @ 14:48:37, in NohaBlog, linkato 727 volte)

Qualcuno - pochissimi invero, forse uno soltanto - m’ha chiesto le motivazioni di questo mio diciamo silenzio stampa lungo un mese o forse più. In effetti è da un bel po’ che non compare su questo o quel supporto uno dei miei (del tutto inutili) articoli.

Insomma, quel che sta accadendo m’appare così onirico che non è che sia rimasto senza parole (ché anzi quelle mi verrebbero a cascata e triviali pure) ma davvero non saprei da dove cominciare. Oltretutto, nel caso proferissi verbo, mi inimicherei i tre quarti dei superstiti conoscenti, mentre il restante quarto metterebbe mano alla fondina delle consuete esilaranti querele temerarie.

Non è un mistero quanto sia in auge una guerra all’ultima fiala tra Punturisti Sì e Punturisti No - e mai sia Signore se nutri un seppur minimo dubbio – espressione sublime, codesta aspra contesa, del fondamento di qualsivoglia potere molto ben espressa dal motto del IV sec. a.C. attribuito a Filippo il Macedone, vale a dire Divide et impera (ovviamente le divisioni afferiscono le classi basse, dico le classi pollaio, mentre le alte sono eccome solidali fra loro, quando addirittura non ricevono solidarietà dalle prime). Per fortuna la scrittura è pur sempre un filtro della realtà, e questo lo sapevano bene anche gli esponenti del Verismo, onde ormai quasi tutto è letteratura fantasy, probabilmente persino quella che s’ammanta dell’attributo di scientifica.

E così grazie dall’assolutismo illuminato del neoliberismo abbiamo testé celebrato il punto G20 e poi la Cop26 (denominazione che rievoca tanto quella di un ipermercato da black friday): si tratta di club esclusivi nei quali i Grandi, spesso coincidenti con i Competenti, cioè Esperti, e dunque Migliori, tutti allarmati per il clima stan facendo di tutto per toglierci dal baratro nel quale noialtri ci siamo venuti a cacciare, con l’ausilio delle loro truppe d’appalto in uno col loro filantropismo. Manco messo piede a terra dai lor jet privati, ci han fatto sapere che questa è un Emergenza (ormai non è più vita senza almeno un’emergenza apocalittica in corso), e che non v’è nemmeno un minuto da perdere da qui al 2060. Ergo il problema ormai è soltanto il riscaldamento globale, mica il cancro locale o i veleni o l’agricoltura trasformata in un laboratorio di chimica inorganica o i sacri dogmi del “mercato” o i brani di morale guizzanti dalle colonne della stampa padronale. E taccio sui fondi del Recovery Plan, o come cavolo si chiami, che i malpensanti credono siano a strozzo: ma che ne sanno questi ultimi di Green (con tanto di pass), e ancora di Bio, Sostenibilità e Resilienza, armi contundenti dei novelli crociati contro il noto grado e mezzo della scala Celsius.

 
Di Antonio Mellone (del 08/12/2021 @ 00:13:50, in NohaBlog, linkato 871 volte)

In una fredda serata di esattamente vent’anni fa, era dunque l’8 dicembre 2001, un anziano prete, il volto rigato da lacrime di commozione, apriva per la prima volta davanti al suo popolo il portale ligneo di un complesso monumentale nuovo di zecca. La chiave gli fu passata a sorpresa dal vescovo, intervenuto insieme ad altri per la solenne circostanza.

Quel sacerdote era la buonanima dell’allora parroco di Noha don Donato Mellone, mentre le opere parrocchiali (cioè la grande chiesa dal tetto in legno, la cappella, la sagrestia, gli uffici, il salone seminterrato che poi divenne teatro e oratorio, le aule catechistiche, eccetera) quelle dedicate alla Madonna delle Grazie, sorte su di un sito da tempo immemore pieno di cumuli di materiale edilizio di risulta. Accanto, o meglio di fronte all’ingresso della chiesa, v’era una specie di campetto in terra battuta non regolare, dove da ragazzi noialtri provavamo a simulare il gioco del calcio all’ombra di un annoso albero di fico, per fortuna superstite, e vivo e vegeto. Adesso quel terreno è un piccolo parco comunale con alberi ed erbetta, mentre il campo di calcetto (questa volta regolamentare e con tanto di illuminazione) traslocò a una decina di metri di distanza. 

Il vecchio curato (che non aveva mai posseduto ville o palazzi, men che meno appartamenti al mare, ma soltanto due stanze più servizi in piazzetta Trisciolo, eredità dei genitori) asseriva che in quell’area di forte espansione edilizia mancava proprio “la casa più importante”, e s’era impelagato, nonostante la veneranda età (“Sono ormai ai tempi supplementari”, andava ripetendo), nell’avventura del costruirne una secondo il suo personale concetto di Casa: che era dunque Domus, vale a dire Duomo. Non fu semplice, “tanto che - come rivelò dal pulpito quella stessa sera – sembrava che a una difficoltà superata ne subentrasse un’altra, e insieme a queste lo scoraggiamento. Ma oggi qui posso dire che ce l’ho fatta. Ma non da solo. […]”. Seguì così tutta una serie di ringraziamenti, a partire dalla “direttrice dei lavori” (per lui la stessa Madonna delle Grazie, compatrona del paese), fino all’ingegnere Vincenzo Paglialunga, progettista e responsabile dell’opus, dai vescovi idruntini al popolo nohano, dai chierichetti ai collaboratori vicini e lontani. Intervenne di rimando il metropolita idruntino per dire coram populo che nel novero dei benemeriti cui render grazie mancava giusto lo stesso Don.  

 
Di Antonio Mellone (del 21/12/2021 @ 20:57:11, in NohaBlog, linkato 939 volte)

Avete presente Dante Alighieri, quel signore dal naso adunco che ha fatto finta di morire giusto settecento anni fa? Ebbene, non immaginate quanto mi siano di conforto le sue parole architettate nel mezzo del cammin di sua vita alla luce della messinscena corrente, che dico, isteria collettiva e imperterrita, nella quale, se solo osi alzare ciglio o storcere il muso professandoti un pizzico scettico nei confronti dell’informazione monocorde, vieni tacciato di apostasia, incriminato di mendacio, e condannato senz’appello all’ostracismo.

Ebbene, come asseriva quello, in quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore, dico di chi considera le ideologie (cioè i sistemi di pensiero, rappresentazioni e valori essenziali all’elaborazione di teorie e politiche) ormai come una granata pronta a esplodere, e dunque da disinnescare urgentemente al fine di ricondurre tutti nel recinto perentorio e inclusivo di realismo e pragmatismo, sviluppo-resilienza-e-ripresa, lauree Stem e specializzazione estrema (e maisia se parli di guerre puniche), e finalmente di scienza cui sciogliere, fedele, inni e canti.

Ma ora, liberati da certi sillogismi, smettendo di ragionar di loro, proviamo a trasumanar alla volta del Paradiso.

Siamo nel XXXIII canto della Divina Commedia, l’ultimo di cento, quello nel quale il Poeta - grazie alle preghiere di San Bernardo di Chiaravalle (e degli altri beati) rivolte alla “Vergine Madre, figlia del suo Figlio” - ottiene la grazia di vedere Dio e di penetrare nei misteri della Verginità di Maria, dell’Ubiquità del Creatore nel suo creato, della Trinità, e infine dell’Incarnazione. In summa, un vero e proprio trattato di teologia in endecasillabi e rime.

Ora, ai suddetti quattro misteri se ne aggiunge un quinto: quello della mia diciamo silhouette che, vi giuro, è sempre la solita che si definirebbe asciutta, benché in questo video appaia, come dire, alquanto impinguata (né si tratta invero di ipertrofia del mio apparato muscolare dovuto a palestre o piscine: ché io avrei già enormi problemi con la cultura, figuriamoci col culturismo).

Ma l’arcano è subito disvelato: colpa o dolo del cardigan sottogiacca bigio, ormai obsoleto, infeltrito e ridotto ai minimi termini dopo gli innumerevoli lavaggi (a mano) da parte della regina madre: da qui l’effetto elastocompressivo del tronco.

Replichereste che avrei potuto indossare qualcos’altro di meno indecoroso prima delle riprese. E pensate voi che ne abbia avuto il tempo? Macché, neanche quello di cambiare gli scarponi da pioggia che non sono il massimo per la pedaliera di un organo a canne, né di radermi la barba di un giorno (più antiestetica, si sa, rispetto a quella di due), e men che meno di guardarmi propedeuticamente in uno specchio (dato che la chiesa madre di Noha ne è sprovvista da sempre).

 
Di Fabrizio Vincenti (del 23/12/2021 @ 20:53:17, in NohaBlog, linkato 1034 volte)

È Natale. Lo so che non ce ne siamo accorti, ma è Natale anche quest’anno.

Mai come ora è necessario ribadire che il Salvatore è già nato, secoli fa, e non ce ne sono altri da nessun’altra parte.

Voi potete ostinarvi a mettere quel che volete nei vostri presepi freddi e artificiali, ma quella mangiatoia non riuscirete a riempirla con nessun altro se non con quel Salvatore di cui una volta si parlava tanto. Ora non più. Non se ne sente parlare nelle Chiese; persino il Vaticano è reticente nel pronunciarne il nome.

L’aria che tira fuori da Betlemme è tossica. Perfino tra i pastori, chiamati a suon di urla dagli angeli, esterrefatti davanti all’obbrobrio dell’animo umano, non c’è alcun accordo su quale sia la direzione giusta per la grotta. E mentre si perde tempo, e ci si sbraita addosso come se dei dèmoni avessero iniettato rabbia nelle vene dei malcapitati, Lei sta già partorendo, tra sante urla di dolore, inascoltate da gente ingrata per la vita, per la libertà e per la dignità che da lì a poco ci è data, tanto che qualcuno, lassù, ha avuto così tanta fiducia e coraggio da chiamarci figli. Pur sapendo che mai ci saremmo considerati e comportati da fratelli.

È stato fatto di tutto quest’anno affinché nessuno si accorgesse che la stella si è posata lì dove spunta il mistero. Erode ha anticipato tutti, re magi, angeli e pastori. Ha mandato le sue guardie a confondere, a terrorizzare, ad aizzare la folla in preda ai fumi allucinogeni, con lo scopo di negare il mistero.

Voi potete star lì, vicino al vostro fuocherello, notte e giorno, giocando con i vostri dati: quante sono le pecore, quanto latte si munge, quali producono la lana migliore, quanti sono gli arieti, quanti cani avete per tenere compatto il gregge, quanto guadagnerete quest’anno con il formaggio. E mentre fate i vostri calcoli, maledicendo il pastore a voi vicino, pensando che sia sua la colpa della vostra disgrazia, Erode ha già realizzato il suo piano.

Il Salvatore è nato e nessuno se n’è accorto. E non avete idea di quello che è accaduto veramente, poiché non si è mai visto un mistero più grande di questo. Uno nasce per poter dire di essere figlio e per poter dire a voi, gente distratta, che avete un Padre e per questo non ci dovrebbe essere discordia tra di voi, poiché la sua eredità non si esaurisce per quanto possano essere egoisti i vostri calcoli.

Vi è stato detto di non parlare con quello e di non invitare a casa vostra quell’altro. A memoria, vi risulta che il Salvatore abbia mai detto qualcosa del genere? A voi, pastori ingrati, vi risulta che in vita sua il Salvatore si sia mai comportato così?

L’unica cosa alla quale Erode ci tiene più della sua stessa vita è cancellare il Mistero dalla storia, dalle vostre vite. E non sapete che è proprio il Mistero il significato che più si addice al Natale?

Tu, con tutti i tuoi dati, vorresti spiegare il mistero di Dio che nasce, dall’eternità alla storia per trasformarla in una storia eterna? Non ci riuscirai, né tu, né Erode con tutte le sue guardie di palazzo. Nessuno può impedire a quella Presenza di riempirti la mangiatoia, se non il tuo cuore di pietra ricoperto di cianfrusaglie. Fai spazio, fuori, dentro, ovunque tu possa, fai spazio, poiché il letame di Erode ti ha già ricoperto le ginocchia. Zittisci tutti e fai parlare il Mistero che poi, in fondo, è quanto di più silenzioso tu possa immaginare. Non è questo di cui tu ed io abbiamo bisogno? Del silenzio del mistero del Natale!

 
Di Antonio Mellone (del 31/12/2021 @ 08:39:18, in NohaBlog, linkato 621 volte)

L’avrei fatto di persona se avessi potuto incontrarvi ancora una volta a scuola, come si dice, in presenza: ma è da un bel po’ che questo è sostanzialmente vietato. È vero, qualche mese addietro ho avuto l’opportunità di conferire con alcuni fra voi: ma è stato a distanza, ed è tutta un’altra cosa.

La prendo un po’ alla larga (ché è letteratura divagare), per dirvi che noi tutti, dico lo stato, vi dobbiamo delle scuse. Sì certo, per come abbiamo ridotto la scuola a colpi di “riforme”.

Se siamo arrivati fino a questo punto, cioè a “ragionare” come un sol gregge, e sovente a non saper scrivere o intrattenere una conversazione di senso compiuto, e forse anche a non cogliere il senso (profondo, sfumato, metaforico, satirico, eccetera) di quel che si legge o si ascolta, a non intendere i dati, le grandezze, le loro relazioni, e a confondere cose all’apparenza simili ovvero a non riconoscere la consonanza di quelle dissimili, e infine a farci convincere in massa dagli imbonitori televisivi ultimamente travestiti pure da scienziati, ergo a considerare ormai la scienza come una religione da professare con atti di fede, è anche (soprattutto) per via della scuola diventata facile, con la scusa che debba essere “democratica e progressista” (temo che ai più sfugga quanto abbassare il livello degli studi sia l’atto più antidemocratico in assoluto: onde i rampolli dei ceti padronali frequentano scuole difficili, altroché).

È che alle classi spesso è associato il lemma “pollaio”; han sostituito molte ore di lezione con i corsi di orientamento; i professori non stanno più alle calcagna degli studenti e non possono chiedere più di tanto (sicché dal dizionario del corpo docente sono stati banditi i verbi esigere e pretendere); i genitori sono diventati sindacalisti della prole quando non avvocati difensori. In definitiva la bocciatura è stata bocciata, le interrogazioni sono diventate “programmate”, e i voti (soprattutto i cattivi voti un tempo dispensati senza pietà) del tutto scomparsi dalla circolazione.

 
Di Antonio Mellone (del 08/01/2022 @ 15:36:59, in NohaBlog, linkato 1125 volte)

A commento della prima immagine, pubblicata qualche anno fa su questo stesso schermo, un’amica scriveva tra le altre cose: “Lo scultore pare egli stesso una scultura e la sua opera di sabbia una sua proiezione, anche nella fragilità: un’opera di grande bellezza ma già predestinata a vita breve”.

Consapevolmente o meno, la mia amica in maniera lapidaria e granitica aveva vergato l’epitaffio di Gino Tarantino, nohano e artista enciclopedico, che oggi di 15 anni fa s’era congedato dal piattume (anche senza i) di questo mondo. Aveva 53 anni.

Per chi non lo avesse conosciuto e per chi non lo sapesse ancora, Gino era l’esponente di un’avanguardia che aveva fatto non solo dell’opera figurativa o plastica, delle performance teatrali o dell’architettura, della sperimentazione audiovisiva o del linguaggio, ma anche della sua stessa vita e delle sue mille a volte inedite relazioni un’opera d’arte.

Tutto quello che toccava diventava claritas, integritas et proportio, fosse anche, come in questo caso, un pugno di sabbia. Non potevi sottrarti alle sue provocazioni, ti inchiodava alle tue responsabilità come i suoi enormi poster sul muro, mentre i dogmi ancestrali rischiavano di caderti sui piedi.

Chissà cosa avrebbe detto oggi nel bel mezzo della fiction distopica nella quale ci siamo andati a cacciare se non tutti, quasi. Probabilmente, novello Picasso, ci avrebbe rappresentati in una sua personale Guernica.

Certo canonizzare uno fuori dai canoni, vale a dire un anarchico come Gino Tarantino, potrebbe apparire come una forma topica di antitesi: ma, si sa, a volte i monumenti occorrono più a una storia comunitaria che a quella personale, molto di più a una geografia che all’agiografia del personaggio.   

Credo dunque che sia arrivato il momento d’intestare quanto meno una piazza o una strada di Noha a questo suo figlio. E dovremmo farlo non per lui, che al solo pensiero scoppierebbe in una fragorosa risata, ma per noi altri, troppo di frequente contagiati dal virus infettivo e molesto di una smemoratezza che ci ha viepiù ridotti a mere figure di sabbia. 

Antonio Mellone

Note: alcune immagini sono tratte dal profilo fb dell’artista. Si ringrazia l’anonimo autore.

 
Di Marcello D'Acquarica (del 07/02/2022 @ 08:00:49, in NohaBlog, linkato 1193 volte)

I cimiteri a Noha sono stati tanti e in parte lo sono ancora. Noha conserva ancora alcune testimonianze e i posti in cui sono stati seppelliti i morti fin dal tempo dei Messapi.

Andiamo per ordine.

Negli anni fra il 1954-57, a Noha ci fu una mezza rivoluzione urbanistica. Il Paese Italia era da poco uscito dal disastro della seconda guerra mondiale, e la cosiddetta “ricostruzione” venne pure nella nostra Noha, difatti è di quegli anni la costruzione del cimitero attuale in contrada “La Monaca”. Dello stesso periodo è la piantumazione degli eucaliptus di via Aradeo, e l’asfalto della vecchia via Santa Lucia,  che da Galatina portava e porta  a Noha per proseguire successivamente verso Collepasso e verso Aradeo.

In quella occasione, tagliando il monte roccioso per far diminuire l’eccessiva pendenza del terreno adiacente allo stabilimento Brandy Galluccio, vennero alla luce delle tombe antichissime. Dai reperti funebri trovati, si capì che risalivano al tempo dei Messapi. Anche nell’ultimo sopralluogo della Soprintendenza di Lecce (vedi prot. 0012250; 19/06/2017; CI. 34.31.01/59), il funzionario che ha visto i resti trovati nelle tombe ancora esistenti, ne ha confermato l’antichità.

A pochi metri dall’ex Stabilimento Brandy Galluccio, in direzione di Collepasso, qualche anno dopo, durante lo scavo per le cisterne di un distributore di carburante, venne alla luce la tomba di un visir turco, Risalente probabilmente al periodo antecedente l’eccidio dei Martiri di Otranto eseguito dai Turchi. Fu quello un lungo periodo in cui le scorrerie dei saraceni furono frequenti. Gli invasori Turchi rimasero nel Salento per circa un anno invadendo anche Galatina e Noha e qualcuno quindi ci moriva pure.

Sempre nella stessa zona, in alcune case private, in occasioni di ristrutturazione di vecchi caseggiati, sono state trovate altre tombe.

Altre sepolture sempre in zona, sono emerse dall’abbattimento della Masseria cosiddetta “le cambare”, la struttura di fronte che era di fronte alle case di corte del palazzo baronale, esattamente dove oggi sono le Casiceddhre di Cosimo Mariano, casette che se potessero parlare avrebbero da dirci un sacco di cose, pure brutte. Evidentemente quell’area è stata per molti secoli luogo di sepolture, un grande cimitero della Noha antica. Non è difficile immaginarne la ragione visto che l’antico abitato si limitava all’agglomerato rappresentato nella mappa. Per cui l’area in questione era in periferia, lontana dalle case. Anche perché i Messapi usavano seppellire i loro morti fuori dall’abitato.

 
Di Antonio Mellone (del 16/02/2022 @ 20:52:01, in NohaBlog, linkato 1780 volte)

Accanto alle mie Fette di Mellone sarebbe forse opportuno dar vita a una nuova rubrica da denominare Fette di Polpettone. Nella prima antologia, ormai ultradecennale, si raccattano brani di peste e corna; nella seconda estratti di pasta e carne.

Le prime – così invise ai devoti della religione del politicamente corretto - sono dedicate alle gesta eroiche di pOLITICI soprattutto ahimè locali (una prece), nonché alle prodezze imprenditoriali di chi sembra fatto apposta per fare strame di beni un tempo comuni tipo acqua, spiaggia, scogliere, aria, campagna, storia, arte e, con l’occasione, grammatica, sintassi e diritto; le seconde contemplano invece le leccornie di chi in direzione ostinata e contraria ha deciso di non svignarsela dal paesello (parlo di Noha), ma di radicarvisi viepiù aprendo bottega, sfidando il fato e un bel po’ di luoghi comuni, onde il primo prodotto da banco è il coraggio (ebbene sì, molti giovani di queste contrade per fortuna ne hanno da vendere).

Son così passati in rassegna sotto forma di inchiostro questa volta simpatico (mentre la penna delle Fette di Mellone viene intinta perlopiù nell’antipatico) pescherie e frutterie, pizzerie e rosticcerie, pasticcerie e bar a chilometro zerovirgola. Questa è la volta di una gastronomia da asporto “nuova di zecca”, inaugurata in via Aradeo nel mese di luglio dello scorso anno, appellata La Roncella e gestita dalle sorelle Maria Teresa ed Elisabetta Colazzo.

Ci ho dovuto apporre le virgolette a Nuova Di Zecca in quanto è vero che insegne, laboratorio, vetrine, bancone e titolari non hanno alle spalle chissà quanta archeologia di scartoffie legate al mondo dell’imprenditoria, ma di certo vien da lontano quella dote ricevuta da mamma Anna sotto forma di segmento di Dna, la quale a sua volta l’aveva raccolta in dono dalla Lina, sua genitrice e antesignana di questa storia partita, appunto, dalla dispensa di nonna.

 

Canto notturno di un pastore ...

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